venerdì 20 novembre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", IX parte

Atlantide

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Capitolo XVII (pp. 111-118)

L’arte dionisiaca dà una consolazione metafisica che ci strappa al congegno delle forme mutevoli. Noi superiamo la nostra individualità e, come il poeta lirico, ci identifichiamo con quell’unico essere vivente e comprendiamo la necessità dell’annientamento delle apparenze data la sovrabbondanza delle forme che si urtano e si incalzano alla vita. Nella tragedia gli eroi parlano più superficialmente di quanto non agiscano, come Amleto del resto.

I Greci sono, come dicono i sacerdoti egizi, gli eterni fanciulli e nell’arte tragica non sanno quale sublime giocattolo sia nato nelle loro mani.
Lo racconta Platone nel Timeo.
Quando Solone era in Egitto, un sacerdote molto vecchio gli disse: “Solone, voi Greci siete sempre fanciulli, e un Greco vecchio non esiste: “  \W Sovlwn, Sovlwn,   {Ellhne" ajei; paidev" ejste, gevrwn  d j   {Ellhn oujk e[stin (22b).
 Essi non hanno ricordo delle vicende più antiche a causa dei diluvi che periodicamente ne sconvolgono la civiltà. Il diluvio celeste lascia sopravvivere solo gli ignari di lettere e di Muse, sicché si perde il ricordo dei tempi antichi.

Storicizzando i diluvi, possiamo dire che la vittoria della barbarie spazza via la classe colta. Si pensi ai nobili rimproverati da Augusto perché non si sposavano e non facevano figli.
Gli Ateniesi novemila anni prima avevano le stesse leggi degli Egiziani e si opposero all’imperialismo di Atlantide ma poi ci fu una catastrofe per la quale i guerrieri di Atene sprofondarono dentro la terra e Atlantide fu assorbita dal mare (Timeo, 25d).
Nel Crizia sono descritte Atlantide e Atene come città rette da dèi: la prima da Posidone, Atene da Atena ed Efesto. In Atlantide però si estinse l’elemento divino ed essa diventò gonfia di ingiustizia e di prepotenza (121b). Allora Giove, compresa la degenerazione della stirpe, decise di punirla.

La tragedia dunque dopo Euripide sparisce ma la concezione dionisiaca del mondo sopravvive nei misteri. Fu l’ottimismo della scienza a uccidere la tragedia e la scienza deve raggiungere i limiti estremi perché la tragedia rinasca.
Cfr. Il Prometeo incatenato di Eschilo, il Frankestein  di Mary Shelley e La coscienza di Zeno di Svevo.
 La scienza uccide il mito e senza mito non c’è poesia. Il nuovo ditirambo attico presentava una musica che riproduceva non la volontà stessa ma l’apparenza.
Era una musica intimamente degenerata. Aristofane colse nel segno riunendo nello stesso sentimento di odio Socrate, Euripide e i nuovi ditirambi attici la cui musica era ridotta in maniera scellerata a immagine imitatoria dell’apparenza e fu privata della sua forza creatrice di miti. Con il nuovo ditirambo la musica è divenuta una meschina immagine dell’apparenza, più povera dell’apparenza stessa.
Allora una battaglia diviene rumore di marcia e clangore di segnali. La musica è diventata schiava dell’apparenza. Euripide che aveva una natura non musicale era partigiano della nuova musica ditirambica.

Con Sofocle inizia l’affermarsi della rappresentazione dei caratteri e della raffinatezza psicologica. Il carattere non è più un tipo eterno  e lo spettatore non sente più il mito ma la verità naturalistica e la forza di imitazione dell’artista. C’è il piacere e il gusto del singolo preparato anatomico. Sofocle per lo meno dipinge ancora caratteri interi. Euripide dipinge solo grandi tratti caratteristici che si rivelano in violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto maschere con una sola espressione: vecchi frivoli, lenoni gabbati, schiavi scaltri in instancabile ripetizione. La musica diventa uno stimolante per nervi ottusi e consunti o musica descrittiva.
L’Edipo a Colono di Sofocle però mostra ancora nel modo più puro l’accento di una conciliazione proveniente da un altro mondo.  Ismene dice al padre: nu`n ga;r qeoiv sj ojrqou`si, provsqe d’  w[llusan (394)
Ma dopo Sofocle non c’è più consolazione metafisica, bensì l’eroe che fa un buon matrimonio o, come il gladiatore, viene prima scorticato poi riceve la libertà. E al posto della consolazione metafisica subentra il
deus ex machina. La consolazione metafisica degenera in culto segreto. La serenità greca diventa voglia di vivere senile e improduttiva. L’aspetto più nobile di questa tarda serenità è la serenità dell’uomo teoretico che dissolve comunque il mito e utilizza il dio delle macchine e dei crogiuoli.
 E’ il credere a una correzione del mondo per mezzo del sapere , credere a una vita guidata dalla scienza. Una canuta o calva assennatezza.


Capitolo XVIII (pp. 118-124)

Ci sono tre gradi di illusione: quello socratico della conoscenza, quello dell’arte e la consolazione metafisica per cui la vita eterna continua a fluire indistruttibile sotto il vortice dei fenomeni. Sono le nature più nobilmente dotate che cercano queste illusioni. Costituiscono la cultura e, a seconda delle proporzioni o delle mescolanze, abbiamo una cultura socratica o artistica o tragica, o, con esemplificazioni storiche, una cultura  alessandrina o ellenica o buddhistica.
Socrate è il prototipo della cultura alessandrina e dell’uomo teoretico dotato di grandi forze conoscitive e posto al servizio della scienza (p. 119)
L’uomo di cultura diventa un personaggio erudito.
Faust si precipita attraverso tutte le discipline dedito alla magia e al diavolo per brama di sapere, ma è insoddisfatto ed è l’uomo moderno che comincia a sentire i limiti di quel piacere socratico per la conoscenza e dal vasto mare del sapere anela a una costa (p. 120).
Per l’uomo moderno, l’uomo non teoretico è qualcosa di incredibile e di stupefacente, tanto che Goethe scrisse a Eckermann a proposito di Napoleone: “Sì, mio caro, c’è anche una produttività nelle azioni”.

La cultura alessandrina ha bisogno, per durare, di una classe di schiavi di cui del resto nega la necessità, e va incontro alla distruzione quando questa classe barbarica di schiavi ha imparato a considerare la sua esistenza come un’ingiustizia. Le grandi nature capiscono i limiti della  conoscenza e della scienza. Kant e Schopenhauer hanno sconfitto l’ottimismo che si cela nella logica. Tale ottimismo si appoggia su aeternae veritates che crede insospettabili e crede nella conoscibililità di tutti gli enigmi del mondo e considera lo spazio, il tempo, la causalità quali leggi assolute, mentre Kant le considera strumenti - (forme a priori della sensibilità umana Critica della ragion pura (1781, in originale Kritik der reinen Vernunft) - dell’apparenza elevata a suprema realtà al posto della vera essenza delle cose rendendo questa in conoscibile e, come dice Schopenhauer, addormentando ancora più profondamente uno che sogna.
La cultura tragica eleva a meta suprema non la scienza ma la sapienza che, diversamente dalle scienze,  guarda l’immagine totale del mondo e ne raccoglie l’eterna sofferenza come sofferenza propria (p. 122)    
To; sofo;n d  j ouj sofiva (Baccanti, v. 395):  La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica:" la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza". La sapienza si tuffa nel fiume della vita. La scienza al contrario è il fine dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile fiume  dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva"[1] .
“La scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti, cimitero delle intuizioni”[2].
Cfr. la grammatica grande sepolcreto delle regole e delle eccezioni, cimitero della lingua e della letteratura.
“Vi sono coloro che promettono di risolvere una questione come quella omerica, prendendo spunto dalle preposizioni, e credono di tirar su la verità dal pozzo servendosi di ajnav e katav. (Sull’avvenire delle nostre scuole, 1872, p. 71)

“All’idea di classicità, Nietzsche sostituisce in definitiva quella di tragicità: la civiltà greca non è una civiltà classica ma piuttosto una civiltà tragica”[3].
Vale la pena di riferirne anche l'esegesi di T. Mann:"A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso"[4]. Su questa opposizione sapere/sapienza riferisco, di seconda mano, Eliot che pure è uno dei miei massimi maestri:"Eliot affermava:"Qual è la conoscenza che noi perdiamo nell'informazione e qualè la sapienza (wisdom) che perdiamo nella conoscenza?"[5].
 Interessante a questo proposito è un elogio dello stupore di H. Hesse:"Per stupirci siamo qui!" dice un verso di Goethe. Tutto inizia con questa stupefazione e con essa termina, tuttavia non è un cammino vano. Sia che io ammiri un musco, un cristallo, un fiore, un maggiolino d'oro, sia che guardi un cielo solcato dalle nuvole, un mare con il pacato gigantesco respiro della sua risacca, l'ala di una farfalla con la trama ordinata delle sue costole vitree…in quello stesso istante io ho abbandonato e dimentico il mondo avido e cieco dell'umana necessità e, anziché pensare a comandare, acquistare, sfruttare, combattere o organizzare, non faccio altro, per quell'istante, che provare la "stupefazione" goethiana e, contemporaneamente, non divengo solo fratello di Goethe e di tutti i poeti e saggi, ma sono anche fratello del cosmo vivente che contemplo e sperimento: della farfalla, del coleottero, della nuvola, del fiume e del monte. Percorrendo la via dello stupore, sono infatti sfuggito per un attimo al mondo delle differenziazioni e sono entrato in quello dell'unità, dove ogni cosa o creatura dice all'altro: Tat twam asi ("Sei Tu")...non vogliamo lamentarci che nelle nostre università non si insegni a percorrere le strade più semplici per conseguire la saggezza e che, al posto dello stupore, si insegni l'esatto contrario: a contare e a misurare invece che perdersi nell'estasi, l'oggettività invece della malia, il rigido attenersi alle differenziazioni anziché subire l'attrazione del Tutto e Uno. Le università non sono scuole di saggezza, sono scuole di sapere, ma tacitamente postulano come conosciuto ciò che esse non possono insegnare: la capacità di osservare, la stupefazione goethiana, e i loro spiriti migliori non conoscono altra finalità più nobile che costituire un altro gradino perché Goethe e altri nuovi saggi si manifestino di nuovo"[6].
Seneca sostiene che la sapienza è l’unica libertà:  “Sapientia quae sola libertas est[7].
 Il sapere non vale nulla, non è sapienza quando non riconosce sopra di sé il sacro e il divino  che inspiegabilmente lega"con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna". Agostino afferma: “Ecce pietas est sapientia[8].
E' il caso di Edipo re  che crede di azzeccarci con l'intelligenza senza avere imparato nulla dagli uccelli ("gnwvmh/ kurhvsa" oujd& ajp& oijwnw'n maqwvn", v. 398) e fallisce. "Coloro che hanno interpretato l'Edipo re  secondo il modulo della "tragedia di conoscenza" hanno postulato che Sofocle abbia voluto rappresentare due tipi di conoscenza differenti per mezzi e possibilità, dal cui incontro-scontro risulterebbe il senso stesso del dramma. Si è parlato di un "sapere umano" e un "sapere divino"[9], di una conoscenza umana sensitiva e fondata sull'apparenza ed una conoscenza divina vera, cioè dovxa e ajlhvqeia, illusione e saggezza[10]. Edipo sulla scena sofoclea rappresenterebbe l'uomo raziocinante che si basa sulla conoscenza dei sensi e del proprio intelletto e che agisce di conseguenza, ma le coincidenze degli eventi fanno sì che alla fine tutte le sue costruzioni intellettuali si rivelano fallaci, mentre il sapere degli dei, incontrollabile e spesso incomprensibile per gli uomini, risulta essere l'unico sapere veritiero...In realtà, quello di Edipo non è un generico "sapere umano", ma rappresenta allusivamente il sapere di alcune correnti di sapere razionalistiche dell'epoca, e analogamente non si deve parlare tanto di generico "sapere divino", quanto piuttosto di sapere oracolare delfico, con le sue peculiari modalità espressive e celebrante un dato sistema di valori etici"[11]
Insomma la gnwvmh è fallace e gli uomini non possono comprendere tutto. Non solo le vie della divinità sono imperscrutabili ma anche quelle dell'incoscio.
Il motivo antiintellettualistico, ricorrente nell'Edipo, avrà un'infinità di riprese: da Euripide, il "filosofo della scena", quando giunge alla stanchezza postfilosofica delle Baccanti , al movimento dello Sturm und Drang ("il mio cuore-annota Werther  il 9 maggio 1772-è l'unica cosa della quale sono superbo...Quello che io so, lo può sapere chiunque, ma il mio cuore lo possiedo io solo". ), fino a Elias Canetti il quale in La provincia dell'uomo  afferma che "L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere...Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda che prima dormiva appiattata...Le sole risposte inaridiscono il corpo e il respiro"(pp. 1600-1601).
E' il  profeta  a nutrire la forza della verità (Edipo re, v.356) che non è potenza economica né militare, ma nemmeno cerebrale, anzi è consapevolezza dei limiti angusti che racchiudono le nostre facoltà intellettive.
Nell'episodio di Aconzio e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia, poi imitata da Ovidio nelle Heroides  (XXI lettera: Cidippe ad Aconzio) il poeta di Cirene afferma che l'ampiezza e la varietà del conoscere è un bene soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" il molto sapere è un grave male, per chiunque non è padrone
della lingua: è proprio come per un bambino avere un coltello"(fr.75 Pf, vv. 8-9).

L’uomo della cultura tragica è un uccisore di draghi che si lancia verso l’immenso, volge le spalle alle mollezze dell’ottimismo e desidera un’arte nuova, l’arte della consolazione metafisica e la tragedia come l’Elena che spetta a lui.
Tale uomo grida con Faust
“E non dovrei, con la più anelante violenza
Trarre in vita la forma unica fra tutte?”
L’uomo teoretico si spaventa delle conseguenze da lui prodotte e non osa più affidarsi al terribile fiume ghiacciato dell’esistenza ma corre su e giù lungo la riva. La concezione ottimistica l’ha rammollito. L’uomo moderno teoretico rimane l’eterno affamato, il critico senza piacere e senza forza, l’uomo alessandrino che è in fondo un bibliotecario e un emendatore che si accieca miseramente sulla polvere dei libri e sugli errori di stampa. (p. 123)
"La cultura comincia proprio dal punto in cui sa trattare ciò che è vivo come qualcosa di vivo"[12].  

“L’artista tragico non è pessimista-dice appunto sì a ogni cosa problematica e anche terribile, è dionisiaco” (Crepuscolo degli idoli o come si filosofa col martello, 1888,  p. 22)
“Giacché soltanto nei misteri dionisiaci, nella psicologia dello stato dionisiaco si esprime il fatto fondamentale dell’istinto ellenico-la sua “volontà di vivere”. Che cosa si garantivano i Greci con questi misteri? La vita eterna, l’eterno ritorno della vita…il trionfante sì alla vita oltre la morte”[13].
Wille zum Leben, volontà di vivere.


continua




[1] La nascita della tragedia , p. 122 e p. 123.
[2] G. Vattimo, Op. cit., p. 159.
[3] G. Vattimo, Op.cit., p. 69.
[4] T. Mann, Nobiltà dello Spirito, p. 814.
[5] E. Morin, op. cit., p. 45.
[6]H. Hesse,  La bellezza della farfalla , in Hesse L'arte dell'ozio , pp. 401-402.
[7] Seneca, Ep., 37, 4. 
[8] Confessiones, 5, 5, ecco la sapienza è pietà.
[9]Diller 1950.
[10]Cfr. su questa linea soprattutto Reinhardt 1933, trad. it. pp. 111-52; Bowra 1944, p. 162-211; Champlin 1969.
[11]G. Ugolini, Sofocle e Atene , p. 161.
[12] F. Nietzsche, Sull'avvenire delle nostre scuole, 1872,  p. 43.
[13] Crepuscolo degli idoli, p. 128.

1 commento:

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