martedì 24 novembre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", XI parte

il recupero del Partenone

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C’è dunque l’ascoltatore estetico e quello socratico-critico incapace di comprendere il mito “immagine concentrata del mondo che come abbreviazione dell’apparenza non può fare a meno del miracolo” (p. 151). Senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte circoscritto da miti può raccogliere in unità tutto un movimento di civiltà. Solo dal mito le forze della fantasia e del sogno apollineo vengono salvate dal loro vagare senza direzione.  Il mito garantisce la sua connessione con la religione, il suo crescere da rappresentanze mitiche. Le immagini del mito devono essere i demonici custodi, inosservati e presenti, sotto la cui vigilanza cresce l’anima del giovane e neppure lo Stato conosce leggi non scritte che siano più potenti del fondamento mitico.
Il socratismo tende alla distruzione del mito e a questo annichilimento segue l’educazione astratta, il costume astratto, il diritto astratto , il vagare senza regole della fantasia artistica non frenata da alcun mito patrio, una cultura che non ha un fondamento ma è condannata a nutrirsi affannosamente di tutte le culture. L’uomo senza miti, eternamente affamato, cerca radici in mezzo a tutti i passati. L’enorme bisogno storico della cultura moderna , l’affastellarsi di innumerevoli culture, l’insoddisfazione perenne dipende dalla perdita del mito, della patria mitica, del mitico grembo materno (p. 152).
Ma questa cultura non mitica non ha nulla a che vedere con la nobile essenza del nostro popolo (p. 152)

Veramente (ndr) Socrate non è ascrivibile a questa cultura antimitica.
Nel prologo del Fedro  Socrate dice a Fedro  che se non credesse al mito di Borea che rapì Orizia figlia del re Eretteo, come non ci credono oiJ sofoiv,  non sarebbe l’uomo strano (a[topo~) che è (229c). Potrei dire, facendo il sapiente sofizovmeno~, che un colpo di vento di Borea gettò Orizia giù dalle rupi  o dall’Areopago. E’ un’interpretazione ingegnosa, ma chi la fa, poi deve raddrizzare gli Ippocentauri, la Chimera, e Gorgoni e Pegasi e tutte le stranezze della natura. E per questo ci vuole molto tempo libero: ejmoi; de; pro;~ aujta; oujdamw`~ scolhv (229e).
Io non sono ancora in grado di conoscere me stesso kata; to; Delfiko;n gravmma, perciò mi sembra ridicolo geloi`on dhv moi faivnetai indagare cose che mi sono estranee- ta; ajllovtria skopei`n . Dunque dico addio a tali questioni, esamino me stesso skopw` ejmautovn, per vedere se per caso io non sia una bestia più intricata e più invasa da brame di Tifone o se sono un essere vivente (zw`/on) più mite e semplice,  partecipe per natura di una sorte divina e priva di superbia fumosa (Fedro, 230a)

Tutte le nostre speranze tendono a riscoprire, sotto questa vita civilizzata una forza antichissima, magnifica e intimamente sana, quella forza da cui è scaturita la Riforma tedesca  dal cui corale cominciò a risuonare la musica tedesca (p. 153).
Ora dobbiamo attenerci alle nostre luminose guide, i Greci. Da loro abbiamo imparato l’apollineo e il dionisiaco e il tramonto della tragedia è dovuto al disgiungersi di questi due istinti artistici originari. La fine della tragedia si accorda con una degenerazione del carattere greco e questo mostra come l’arte e il popolo, il mito e il costume, la tragedia e lo Stato siano connessi. Il tramonto della tragedia fu nello stesso tempo il tramonto del mito (p. 154)
Congiungendo al mito il presente, questo appariva sub specie aeterni, e in questo fiume del senza tempo si tuffavano lo Stato e l’arte. Un popolo e anche un uomo vale solo in quanto sa imprimere nelle sue vicende l’impronta dell’eterno. Il contrario avviene quando un popolo comincia concepirsi storicamente e ad abbattere il mito (cfr. il to; mh; muqw`de~ di Tucidide I, 22, 4).
La tragedia greca ostacolò soprattutto la distruzione del mito. Quindi intervenne una febbrile ricerca che accumulò superstizioni e miti raccattati da ogni parte; in mezzo a questo il Greco si arrestò e mascherò quella febbre con serenità greca divenendo greculo oppure si stordì in qualche cupa superstizione orientale. In età moderna continua la stessa mostruosa mondanizzazione, un avido accalcarsi a tavole straniere, una frivola divinizzazione del presente tutto sub specie saeculi , sempre con la distruzione del mito. Trapiantare un mito straniero significa danneggiare l’albero. Lo spirito tedesco deve rigettare gli elementi trapiantati che consumano l’albero ammalato e intristito o snaturato in un morboso lussureggiare. La vittoria cruenta nell’ultima guerra può far pensare che abbiamo cominciato a espellere l’elemento neolatino.

Cfr. Scopenhauer sul francese: questo miserrimo gergo romanzo, questa pessima mutilazione di parole latine, con la peculiarità di un disgustoso suono nasale, come pure il singhiozzante accento così indicibilmente ripugnante sull’ultima sillaba. Invoco il biasimo dell’Europa tutta contro gli spudoratissimi fanfaroni che la definiscono langue classique (Parerga e Paralipomena. p. 723).
I primi che lottarono su questa via furono Lutero e i nostri grandi artisti e poeti. Ma soprattutto il Tedesco deve ascoltare il richiamo dell’uccello dionisiaco che si libra su di lui.


Capitolo XXIV (pp. 156-161)

Il contenuto del mito tragico è innanzitutto, un accadimento epico con la glorificazione dell’eroe che lotta. La sofferenza dell’eroe esemplifica la saggezza del Sileno che comprende il brutto e il disarmonico.  Ma l’arte non è solo imitazione della realtà naturale, bensì è pure un supplemento metafisico della realtà di natura, postole accanto per superarla. Il mito tragico ha questa funzione trasfiguratrice che deve suscitare un piacere estetico prima che morale. Ebbene il mito tragico deve convincerci che perfino il brutto e il disarmonico sono parte di un gioco artistico che la volontà gioca con se stessa nell’eterna pienezza del sui godimento. La dissonanza musicale ci fa capire questo fenomeno originario dell’arte dionisiaca. Il fenomeno dionisiaco ci rivela che il gioco di costruzione e distribuzione del mondo individuale è l’efflusso di una gioia primordiale, come si può capire anche dal frammento di Eraclito: “aijw;n pai`~ ejsti paivzwn, pesseuvwn, paidio;~ hJ basilhivh (D. 48).dunque la forza formatrice del mondo “viene paragonata da Eraclito l’oscuro a un fanciullo che giocando disponga pietre qua e là, innalzi mucchi di sabbia e di nuovo li disperda (p. 160) aijwvn (cfr, ajeiv e lat. eevum, è il tempo, la vita, l’eternità.
Musica e mito sono parenti. Quando decade uno si intristisce anche l’altra. L’ottomismo socratico comporta un’esistenza senza miti, un’arte abbassatasi a divertire, una vita guidata da concetti. Ma lo spirito tedesco che riposava in un inaccessibile abisso, intatto nella sua splendida salute, simile a un cavaliere dolcemente assopito, fa salire fino a noi il canto dionisiaco. Questo canto un giorno annienterà i nani maligni e desterà Brunilde


Capitolo XXV (pp. 161-163)

Musica e mito tragico provengono da un dominio artistico al di là dell’apollineo, e giustificano l’esistenza del peggiore dei mondi.  Il dionisiaco suscita all’esistenza tutto il mondo dell’apparenza anche l’orrido, e quindi è necessario l’apollineo. La dissonanza se si facesse uomo che di fatto è dissonanza, ha bisogno per vivere di una magnifica illusione che lo copra con il velo della bellezza. Questpoè il fine artistico di Apollo che illudendo con la bella apparenza rende la vita degna di essere vissuta.

-Cfr. Foscolo: “All’amica risanata (1802, Antonietta Fagnani Arese): “sorgon così tue dive/membra dall’egro talamo,/e in te beltà rivive,/l’aurea beltate ond’ebbero/ristoro unico a’ mali/le nate a vaneggiar menti mortali”.-

La forza di trasfigurazione apollinea abbellisce il sostrato dionisiaco del mondo. Le rigogliose espressioni di bellezza intervengono proprio dove le forze dionisiache si levano più impetuosamente
Se potessimo tornare nella Grecia più antica, vedendo uomini dall’incedere solenne, dai movimenti leggiadri, esclameremmo: “Beato popolo degli Elleni! Come deve essere stato grande tra voi Dioniso, se il dio di Delo ritiene necessari tali incantesimi per guarire la vostra follia ditirambica!” (p. 162)
Ma un vecchio ateniese guardando con il sublime occhio di Eschilo potrebbe replicare: aggiungi però questo, tu bizzarro straniero: quanto dovette soffrire questo popolo per diventare così bello!” (cfr. tw`/ pavqei mavqo~, Agamennone, 177).

Sulla sofferenza positiva Nietzsche si esprime in Di là dal bene e dal male[1]:"il grado gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità cui è capace di giungere la sofferenza degli uomini,-la sua raccapricciante certezza…di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (p. 200).
F. Dostoevskij in Ricordi del sottosuolo (del 1864) scrive:" io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè alla distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza…  In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos'è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos'è meglio?" (p. 234 e p. 320).


fine

giovanni ghiselli



[1] Del 1875

1 commento:

  1. Ciao Gianni , bellissimo articolo...con affetto Giovanna Tocco e Daniela Chirila

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