lunedì 2 novembre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", VII parte

dal cortometraggio "Le Baccanti"
regia: Giacomo Bonagiuso

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Capitolo XII   (pp. 82-89)

Euripide volle eliminare il dionisiaco. Ma nelle Baccanti l’avversario più avveduto di Dioniso, Penteo, viene incantato da lui. Il vecchio poeta, nel suo ultimo dramma,  deve concordare con i due vecchi Cadmo e Tiresia: la riflessione degli individui più accorti non riesce a rovesciare quelle antiche tradizioni popolari di fronte alle quali conviene mostrare almeno una partecipazione diplomatica e prudente.
Nietzsche si riferisce ai vv. 330-340 delle Baccanti dove Cadmo dice al nipote Penteo:
“O figlio, Tiresia ti ha consigliato bene.                                                                  
Stai con noi, non fuori dalle norme.
Ora infatti vaneggi e, pur avendo facoltà mentali, non sai farne uso.
Anche se questi non è un dio, come dici tu,
tiello per te (para; soi legevsqw): e afferma, con una menzogna bella,
che lo è, perché sembri che Semele abbia generato un dio,
e a noi e a tutta la stirpe si aggiunga onore.
Tu vedi lo sventurato destino di Atteone[1],
che le crudivore cagne che aveva allevato
sbranarono nelle radure montane, perché si era vantato
di essere superiore ad Artemide nelle cacce.

Ma il dio non si accontentò di un interessamento così tiepido e trasforma il diplomatico Cadmo in un drago. Troppo tardiva la resipiscenza:

Cadmo.
Dioniso, ti preghiamo, abbiamo sbagliato.
Dioniso.
Troppo tardi ci avete riconosciuti  (o[y j ejmavqeq  j hJma`~), e quando era necessario non/ volevate saperne.
Cadmo.
Questo lo abbiamo capito; ma tu punisci in maniera eccessiva (vv. 1344-1346).

Euripide termina così la sua carriera: con una glorificazione dell’avversario. Ma purtroppo la sua tendenza era già stata realizzata: Dioniso era stato già cacciato dalla scena tragica, buttato fuori da una potenza demoniaca il cui profeta era Euripide. Quel demone di recentissima nascita era Socrate.
Il socratico contro il dionisiaco. I giudici d’arte di tutti i tempi hanno trasformato anche Euripide in un drago ma chi potrebbe essere soddisfatto di questo miserabile compenso?
Bruno Snell invero fa  un’ apologia di Euripide e la conclude con una nota tratta dal Diario  di Goethe che alcuni mesi prima della morte scriveva:"Non finisco di meravigliarmi come l'elite  dei filologi non comprenda i suoi meriti e secondo la bella usanza tradizionale lo subordini ai suoi predecessori seguendo l'esempio di quel pagliaccio di Aristofane...Ma c'è forse una nazione che abbia avuto dopo di lui un drammaturgo che sia appena degno di porgergli le pantofole?"[2].

Vediamo allora cos’era quella tendenza socratica complice di Nietzsche.
Euripide sostituì la tragedia con l’epos drammatizzato.
  Ma in questo genere di composizione non c’è nemmeno l’apollineo con la calma della contemplazione. Euripide non è come il rapsodo solenne dell’epoca antica, ma, come il giovane rapsodo dello Ione Platonico in preda all’emotività: “quando io dico qualche cosa di commiserevole i miei occhi si riempiono di lacrime, quando dico qualcosa di spaventoso o terribile, i capello mi stanno dritti e il cuore salta per la paura (uJpo; fovbou hJ kardiva phda`/, 535c). Cfr. con lo qumov~ di Medea.
I rapsodi sono un anello della catena attirata dalla calamita: la Musa ispira i poeti che ispirano i rapsodi.
Euripide è l’attore con il cuore che martella e i capelli ritti: egli abbozza il piano come pensatore socratico e lo attua come attore appassionato
Il dramma euripideo è una cosa insieme triste e focosa, capace di agghiacciare e di infiammare. Non c’è né l’apollineo come calma contemplazione, né il dionisiaco come sentimento dell’unità.
Per suscitare un effetto usa nuovi mezzi di eccitamento che non sono apollinei né dionisiaci; in luogo delle intuizioni apollinee pensieri  freddi e paradossali (cfr. la diplomazia di Cadmo); in luogo delle estasi dionisiache passioni roventi (cfr. Medea o Ifigenia). Più precisamente pensieri e passioni imitati in modo realistico, non artistico.
  
Dunque la sua tendenza antidionisiaca si sviò nel naturalismo non artistico e portò il socratismo nel dramma: creò il socratismo estetico: “Tutto deve essere razionale per essere bello” (p. 85). Socrate proponeva. “ solo chi sa è virtuoso”.
 La temeraria razionalità di Euripide costituisce un regresso rispetto alla tragedia sofoclea.
Il prologo euripideo è un esempio di quel metodo razionalistico.
All’inizio del dramma un singolo personaggio si presenta sulla scena  e dice chi è, racconta  l’antefatto e perfino che cosa accadrà nel corso del dramma, un modo di procedere petulante e imperdonabile e tale che rinuncia all’effetto della tensione. La maestria di Eschilo e Sofocle dava nelle prime scene tutti i fili necessari alla comprensione come per caso (cfr. Edipo re 1, e Agamennone  36- 37: ta; d’ a[lla sigw`  : bou`~ ejpi glwvssh/ mevga~-bevbhken ).p. m.
  Nietzsche pensò che lo spettatore fosse in agitazione per il problema dell’antefatto e che per questo perdesse le bellezze artistiche. Perciò scrisse il prologo chiarificatore e lo fece recitare a un personaggio affidabile, un dio (cfr. le Troiane o le Baccanti con la prima parola   {hkw.)

Voleva togliere ogni dubbio sulla realtà del mito.  Di una altro intervento divino ha bisogno Euripide a chiusura del suo dramma per assicurare il pubblico circa l’avvenire dei suoi eroi: è questo il compito del famigerato deus ex machina (p. e. Ifigenia in Tauride , Elena,  Oreste).
Euripide come poeta echeggia le sue cognizioni coscienti. Egli volle applicare ai suoi drammi queste parole di Anassagora: “al principio tutto era mescolato, poi venne l’intelletto e creò ordine”.
Con il suo nou`~ Anassagora apparve tra i filosofi come il primo sobrio tra individui tutti ebbri, e altrettale pensò di essere Euripide rispetto ai suoi colleghi
Anassagora introduce per primo una Mente (Nou`~) separata e ordinatrice della materia (u[lh) che è formata da particelle simili ma distinte per qualità. Le chiamò spevrmata, semi, mentre  oJmoiomerh` è termine aristotelico (Fisica I, 4, 187a); commentatori più tardi le chiamano oJmoiomevreiai.
Ogni composto risulta formato da una mescolanza di tutti semi, ma assume il carattere dei semi predominanti. Mangiando il pane cresce il pelo poiché nel pane c’è anche il pelo. Insomma in ogni cosa c’è tutto. Il pane appare tale poiché prevalgono le particelle di pane, ma se potessimo vedere l’invisibile nel pane o nell’oro vedremmo semi di tutte le specie. Il Nou`~ è distinto dalla materia, è dotato di potenza infinita e imprime un movimento rotatorio che determina la scomposizione del magma informe e l’ordinata aggregazione dei semi simili secondo le giuste proporzioni. Il Nou`~ rimane trascendente.
Sentiamo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, II, 3) “Tutte le cose erano insieme; poi la mente (oJ nou`~) le dispose in ordine. Egli stesso ebbe il soprannome di Mente. Affermava che il Sole è una massa incandescente e rovente, maggiore del Peloponneso. Onde Euripide, che fu suo discepolo, nel Fetonte chiamò il sole “massa d’oro”[3].
 Gli stoici riprendono e modificano questa definizione del sole: lo considerano una massa infuocata e dotata di intelligenza (noerovn) che proviene dal mare[4]. Del resto Crisippo nel primo libro peri; Pronoiva~ Sulla provvidenza sostiene che tutto il cosmo è un essere vivente ragionevole  zw/`on logikovn kai; noerovn  e fornito d’anima (Diogene Laerzio VII 142, 143.)

Al magistero del filosofo nei confronti del poeta sembra credere Nietzsche quando scrive:" Nella chiusa comunità dei seguaci ateniesi d’Anassagora la mitologia del volgo era ancora consentita soltanto come un linguaggio simbolico; tutti i miti, tutti gli dèi, tutti gli eroi erano quindi considerati unicamente come geroglifici di un’interpretazione della natura, e persino l’epos omerico doveva essere il canto canonico dell’imperio del nous e delle battaglie e leggi della physis. Qualche voce di questa società d’eminenti spiriti liberi penetrò qua e là nel popolo; e particolarmente il grande e sempre ardimentoso Euripide, teso nei suoi pensieri al nuovo, osò far sentire in vari modi la sua[5] parola attraverso la maschera tragica"[6].

Secondo Euripide chi creava inconsciamente non creava il giusto.
“Anche il divino Platone parla per lo più ironicamente della facoltà creativa del poeta se essa non è una conoscenza consapevole e la parifica alla maniva dell’indovino e dell’interprete dei sogni” (p. 88): il poeta poeterebbe in stato di incoscienza.
 Nelle Leggi, l’Ateniese dice che secondo un palaio;~ mu`qo" il poeta quando ejn tw`/ trivpodi th`~ Mouvsh~ kaqivzhtai, tovte oujk e[mfrwn ejstivn (719c)  e come una sorgente oi|on de; krhvnh ti~, lascia scorrere prontamente il getto che scaturisce to; ejpio;n rJei`n eJtoivmw~ ea`/.
Del resto nel Fedro Socrate considera positiva la pazzia del poeta come quella dell’innamorato: il filosofo ateniese non considera negativamente questa "frenesia divina che è molto più saggia della saggezza del mondo"[7]. Anzi Socrate vuole dimostrare, a proposito della pazzia amorosa:"wj" ejp j eujtuciva/ th'/ megivsth/ para; qew'n hJ toiauvth maniva[8] devdotai" (Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più grande fortuna.
Platone assimila la follia erotica ad altre manie: nel Fedro   ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati. C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti" , “profeta”, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
 I beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi ( Fedro, 244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau, mantikh;n ejkavlesan (244c),  l’hanno chiamata mantica. Non mi sembra che ci sia ironia.

Euripide vuole mostrare al mondo l’opposto del poeta irragionevole: il suo principio estetico è: tutto deve essere cosciente per essere bello”, parallelo al socratico “tutto deve essere cosciente per essere buono” (p. 88) E’ il socratismo estetico. Socrate era quel secondo spettatore che non capiva e non apprezzava la tragedia antica e i due fecero lega e il socratismo estetico uccise la tragedia. Socrate fu dunque l’avversario di Dioniso e infatti fu dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, eppure fu capace di costringere alla fuga lo stesso potentissimo dio.
Dioniso, come quando era fuggito da Licurgo (cfr. Iliade, VI, 130-140) si salvò nelle profondità del mare, cioè nei flutti mistici di un mondo segreto che invaderà il mondo.
Euripide non crede che ci sia identità tra conoscere il bene e farlo, anzi: nell'Ippolito[9] Fedra, la matrigna  innamorata del figliastro, è  dilaniata da un conflitto interno che  le suggerisce questa considerazione: " il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica, alcuni per infingardaggine,/alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio , diletto cattivo, e l'irrisolutezza"(vv. 380-385).


Capitolo XIII (pp. 89-93)

Diogene Laerzio II, V, 18 scrive: “Si credeva che Socrate avesse collaborato con Euripide nella composizione delle tragedie”
Dai partigiani del “buon tempo antico” i due nomi venivano pronunciati insieme quando si trattava di enumerare i corruttori del popolo: l’influsso del loro dubbio razionalismo aveva minato l’antica e quadrata valentia di corpo e d’anima dei tempi di Maratona e aveva intristito le forze fisiche e spirituali.
Nelle commedie di Aristofane ci sono questi due personaggi: Euripide è il misogino (le Tesmoforiazuse) corruttore del popolo (cfr. le Rane) ; Socrate è il primo e supremo sofista (Nuvole)
Del resto lo dice anche Leopardi nello Zibaldone
Socrate nei dialoghi platonici dà sempre scacco matto ai sofisti.
Infatti Leopardi lo considera il più sofista di tutti.
E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri[10] e de' fuchi[11] e d'ogni ornamento ascitizio[12] e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).
Nietzsche conferma la connessione aristofanesca  tra Euripide e Socrate.
Socrate disse che aveva scoperto di essere l’unico di sapere di non sapere niente, mentre negli altri trovava la presunzione del sapere. Vide che gli altri facevano i loro compiti solo per istinto.
Cherefonte andato a Delfi chiese se esistesse qualcuno più sapiente di Socrate. La Pizia rispose nessuno ( ajnei`len hJ Puqiva mhdevna, Apologia, 21 a). E aveva ragione perché interrogando diversi politici e uomini che avevano fama di essere sapienti, vedevo che non lo erano e nemmeno se ne rendevano conto.
Tali sono i poeti e gli indovini che non fanno ciò che fanno per sapienza ma per doti naturali e ispirazione ouj sofiva/ , ajlla; fuvsei tini; kai; ejnqousiavzonte~ (22c). Gli artigiani conoscevano il loro mestiere ma avevano la presunzione di essere sapienti anche in altre cose e questa presunzione occultava la loro competenza. Dunque ne sapevano tutti meno di me. Del resto davvero sapiente è solo il dio, e la Pizia ci dice che la sapienza umana vale poco o nulla (Apologia di Socrate, 23a).
Vide che quegli uomini non avevano un’idea giusta e sicura nemmeno della loro professione e che la esercitavano solo per istinto.
“Solo per istinto. Con questa espressione tocchiamo il cuore e il centro della tendenza socratica” (p. 90)  
Socrate procede con disprezzo e con aria di superiorità quale precursore di una cultura e di un’arte di altra specie. Costui osa rinnegare la cultura greca di Omero, Pindaro, Eschilo, Fidia, Pericle. Quale forza demoniaca era la sua?  A lui il coro degli spiriti più nobili deve gridare:
“Ahi, Ahi,
col tuo pugno potente
tu hai distrutto il mondo bello e possente
che precipita nella rovina”
E’ il coro imvisibile degli spiriti della prima parte del Faust, nello Studio  dove Faust parla con Mefistofele, il figlio del Caos che serra maligno il pugno di ghiaccio.  
Socrate è visto da Nietzsche come il nemico dell’istinto, o come un individuo dall’istinto rovesciato: “Mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in una creatrice-una vera mostruosità per defectum! Più precisamente noi scorgiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica, sicché Socrate sarebbe da definire come l’individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata in modo tanto eccessivo quanto lo è quella sapienza istintiva nel mistico”[13].
Quest’idea non verrà rinnegata più avanti da Nietzsche come altri aspetti[14] di questo scritto giovanile.  In Ecce homo[15] il filosofo ne rivendica le due “ innovazioni decisive: intanto la comprensione del fenomeno dionisiaco fra i Greci-il libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice una di tutta l’arte greca.
L’altra è la comprensione del socratismo: Socrate come strumento della disgregazione greca, riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. “Razionalità” contro istinto. La “razionalità” a ogni costo come violenza pericolosa che mina la vita!”[16].
In Ecce homo “quasi alla fine della sua vita lucida, Nietzsche  scrive: “Io non sono un uomo, sono dinamite”[17].
Una chiave per spiegare la natura di Socrate ci viene spiegata dal fenomeno del suo demone, una voce che lo dissuadeva sempre. Cfr. Apologia 31  dove Socrate dice che in lui c’è qei`ovn ti kai; daimovnion , una voce –fwnhv ti~- che quando si manifesta ajei; ajpotrevpei me, mi distoglie sempre da quello che sto per fare, protrevpei de; ou[pote, mentre non mi spinge mai.
Questo mi impedisce di occuparmi di politica.

Negli uomini produttivi l’istinto è la forza creativa e affermativa  e la coscienza è la parte critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in creatrice, una vera mostruosità per defectum!
L’influenza di Socrate dissolveva gli istinti. Socrate volle la sua condanna a morte e le andò incontro con quella stessa calma con cui si allontanò dal simposio per ultimo (Simposio 223 c-d).
Platone si gettò ai piedi dell’immagine di Socrate morente.




continua


[1] Un cugino  di Penteo, figlio di Autonoe, figlia di Cadmo e sorella di Semele.  
[2] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo,  p. 189.
[3] Euripide, fr. 783 Nauck.
[4] Aezio Plac. II 20, 4.
[5] Di Anassagora ndr.
[6] La filosofia nell'età tragica dei Greci  p 1O9.
[7]A. Taylor, Platone , p. 475.
[8] C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti" , profeta, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
[9] Del 428 a. C.
[10] Da calamistrum, “ferro per arricciare i capelli” (ndr).
[11] Da fucus, “tintura rossa” (ndr).
[12] Da ascisco, “annetto” (ndr).
[13] La nascita della tragedia , p. 92.
[14] Hegeliani e schopenhaueriani
[15] Del 1888.
[16] F. Nietzsche, Ecce homo, La nascita della tragedia,  p.  49.
[17] Ecce homo, “Perché sono un destino”, 1

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