domenica 22 novembre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", X parte

Leighton, Tristan and Isolde (1902)

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Capitolo XIX (pp. 124-133)

La cultura socratica si può anche chiamare cultura dell’opera. Innanzitutto Nietzsche ricorda lo stile del recitativo. Il cantante più che cantare parla accentuando il pathos. Il recitativo è la mescolanza dell’esposizione epica e di quella lirica, una conglutinazione però del tutto esteriore, come un mosaico. Gli inventori del recitativo credettero di svelare con quello stilo rappresentativo il mistero della musica antica, quello di un Orfeo o di un Anfione. Si considerò quello stile la rinascita della musica greca. Il recitativo fu considerato il linguaggio riscoperto dell’uomo primitivo idillicamente o eroicamente buono. Ma la genesi di questa nuova forma d’arte è la soddisfazione di un bisogno non estetico, ossia la volontà di concepire come buono l’uomo primitivo. L’opera è edificata sugli stessi principi della cultura alessandrina, è un prodotto dell’uomo teoretico, del critico profano, non dell’artista. Che si debba capire la parola è una pretesa degli ascoltatori non musicali. E’ rozza l’opinione che la parola debba prevalere. L’uomo colto del Rinascimento si fece ricondurre alla tragedia greca da questa sua cultura operistica. Ma l’uomo idillico, il pastore che eternamente canta deriva dall’ottimismo che ha come base la  cultura socratica ma di lì degenera ancora esalando un profumo dolciastro. Dall’opera dunque deriva il facile piacere per una realtà idillica, ma si tratta di uno sciocco baloccarsi. L’opera è un essere bamboleggiante che deriva dalla serenità alessandrina e non ha nulla a che vedere con la terribilità della natura.
Il mondo parassitario dell’opera non è nutrito dai succhi dell’arte vera. L’uomo eschileo sta alla serenità alessandrina, come l’opera moderna alla tragedia. Eppure nell’epoca attuale sta risvegliandosi lo spirito dionisiaco. Eracle non è rimasto per sempre infiacchito nella voluttuosa soggezione a Onfale (cfr. Trachinie, v. 70).

Nelle Trachinie di Sofocle, Illo dice alla madre Deianira che Eracle, padre e marito dei due,” la scorsa stagione per tutto il tempo ha faticato al servizio di una donna di Lidia-Ludh`/ gunaikiv fasiv nin lavtrin ponei`n (v. 70).

Dal fondo dionisiaco dello spirito tedesco è uscita una forza terribile e inesplicabile per la cultura socratica: la musica tedesca dal potente corso solare: da Bach a Beethoven a Wagner. E’ un demone che scaturisce da insondabili profondità e il socratismo non può batterlo partendo dai merletti e dagli arabeschi della melodia operistica. Dalla stessa sorgente della musica tedesca deriva la filosofia di Kant e di Schopehauer che è la sapienza dionisiaca espressa in concetti  Ora sembra che procediamo in ordine inverso rispetto ai Greci: dall’età Alessandrina al periodo della tragedia. Lo spirito tedesco ora può presentarsi davanti ai popoli ardito e libero senza la briglia di una civiltà romanza, purché sia disposto a imparare dai Greci, imparare dai quali è già un’alta gloria e una rarità che distingue (p. 133).
Goethe, Schiller e Winckelmann hanno condotto una nobilissima lotta per la cultura. Eppure gli sforzi di molti per giungere al nocciolo della cultura greca non sono efficaci. Si sente una retorica priva di effetto sull’armonia greca, la bellezza greca, la serenità greca.
La cultura degli istituti superiori va scemando ed è il giornalista il cartaceo schiavo del giorno che riporta la vittoria sull’insegnante superiore il quale oramai si muove anch’egli nell’eloquio giornalistico.
Una cultura così debole odia la vera arte poiché da essa vede la sua fine . Eppure la debole e gracile cultura attuale è l’esaurimento di quella socratico-alessandrina.  Nemmeno Goethe e Schiller riuscirono a forzare la porta stregata che conduce alla montagna incantata ellenica, non sono andati oltre il nostalgico sguardo che l’Ifigenia goethiana manda dalla barbarica Tauride alla patria oltre il mare. Ma la musica tragica è risorta. Solo nella rinascita dell’antichità ellenica troviamo la speranza per un rinnovamento e una purificazione dello spirito tedesco attraverso la magia di fuoco della musica (p. 136)     
Nella cultura attuale c’è solo polvere, sabbia, irrigidimento. Schopenhauer, cui mancò ogni speranza,  che volle la verità. è paragonabile al Cavaliere con la morte e il diavolo di Dürer (incisione a bulino del 1513) imperturbato dai suoi orrendi compagni solo col destriero e il cane.
La magia dionisiaca però afferra come un turbine tutto ciò che è spento, marcio, rotto, appassito, e come un avvoltoio lo porta in alto. In mezzo a questa sovrabbondanza di vita, di dolore, di piacere, c’è la tragedia che narra delle Madri dell’essere.
Il tempo dell’uomo socratico è finito: inghirlandatevi di edera, prendete in mano il tirso e non meravigliatevi se la tigre e la pantera si accovacciano carezzevolmente ai vostri piedi.
Su Kant, Nietzsche cambierà idea: “Del resto Solone può fare parte dei “veri filosofi che sono dominatori e legislatori”. I vari Kant e Hegel sono “operai della filosofia” i quali “ hanno il compito di accertare e ridurre in formule una vasta gamma di valutazioni”[1].
In Crepuscolo degli idoli o come si filosofa col martello (del 1888), Nietzsche scrive: “La mancanza di realismo, la fuga dalla realtà è decadenza:"Separare in un mondo "vero" e in un mondo "apparente", sia alla maniera del cristianesimo, sia alla maniera di Kant (in ultima analisi, uno scaltro cristiano), è soltanto una suggestione della décadence - un sintomo di vita declinante…L'artista tragico non è pessimista-egli dice precisamente anche a tutto quanto è problematico e orrido, egli è dionisiaco"[2]
Quindi: “Eraclito avrà eternamente ragione in questo, che l’essere è una vuota finzione. Il mondo “apparente” è l’unico: il “mondo vero” è soltanto un’aggiunta menzognera” (p. 19).


Capitolo XXI (pp. 137-145)

Solo dai Greci dunque si può imparare. Il popolo delle guerre persiane è anche quello dei misteri tragici. Il dionisiaco può portare all’indifferenza verso la politica, ma Apollo è il formatore di Stati e il genio del principium individuationis. Ebbene lo Stato e il senso della patria non possono vivere senza l’affermazione della personalità individuale. Dallo stato orgiastico parte la strada che porta al buddismo indiano che è tollerato poiché aspira al nulla.
Dove invece gli istinti politici hanno un valore assoluto si prende una stradadi estrema mondanizzazione la cui espressione più grandiosa e spaventosa è l’imperium romano.
I Greci posti tra l’India e Roma riuscirono a trovare in classica purezza una terza forma (p. 138), non per un lungo uso proprio, ma per l’immortalità. I beniamini degli dèi muoiono giovani, ma poi vivono in eterno con gli dèi. I Greci ebbero istinti dionisiaci e politici molto forti, eppure non si esaurirono né in una meditazione estatica, né in una logorante caccia alla potenza del mondo. Raggiunsero invece quella magnifica mescolanza quale può avere un nobile vino che infiammi e disponga insieme alla contemplazione.
Una mikth; paideiva potrei dire (ndr).
 La tragedia è il compendio di tutte le salutari forze profilattiche di un popolo.
Mito e musica portano a un presentimento di gioia suprema attraverso la rovina e la negazione (cfr. Edipo a Colono).  Lo spettatore crede di sentire l’intimo abisso delle cose che gli parla.
La musica, come p. e. quella del terzo atto di Tristano e Isotta, può condurre a negare l’esistenza individuale in quanto dà voce alla volontà universale. Ma la forza apollinea ripristina l’individuo quasi frantumato e quello che sembrava un roco sospiro del centro dell’essere ci appare invece come Tristano che dice: “Oed’ und leer das Meer”, deserto e vuoto è il mare (Cfr. The Waste Land, 42 che cita anche Tristan und Isolde I, 5-8)
Vediamo l’eroe quando il mondo apollineo ci strappa all’universalità dionisiaca e ci affascina per gli individui  cui incatena il nostro sentimento di pietà e ci solleva dall’orgiastico annullamento do sé. La musica anzi dà l’illusione di poter vedere meglio. La musica è la vera idea del mondo, il dramma solo un riflesso di questa idea.
La contrapposizione anima-corpo è falsa, mentre quella vera è tra apparenza e cosa in sé. Nel complesso della tragedia, Dioniso ha il sopravvento, eppure il risultato è la fratellanza tra le due divinità. Lo spettatore vede l’eroe tragico in epica chiarezza e bellezza, e tuttavia gode del suo annientamento. Mentre rabbrividisce per i dolori dell’eroe, presagisce una gioia suprema. Il mondo dell’apparenza giunge agli estremi limiti poi si rifugia in grembo alla vera e unica realtà. N. cita ancora Tristano e Isotta (atto III) dove, secondo il metafisico canto del cigno, la gioia suprema è annegare e sprofondare nel flutto.
Lo spettatore veramente estetico immagina che l’artista tragico simile alla divinità dell’individuatio, crea le sue figure, poi però con il suo enorme istinto dionisiaco ingoia tutto questo mondo di apparenze, per fare intuire attraverso la sua distruzione una gioia primigenia in grembo all’uno originario. I cultori di estetica non sanno dire nulla di questo ritorno alla patria originaria, e invece dicono che il vero elemento tragico è la lotta dell’eroe con il destino (cfr. A. W. Schlegel), la vittoria dell’ordinamento morale del mondo o lo scaricarsi di affetti prodotto dalla tragedia (cfr. Aristotele, Poetica). Questi non sono uomini esteticamente eccitabili (p. 147).
Al massimo sono esseri morali davanti alla tragedia
Schlegel: “Gli antichi vedevano nel Destino una divinità tetraeimplacabile, abitatrice d’una sfera inaccessibile e mnolto al di sopra a quella degli Dei ( Corso di letteratura drammatica, p 57)
Nessuno ha spiegato invece l’attività estetica degli spettatori.
La catarsi di Aristotele sembra una scarica patologica di cui non è chiaro se sia da annoverare tra i fenomeni della medicina o quelli della morale (p. 148). Questo dubbio richiama una singolare intuizione di Goethe il quale scrisse a Schiller (9 dicembre 1797) di non riuscire a elaborare una situazione tragica senza un vivo interesse patologico; ed era un altro privilegio degli antichi “che per loro anche le cose più patetiche fossero solo un gioco estetico”, Nella tragedia musicale appunto le cose più patetiche diventano un gioco estetico.
L’ascoltatore estetico non è il critico “con pretese a metà morali a metà erudite”. Il critico è un essere pretenziosamente arido e incapace di godimento. I giornali predispongono il pubblico a questo atteggiamento. Gli autori dovettero adeguarsi a tale pubblico invocando l’ordine morale del mondo. Oppure l’autore presentava nel dramma l’attualità politica e sociale, in modo che lo spettatore provasse passioni simili a quelle che si provano davanti alla tribuna oratoria del parlamento o del tribunale.
Schiller volle impiegare il teatro come istituto per la formazione morale del popolo, ma questa tendenza è superata.
Il critico prendeva il sopravvento nel teatro, il giornalista nella scuola, la stampa nella società, e l’arte degenerava mentre la critica estetica veniva utilizzata come tessuto connettivo di una socievolezza egoistica il cui senso viene fatto capire dalla parabola dei porcospini di Schopenhauer , sicché si chiacchiera dell’arte e non la si considera.

In Parerga e Paralipomena II, p. 884 i porcospini trovarono una moderata distanza reciproca per non sentire freddo e non pungersi.
Così gli uomini provano bisogno di compagnia per il vuoto della loro interiorità e disgusto del prossimo. La distanza media con la cortesia e le buone maniere rende possibile la coesistenza.
“Colui però che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli”.



continua



[1] Di là dal bene e dal male, Noi dotti.
[2] Crepuscolo degli idoli, p. 21.

1 commento:

  1. Condivido pienamente;infatti la musica contemporanea è dissonante,brutta,dissacrante,ripetitiva. Giovanna Tocco

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