NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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martedì 27 febbraio 2018

Il pathos come elemento educativo, come propedeutico all’intelligenza e alla comprensione



Il pathos come elemento educativo, come propedeutico all’intelligenza e alla comprensione

Conferenza del 27 febbraio 2018, ore 18, al circolo ARCI Trigari, via Bertini, 9/2, Bologna


Il vertice della passione possiamo trovarlo raccontato nelle tragedie greche e in quelle di Seneca.
Partiamo da uno dei drammi più antichi tra quelli che ci sono arrivati.
Nella Parodo dell’Agamennone di Eschilo rappresentato nel 458, il coro composto di 12 vecchi Argivi suggerisce un possibile esito positivo del pathos, la passione che, pur se dolorosa, può divenire un motivo di crescita mentale e morale: tw/' pavqei mavqo" (v. 177), attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione.
Già Esiodo, nelle Opere e giorni, aveva scritto: “paqw;n de; te nhvpio" e[gnw (218), soffrendo anche lo stupido impara, e ancora prima Omero nell’Iliade fa dire a Menelao: “rjecqe;n dev te nhvpoi" e[gnw” (XVII, 32), il fatto lo capisce anche lo stolto
Da Erodoto sappiamo che Creso si era illuso di essere l'uomo più felice della terra, ma, sconfitto e catturato da Ciro re dei Persiani, comprese che c'è un ciclo delle vicende umane il quale non permette che siano sempre gli stessi uomini a essere fortunati:"ta; dev moi paqhvmata ejovnta ajcavrita maqhvmata gevgone", le mie sofferenze che sono state spiacevoli, sono diventate apprendimenti (I, 207).
Una sentenza topica che ha avuto un lungo seguito nella letteratura europea: da Euripide, a Menandro, a Proust, a Hermann Hesse.
Un caso di pathos doloroso a lieto fine in seguito a resipiscenza possiamo trovarlo nell'Alcesti di Euripide. Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw", condurrò una vita penosa: ora comprendo (v.940). In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.

C. Del Grande in Tragw/diva afferma che pure la commedia nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico succeduto al pavqo". E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte" (L’arbitrato): il marito che aveva ripudiato la moglie Panfile per un presunto errore sessuale di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso insieme, quando si accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla propria innocenza di uomo attento alla reputazione:" ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn"(v. 588), io uno senza peccato badando alla reputazione. Quindi comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchma", un infortunio involontario della donna (v.594).
“Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza di Menandro sta nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni psicologiche, da temi così inconsistenti… i poeti più antichi erano spinti a comporre da motivi di contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta, scoprire una verità, indagare la virtù ecc… Dopo l’intermezzo democratico, con la fioritura ateniese della tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro talento alle corti dei monarchi… E come Menandro essi rinunciano al pathos, ai programmi morali, all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il comportamento degli uomini”[1].

E', secondo Del Grande, un "vero momento di mavqo" tragico"[2]. Sulla medesima linea si trova il Duvskolo" : il vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una caduta nel pozzo con relativa sofferenza, comprende che nessuno è tanto autosufficiente da potere vivere senza l'aiuto del prossimo, e deve ammettere:" e{n d j i[sw" h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn wj/ovmhn-aujto;" aujtavrkh" ti" ei\nai kai; dehvsesq j oujdenov"" (vv.713-714), in una cosa probabilmente ho sbagliato: a credere di essere il solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno. In Menandro dunque rimane vigente la legge tragica per la quale attraverso le proprie sofferenze si impara e si diventa più comprensivi:"non si può dire che mavqo" non ci sia stato...Il paradigma in funzione esemplare è evidente"[3].
Del resto già nel Prologo il dio Pan aveva detto a proposito di Gorgia: “oJ pai`~ uJpe;r th;n hJlikivan to;n nou`n e[cwn:/ proavgei ga;r hj tw'n pragmavtwn ejmpeiriva, vv. 28- 29, è un ragazzo che ha cervello al di sopra della sua età:/infatti l'esperienza delle difficoltà fa crescere.

Anche il "pragmatico" e "universale" Polibio riconosce valore educativo alla sofferenza: al cambiamento in meglio si giunge attraverso due vie: quella dei patimenti propri e quella dei patimenti altrui (tou' te dia; tw'n ijdivwn sumptwmavtwn kai; dia; tw'n ajllotrivwn); la prima è più efficace ("ejnargevsteron"), la seconda meno dannosa ("ajblabevsteron", Storie, I, 35, 7).

Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore…la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[4].
 I Greci non separono l’etica dall’estetica.

Si pensi alla crasi kalokajgaqiva.
Quello dei Greci era: “un popolo che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello” (Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri).

La "Classicità non è chiarezza sin dall'inizio, bensì contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia risanata".[5]

Il pathos talora si converte in mathos, lo qumov", l’ira e il furor mai.
 Qumov" indica la parte emotiva dell'anima e questa spesso prevale, contro i precetti di Platone che prescrive la sottomissione del cavallo nero all’auriga, della parte concupiscente alla razionale, dell’ejpiqumhtikovn al logistikovn. L’elemento razionale dunque, to; logistikovn, deve presiedere all’ajlovgiston e all’ejpiqumhtikovn (Repubblica, 439d) quello irrazionale dei desideri.
L’elemento irascibile to; qumoeidev~ deve schierarsi con il logistikovn. Infatti ponemmo gli ausiliari (tou;~ ejpikouvrou~) come cani da guardia sottomessi ai reggitori (kuvna~ ejqevmeqa uJphkovou~ tw'n ajrcovntwn), quasi pastori della città (w{sper poimevnwn povlew~)
Nella società ci sono triva gevnh: crhmatistikovn, ejpikourhtikovn, bouleutikovn, gli affaristi, gli ausiliari, e i consiglieri, così nell’anima ci sono tre parti: to; qumoeidev~ deve essere ejpivkouron tw'/ logistikw'/ (441), la parte coraggiosa ausiliare di quella che delibera.

Nel Fedro l’anima umana viene descritta con immagini: la si assimili alla potenza della stessa natura di una coppia di cavalli alati e di un auriga ejoikevtw dh; sumfuvtw/ dunavmei uJpoptevrou zeuvgouς te kai; hJniovcou (246a). Uno dei cavalli però non è buono. L'auriga è il giudizio, il cavallo bianco è il coraggio, il nero l'appetito. Il bianco è nobile, buono e di buona razza, l'altro il contrario:"tw'n i{ppwn, o me;n kalo;" te kai; ajgaqov", oJ de; ejnantivo""(246c).


CONTINUA


[1] B. Snell, Poesia e società, pp. 156-157.
[2]Tragw/diva , p. 209.
 [3] Del Grande, op. cit. p. 214.
[4] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872),  p. 7 e p. 163.
[5]B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica , p. 141.

lunedì 26 febbraio 2018

Lucrezio, "De rerum natura". IV libro. Fine

Otto Weininger


Un altro classico dell'antifemminismo è Sesso e carattere di O. Weininger, morto suicida nel 1903, a 23 anni. Ne abbiamo già riferito qualche cosa. Egli nel suo libro sostiene che la femmina umana ha sempre bisogno della guida del maschio:" la donna s'aspetta sempre dall'uomo la delucidazione delle proprie rappresentazioni oscure... la donna riceve la propria coscienza dall'uomo: la funzione sessuale per l'uomo-tipo di fronte alla donna-tipo è appunto quella di rendere cosciente l'inconscio della donna che è per lui il completamento ideale"[1]. Più avanti l'autore sostiene che "la donna non possiede alcuna logica" (p. 163) Ella "non possiede dunque il principium identitatis né il principium contradictionis o exclusi tertii ". Allora "un essere che non comprende come A e non-A s'escludano a vicenda, non trova nessun impedimento alla menzogna, anzi per lui non esiste un concetto di menzogna, dato che il suo contrario, la verità, gli rimane completamente ignota come termine di confronto" (p. 164). La donna si realizza nell'attività sessuale e dunque ella "non pretende dall'uomo bellezza ma pieno desiderio sessuale. Su di essa non fa mai impressione l'elemento apollineo nell'uomo ( e perciò neppure quello dionisiaco), ma quello faunesco nella sua massima estensione; mai l'uomo ma sempre il maschio; e in primo luogo-non lo si può tacere in un libro sulla donna-la sua sessualità nel senso più stretto, il phallus " (p. 258). La paura che l'uomo ha della donna sarebbe nulla, il polo contrario alla divinità, l'altra possibilità nell'essere umano..E così si spiega anche quella profonda paura dell'uomo: la paura della donna, cioè la paura di fronte alla mancanza di senso: la paura dinanzi all'abisso allettante del nulla... la donna non è nulla, è un vaso cavo imbellettato e dipinto per un pò di tempo" (p. 299)... Soltanto col diventare sessuale dell'uomo la donna riceve esistenza e importanza: la sua esistenza dipende dal phallus e questo è perciò il suo supremo signore e dominatore assoluto. L'uomo divenuto sesso è il Fatum della donna; don Giovanni è l'unico uomo dinanzi a cui tremi fin nel midollo delle ossa" (p. 300).
Non è nuovo del resto quanto afferma Weininger: nelle Nuvole di Aristofane il discorso ingiusto (Lovgo" a[diko" ) sostiene che Tetide lasciò Peleo perché non era impetuoso (uJbristhv" , v. 1067) e non era piacevole passare la notte con lui, mentre la donna gode a essere sbattuta. Si noti il capovolgimento dell'u{bri" , la violenza, che applicata alla libidine della donna diviene un valore. Altrettanto in Machiavelli:"Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla" (Il Principe, XXV, 9).

Echi del misogino austriaco si trovano nel rimuginare di Zeno mentre osserva e ascolta il rivale Guido provando la tentazione di ucciderlo, una voglia repressa perché non ne scapiti il sonno:"Faceva parte della sua teoria (o di quella del Weininger) che la donna non può essere geniale perché non sa ricordare"[2].
Nell'ultimo capitolo del libro (La donna e l'umanità) troviamo uno spiraglio, l'accenno a un remedium rispetto all'impossibilità di amare. Il rimedio giusto è sempre la moralizzazione. "Nel coito sta il massimo abbassamento, nell'amore la massima elevazione della donna. Che la donna pretenda il coito e non l'amore significa che vuol essere avvilita, non innalzata. La maggior nemica dell'emancipazione della donna è la donna stessa (p. 334)... come deve l'uomo trattare la donna? Come vuole essere trattata essa stessa, o come esige l'idea morale? Se la deve trattare come essa vuole, deve accoppiarsi a lei, ché essa vuol venir posseduta; la deve picchiare, ché vuol esser percossa; ipnotizzare, ché vuol venire ipnotizzata; deve dimostrarle con la galanteria quanto poco ne stimi il vero valore, ché essa vuol sentirsi complimentare, ma non venir stimata per ciò che è. Se invece vuole comportarsi di fronte alla donna come esige l'idea morale, dovrà cercare di vedere in lei la creatura umana che è, cercar di stimarla come tale (p. 335)... l'uomo non è in grado di risolvere il problema etico per la propria persona se continua a negare l'idea dell'umanità nella donna, nel momento che ne usa come d'un mezzo di godimento" (p. 339).

Una resipiscenza del genere viene in mente all'uxoricida della Sonata a Kreutzer di Tolstoj (1889).
Sentiamo Tolstoj sulla potenza, spesso fuorviante, della bellezza. Chi parla è Pòzdnyshev il protagonista di La sonata a Kreutzer (1889) il quale racconta come è arrivato a uccidere per gelosia la moglie, una donna bella ma non adatta a lui:" E' cosa davvero sorprendente con quanta facilità siamo indotti a illuderci che bellezza e bontà siano insieme congiunte. Quando una bella donna dice delle sciocchezze, stai a sentirla volentieri, e per quante papere ella dica, ti sembra intelligente. Se si comporta e parla come una villana, ti appare avvenente e gentile. Quando poi ella non dice né sciocchezze né cose disdicevoli, ed è anche graziosa, allora credi sul serio ch'ella sia un miracolo d'intelligenza e moralità"[3]. E più avanti:"l'amore più eletto e più poetico, come noi diciamo, non dipende per nulla dalle doti dello spirito, ma dalla fisica attrazione, da una pettinatura invece di un'altra, dal colore, dal taglio d'un abito…soltanto il corpo noi desideriamo, siamo pronti a perdonare ogni bruttura[4], ma non già la scelta d'un abito senza garbo né grazia, ma non già un tono di colore che strida. La civetta ha di tutto ciò perfetta conoscenza, ma anche l'innocente fanciulla lo sa per istinto, come gli animali. Ed ecco il motivo di quei maledetti jersey, di quegli abiti attillati, scollacciati, di quelle braccia nude, di quei seni mostrati. Le donne, specie quelle donne che hanno già esperienza di uomini, sanno bene che conversare su alti argomenti approda a ben poco, all'uomo non preme altro che il corpo, quanto può farlo risaltare, sia pure con mezzi artificiosi, e a ciò si adoperano le donne." (p. 325).

Tra i due grandi romanzieri russi, Dostoevskij è stato il visionario dell'anima e Tolstoj piuttosto il veggente del corpo; più precisamente "di quel lato della carne che è rivolto verso lo spirito e di quel lato dello spirito che è rivolto verso la carne: regione misteriosa ove si compie, nell'uomo, la lotta fra la Bestia e Dio"[5].
L'uxoricida della già citata Sonata a Kreutzer mette l'ozio tra le esche ingannevoli della sua infausta passione amorosa: "Ma in realtà quel mio amore era prodotto, da una parte, dall'affaccendata madre e dalla sarta, dall'altra-dalla grande abbondanza di cibi che ingoiavo, e in più dalla vita oziosa che menavo" (p. 327).
Che poi una sia molto versata in matematica, un'altra brava a suonar l'arpa, non cambia nulla. La donna è felice e soddisfatta in ogni suo desiderio soltanto quando riesce a intrappolare un uomo. Né ad altro si ingegna, perché tale è il suo compito. Così è stato, così sarà. Così nel nostro ambiente fa una fanciulla da marito, così fa quando è maritata. Quando una è ragazza, pensa ad accaparrarsi uomini per la scelta-quando è maritata, a tener sotto i piedi il marito" (p. 341). Tutt'altra risposta ho trovato nel "dramma inedito" Platonov di Cechov: "Senza la donna l'uomo è come una locomotiva senza vapore!" (IV, 7).
 Infine il marito la uccide e come la vide morente" Guardai i miei figlioli, il suo volto livido e disfatto, e per la prima volta dimenticai me stesso, i miei diritti, l'orgoglio, e per la prima volta vidi in lei un essere umano"(p. 382). Sembra l'a[rti manqavnw , "ora comprendo", di Admeto nell'Alcesti di Euripide (v. 942).

Fine dell’excursus sull’antifemminismo

Concludiamo la lettura del IV libro del De rerum natura di Lucrezio
Del resto non sempre la femmina finge: “Nec mulier semper ficto suspirat amore” (1192). Nam facit ex animo saepe et communia quaerens-gaudia sollicitat spatium decurrere amoris” (1195-6), non sempre sospira di falso amore la donna (…) Infatti spesso lo fa con trasporto e cercando le gioie comuni spinge a compiere tutto lo spazio dell’amore
Altrimenti le femmine degli animali non si sottometterebbero.
In triviis cum saepe canes, discedere aventes-diversi cupide summis ex viribus tendunt,-cum interea calidis Veneris compagibus haerent (1203-4),
 Non lo farebbero se ignorassero i mutua gaudia. Dunque est communis voluptas (1207).
Se nel mischiarsi dei semi prevale la femmina, allora i figli somigliano alle madri, se no, viceversa. Talora c’è un equilibrio.
A volte somigliano a nonni o bisnonni perché i genitori conservano multa primordia ereditati
La sterilità dipende dal seme: è inutile pregare gli dèi.
Il crassius semen, quello troppo denso non tam prolixo provŏlat ictu (1245) non ha un getto abbastanza lungo,
Quello praeter iustum (1243) liquidum, troppo sottile, non aderisce, liquitur extemplo et revocatum cedit abortu (1243), si liquefa subito e richiamato torna indietro senza fecondare.
Le harmoniae Veneris .gli accordi venerei, multum differire videntur (1248) differiscono molto tra loro: a volte due amanti funzionano meglio che marito e moglie e un uomo potest gnatis munire senectam (1256), rafforzare la vecchiaia con dei figli magari attraverso un incontro occasionale.
Per questo conta anche il vitto. E conta anche la posizione: nam more ferarum/ quadrupedumque magis ritu plerumque putantur/ concipere uxores (1263-66): pectoribus positis…sublatis lumbis (1267), con il petto tenuto basso e in alto le reni.
Impediscono la fecondazione i molles motus, i movimenti flessuosi.
Se la donna provoca l’orgasmo con il ventre guizzante, sottrae il solco al giusto percorso del vomere: eicit enim sulcum recta regione viaque-vomeris atque locis avertit seminis ictum (1272-3) e devìa il colpo del seme dai luoghi appropriati.
Infatti sua causa, a proprio vantaggio consuerunt scorta moveri (1274) le meretrici sogliono dimenarsi per non incingersi-ne complerentur e anche per piacere di più agli uomini. Ma le nostre spose non ne hanno bisogno
Succede che ci si innamori di una muliercula deteriore forma (1279)
Ci piacciono i suoi modi affabili-morigeri modi-et munde corpus cultum l’eleganza. Ci si abitua e consuetudo concinnat amorem concilia l’amore (1283).

Ciò che subisce colpi infatti prima o poi cade. Le gocce d’acqua scavano i sassi.

FINE



[1]Sesso e carattere, p. 124.
[2] I. Svevo, La coscienza di Zeno, p. 170.
[3] La sonata a Kreutzer in Tolstoj Romanzi brevi, p. 323.
[4] Immagino di tipo morale
[5] D. Merezkovskij, Tolstòj e Dostojevskij, p. 101.

sabato 24 febbraio 2018

Ifigenia. Cornelia la Berlinese. II parte

querce antiche

Cornelia la Berlinese. II parte

La persona buona è anche intelligente - continuò Cordelia - ed è pure bella. L’avevano capito i maestri greci che ci hanno insegnato a non separare il buono dal bello con la loro kalokajgaqiva”.
“Tu ne sei l’incarnazione Cornelia. Sei cresciuta molto dall’ultima volta che abbiamo parlato. Hai fatto letture ottime vedo”.
“Sì anche. Ma quanto ti ho detto l’ho capito attraverso l’esperienza, gli sbagli, il dolore”
Tw'/ pavqei mavqo"[1], sussurrai con l’atteggiamento inelegante da arricchito culturale che ancora non avevo superato.
“Per come ti conosco - riprese Cornelia - comprendo che tu senti la necessità di una persona buona e intelligente. Tu sei una persona autentica, pulita che non gioca con il cuore degli altri, e per vivere senza dolore hai bisogno di una donna della tua levatura spirituale. Me l’hai suggerito tu stesso; non te ne sei accorto? Se la tua fiorente ragazza italiana è bella anche moralmente, se è buona, tiella da conto, vivici insieme, fai dei figli con lei. Meriterebbero senz’altro la vita tali bambini. Non impuntarti se da qualche giorno accidentalmente non scrive. Il tempo chiarità tutto. Se non è buona, quindi nemmeno intelligente né davvero bella, lasciala perdere. Dai retta a una amica storica ormai e anche, spero, cara. Io ho fatto l’errore di sposare un tale che appariva attrente e spiritoso. Ma poi, convivendo, ho capito quanto era egoista, cattivo, cretino quel tale e dopo un paio di mesi mi ripugnava”
“Brava Cornelia, brava. Sei diventata una donna di formato speciale”
Mi piaceva. Mi era venuta voglia di fare l’amore con lei, ma non mi era ancora chiaro se Ifigenia fosse malvagia, perciò non volevo rompere il patto di fedeltà concordato al momento della partenza dalle amabili sponde adriatiche[2].
“Anche tu sei speciale” mi contraccambiò Cornelia. “Gli altri che abbiamo qui intorno in confronto a te sono dei burattini simpatici, bene che vada”.
In effetti Danilo[3] saltava da un tavolo all’altro scolando tutte le bottiglie di sangue di toro ancora inesauste, mentre Ezio si avvicinava a ogni ragazza beccheggiando e domandava: “vuoi ballare, vuoi ballare?” senza lasciarsi smontare dai ripetuti dinieghi[4].
Salutai dunque Cornelia e gli altri amici storici delle estati debrecine[5] e tornai in collegio da solo. Ero contento, andavo d’accordo con me stesso poiché Cornelia mi aveva svelato una parte di me che mi piaceva assai e si confaceva alla mia persona realizzata.
Mentre fiancheggiavo l’orto botanico dagli alberi strani, poi quando procedevo sotto le querce antiche, di maestà dodonèa, vidi l’immagine di Helena Sarjantola vestita di colore bianchissimo[6]: mi sorrideva con lieta naturalezza e mi suggeriva di non dare peso soverchio, opprimente alla posta non arrivata. Contraccambiaio il sorriso, non senza letizia.
Del resto mi vennero in mente le parole del tutto chiare che la bella donna mi scrisse quando fu arrivata in Finlandia. Il confronto era schiacciante. Amare è ricordare, come conoscere. E pure disamorarsi è ricordare: rammentare che cosa era l’amore, quanto bene funzionava, quanta allegria e felicità creava dalla mattina alla sera.
giovanni ghiselli

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[1] Eschilo, Agamennone, 177, attraverso la sofferenza, la comprensione
[2] Cfr. L’amore nel mare di Pesaro presente nel blog
[3] Cfr. La storia di Kaisa presente nel blog
[4] Cfr. La storia di Eeva Vuortama presente bel blog
[5] La prima risale al 1966. Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel Blog.
[6] Cfr. la storia di Elena presente nel blog

venerdì 23 febbraio 2018

Shakespeare, "Riccardo III". Parte 3

ricostruzione del volto di Riccardo III (Simmonds)

II, 2
La duchessa di York, madre di Riccardo, Edoardo IV e Clarence, quando viene a sapere della morte di Edoardo e di Clarence, replica al lamento dei figli di Clarence e della vedova del re dicendo: “Alas, I am the mother of these griefes-gravis: -Their woes are parcell’d-particula- late latin particella-, mine is general” (Riccardo III, II, 2), ahimé, io sono la madre di questi lutti: i loro dolori sono suddivisi, il mio li comprende tutti.

Cfr. Edipo re vv.93-94 "Parla a tutti. Di questi infatti io porto il dolore/più che per la mia vita "ej" panta": Edipo invece presenta aspetti antiautoritari: non devono esserci segreti nè muri tra la piazza e il palazzo. Tale vena paternalistica però lo porta a combattere contro sacerdoti e oracoli, cioè su posizioni che Sofocle condanna Edipo è un crocicchio di pene, un nodo di dolore che gli darà una straordinaria facoltà di comprendere. Egli ribadisce continuamente tale sua eccezionale capacità di soffrire e di capire attraverso la sofferenza. Questa, una volta compresa, ci porta alla razionalità.”
 Simile nodo di dolore è Ecuba che nelle Troiane di Seneca dice al nuntius il quale è incerto se debba dare le orrende notizie delle uccisioni di Polissena e Astianatte prima alla vecchia regina o alla vedova di Ettore:" quoscumque luctus fleveris, flebis meos:/ sua quemque tantum, me omnium clades premit;/mihi cuncta pereunt: quisquis est Hecubae est miser " (vv. 1061-1062), qualunque lutto piangerai, piangerai il mio: la propria rovina schiaccia ciascuno soltanto, me quella di tutti; tutti gli affetti miei sono morti; chiunque è un caro di Ecuba è infelice!

Richard chiama il complice Buckingham my other self, un altro me stesso (II, 3, 151) concistoro dei miei segreti, mio oracolo, mio profeta.

Cfr. Cicerone, De amicitia: Vero amico infatti è chi è come un altro se stesso (verus amicus…est enim is, qui est tamquam alter idem (80).
Cfr. Sallustio, Bellum Catilinae, XX, 4: “Nam idem velle atque idem nolle, ea demum firma amicitia est”, infatti volere e non volere le medesime cose costituisce precisamente la solida amicizia.
Curzio Rufo racconta che Alessandro Magno, dopo la battaglia di Isso (novembre 333) scusò le donne del re sconfitto le quali avevano scambiato il suo più caro amico Efestione con lui dicendo alla regina madre: “Non errasti…mater; nam et hic Alexander est” (Historiae Alexandri Magni, III, 12), non hai sbagliato, made; difatti anche questo è Alessandro.

Un cittadino dice che il Duca di Gloucester è pericolosissimo come i figli e i fratelli della regina Elisabetta e se costoro non governassero ma fossero governati "this sickly land might solace-solacium-solor- as before " (II, 3), questa terra malata[1] potrebbe avere ristoro come prima.

Anche il cielo viene ammorbato dal capo malato.
Così l'Oedipus di Seneca: “fecimus caelum nocens” (36).
Altrettanto pensa il re di Danimarca Claudio lo zio di Amleto che ha assassinato il fratello: “Oh, my offence is rank, it smells to heaven” (Hamlet, III, 3), oh, il mio crimine è fetido, manda il puzzo fino al cielo.
La terra contaminata e desolata diventa tutta una tomba come la Scozia nel Macbeth :"poor country…it cannot be called our mother, but our grave; where nothing, but who knows nothing, is once seen to smile; where sighs, and groans, and shrieks that rend the air, are made, not marked " ( Macbeth, IV, 3), povera terra!…non può essere chiamata nostra madre ma nostra tomba; dove niente, se non chi non conosce niente, si vede sorridere, dove sospiri e gemiti e grida che lacerano l'aria, sono emessi, ma nessuno ci fa caso. E' il nobile Ross che parla. Cfr. Omero, Esiodo etc.

Riccardo è chiamato the boar da Hastings il ciambellano: to fly the boar before the boar pursues lat sequor-, prosequor-were to incense the boar to follow us, dice il lord ciambellano Hastings, fuggire il cinghiale prima che il cinghiale insegua sarebbe aizzare il cinghiale a inseguirci (III, 2).

Nel Primo Stasimo dell’Edipo re di Sofocle, il colpevole ricercato, cioè Edipo viene identificato con l'animale del sacrificio
Il Parnaso, sulla cui pendice occidentale sorge Delfi, ha inviato la parola profetica di scovare l'uomo oscuro il quale, imbestiatosi in toro tra rupi antri e selve, cerca di tenere lontani i vaticini che provengono dall'ombelico del mondo e lo seguono dappertutto incalzandolo come assilli implacabili.
:"Infatti va e viene sotto foresta/selvaggia e su per le grotte, proprio/il toro delle rupi (petrai'oς oJ tau'roς) inutile con inutile piede (mevleoς melevw/ podiv) bandito in solitudine (vv. 477-479).
"quello di cui la profetica ripe di Delfi disse: -ha compiuto infamie su infamie con mani sporche di strage"(Edipo re, vv.463-466); ovvero l'animale del sacrificio,"il toro delle rupi"(v.478) destinato a divenire la "vittima massima"(cfr. Virgilio, Georgiche, II,146-147:"et maxima taurus/victima).
Aristofane nella Parabasi delle Vespe (422) si pregia di non essersela presa con gente dappoco ma con i potenti e da subito proprio con la bestia dalle zanne aguzze (xusta;ς tw̃/ karcarovdonti, 1031).
E’ Cleone che ha la voce di un torrente rovinoso e fetore di foca e coglioni immondi di Lamia[2] e culo di cammello (prwkto;n de; kamhvlou, 1035)

Hastings dice che non darà il suo voto to bar-lat latin barra- my master’s heirs -heres (III, 2) per escludere gli eredi del suo re, non vorrà farlo a costo di morire to the death. Questa fedeltà infatti gli costerà la vita.

Riccardo chiama tongueless-old latin dingua- blocks (III, 7) pezzi di legno senza lingua i cittadini che non lo hanno acclamato.

Pindaro qualifica Aiace come a[glwssoς in Nemea VIII, 24
Nella Nemea VIII il poeta tebano ricorda il torto subito da Aiace a[glwsso~ (v. 24), privo di eloquenza: sicché l’invidia poté mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso ingannevole di Odisseo.
Tuttavia alla fine Aiace ebbe giustizia: “a’ generosi/giusta di glorie dispensiera è morte;/né senno astuto, né favor di regi/all’Itaco le spoglie ardue serbava,/ché alla poppa raminga le ritolse/l’onda incitata dagl’inferni Dei” (Foscolo, Sepolcri, 220 ss.)

Buckingham che è complice dei delitti di Riccardo ed è il regista della recita del principe il quale, come Tiberio negli Annales, finge la renitenza al suo fato di re, dice che la nobile isola ha il volto sfigurato dalle cicatrici dell’infamia “her face defac’d with scars of infamy” ( cfr. greco ejscavra, braciere, graticola III, 7, 125) in quanto il ceppo regale è innestato su ignobili piante, alludendo a supposte infedeltà della regina Elisabetta moglie del re Edoardo IV, fratello di Riccardo. 
Ma Riccardo persiste nella commedia del diniego dicendo che B vuole imporgli insensatamente the golden yoke-zugovn-iugum of sovereignity, l’aureo giogo della sovranità e si fa pregare ancora: will you enforce me to a world of cares? not allied to cura.
 Dice, ma subito dopo cede alle preghiere: call them again, I am not made of stones –gr. stiva-pietruzza- (III. 7. 223)
Riccardo fingendosi pio, era apparso tra due vescovi come gli holy and devout-devotus, devoveo, consacro- religious men (III, 7, 91) ed esce di scena concludendo così l’atto III come, let us to our holy work -e[rgon- again (III, 7, 245), via torniamo ai nostri santi esercizi.

Negli Annales di Tacito alla morte di Augusto i senatori asserviti rivolgono suppliche a Tiberio versae inde ad Tiberium preces (I, 11), ed egli varie disserebat de magnitudine imperii, sua modestia, della grandezza dell’impero e della propria insufficienza; solam divi Augusti mentem tantae molis capacem. Ma Tacito commenta plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat, c’era più ostentazione che verità e pure quando non voleva simulare suspensa semper et obscura verba, usava sempre parole vaghe e oscure, poi quando voleva simulare in incertum et ambiguum magis implicabantur, si avviluppavano sempre di più nell’indefinito e nell’equivoco.

Nell’Oedipus, Laio definisce il figlio “fratres sibi ipse genuit; implicitum malum- magisque monstrum Sphinge perplexum sua” (638-639) ha generato fratelli a se stesso; male aggrovigliato e mostro contorto più della sua Sfinge.
Cfr. il ruere in servitium (Annales, I, 7) o la libido adsentandi (Historiae , I, 1)



CONTINUA



[1]
[2] Mostro che si ciba di carne umana.

mercoledì 21 febbraio 2018

Ifigenia. Cornelia la Berlinese. I parte


Cornelia, la Berlinese

Rimasi solo. Stavo appoggiato a una ringhiera e osservavo gli altri ballare, oppure volgevo lo sguardo dalla parte non illuminata dello stadio deserto e della pista dove correvo ogni giorno sul far della sera con energia, per trovare un motivo di consolazione all’angoscia che mi aveva assalito di nuovo.
Pensavo: perché Ifigenia non scrive, non telegrafa, non si fa viva? Da che cosa è occupata? Da quale vortice di piaceri è risucchiata e portata chissà dove? Oggi è il primo di agosto: sono passati già dieci dì e dieci notti da quando ci siamo divisi con un distacco per nulla chiaro.
Sabato scorso quando è venuta al telefono mi ha detto “ti amo tanto”, dunque la situazione disperata del tutto non è.
Però ha pure detto “ti scrivo un espresso”, e da allora sono passati quattro giorni, quattro tutti interi, più tre ore; ebbene, se lo avesse spedito quella sera stessa, come avrebbe fatto qualunque donna mortale innamorata, sarebbe già arrivato. Quella lì mi tormenta.
Confrontavo la sera sciagurata che stavo vivendo penosamente con la notte meravigliosa dell’estate remota del 1971 quando mi destreggiavo tra Helena, la splendidissima finnica già conquistata, e Josiane la diciottenne di Strasburgo che mi sorrideva con simpatia e mi benediceva. Allora avevo evitato di compiere un’azione cattiva, e, verso l’aurora, pure Helena, la donna mia scopertasi incinta di un altro, mi aveva benedetto. Donne benedicenti e benedette. Femmine umane benefiche. I loro benefici mi hanno aiutato per tutta la vita seguente. Questo ricordo mi difendeva. Difendersi dal male è ricordare il bene fatto e ricevuto. Per immergermi meglio nel praeteritum mio, andai a camminare nella pista buia delle mie corse ai crepuscoli. Meditavo sulle intenzioni oscure di Ifigenia. Alternavo pensieri disperati tipo: “non mi ama di sicuro, se mi amasse avrei già ricevuto almeno tre espressi con parole inequivocabili”, a illusioni rigurgitate da una specie di istinto di sopravvivenza di quell’amore già malato a morte: “ma no, vedrai che domani ti arriva un messaggio pieno di amore”, e pure a meditazioni consolatorie di questo tipo: “se si è innamorata di un tanghero, tanto meglio. Così mi libero da questo ceppo doloroso. Speriamo anzi che il nuovo drudo sia un buffone neozelandese, o uno di Osimo finito in galera, così colei sparisce per sempre!”
Dopo una mezzora di quel rimuginare vano camminando nel buio, tornai sulla terrazza della festa e mi appoggiai di nuovo alla ringhiera osservando i giovani che ballavano lieti, per trarne conforto. Speravo che qualcuno venisse a parlarmi.

Venne infatti Cornelia, la giovane donna di Berlino est con la quale avevo avuto una veloce avventura mattutina nell’estate del ’74, poche ore prima di incontrare Päivi e di innamorarmene tanto da non volere nessun’altra donna per diversi mesi, e nemmeno una dea immortale.
Perciò con la ragazza tedesca avevo troncato i rapporti amorosi poche ore dopo averli iniziati, non senza spiegarle il motivo. Cornelia non l’aveva presa male, anzi nel 1976 mi ospitò a casa sua con tutti gli onori in un appartamento situato vicino al Museo di Pergamo, sulla Unter den Linden.
Così il primo agosto del 1979 la incontravo per la terza volta. Era arrivata da poco. Venne a salutarmi in maniera amichevole che contraccambiai.
Ci raccontammo le nostre vicissitudini. Le dissi che amavo una ragazza italiana; lei mi raccontò che nel frattempo si era sposata due volte e aveva messo al mondo una bambina.
Dopo tale aggiornamento sulle nostre vite anomale, Cornelia disse parole semplici, apparentemente banali e oure dotate di tale forza educativa che voglio riferirtele caro lettore e raccomandartele.
Il discorso della verità infatti è semplice e non necessita di artifici scaltri né di interpretazioni ricamate.
Terminati i saluti e gli essenziali ragguagli, Cornelia disse che mi aveva notato fin dall’inizio della festa, ma non era venuta a salutarmi poiché mi aveva visto prima impegnato a parlare, per giunta con un’altra tedesca, poi le ero apparso pensoso e scuro in volto, sofferente o sdegnato.
“A che cosa pensavi, se hai voglia di dirmelo?”
Se fosse stata una possibile preda, avrei risposto: “a te, e a chi se no? A che cos’altro potevo pensare dopo avere visto la grazia di una dea? Volevo venire a chiederti se tu fossi Cipride o Artemide, ma temevo il tuo sdegno di creatura più che mortale per il tentativo di approccio da parte di un pover’uomo quale sono io.”
Invece risposi: “Alla ragazza italiana che amo. Anche lei, credo, mi ama, eppure talvolta ne sento la mancanza in modo innaturale: opprimente e penoso. Talora temo che non sia della mia razza spirituale. Nel dubbio in amore la risposta è sempre, quasi sempre, quella deprecata”.
Itanto ci eravamo voltati dalla parte dello stadio e del buio.
I ragazzi che ballavano lieti li avevamo alle spalle.
“Com’è la tua italiana, bella e bruna? Päivi, ricordo era rossa. Tutt’altro che italiana infatti”.
Accennai a un sorriso quasi di scusa, poi risposi:
“Sì, bruna, bella assai, e giovane molto. Ha diversi anni meno di me, una decina. Non sono certo che sappia quello che vuole. E’ laureata da poco. Ha cominciato a insegnare in ottobre e non se la cava benissimo. La vivo un po’ come allieva, un po’ come figlia. Da quando ho perso la bambina che Päivi aspettava, visto che l’hai ricordata tu, nella donna tendo a cercare una figlia. Mi manca molto una figlia”.
Cornelia aveva una trentina d’anni all’epoca, quattro o cinque meno di me.
Alta, troppo magra e troppo bionda per i miei gusti. Però mi piaceva il suo sguardo intelligente. Poi parlava umanamente, precisamente e concretamente, non in modo astratto e generico come fanno i più cui niente sta a cuore davvero. Nel comportamento manifestava una naturalezza signorile, priva di quell’artificio pretenzioso e caratteristico dell’eterna plebe.
Conclusi dicendo che ero in pensiero, come amante, non come maestro, né come padre: soffrivo perché non ricevevo posta.

Cornelia ascoltava e mi guardava con attenzione. Tacque un momento, poi mi domandò: “è buona?”
“Spero di sì, ma non ne sono sicuro. Adesso so solo che non mi scrive e con il suo silenzio mi causa dolore ogni giorno. Io poi ne soffro al di là del normale: come non vedo arrivare la posta che aspetto, sento riaprirsi l’antica ferita che senza accorgersene mi infliggeva mia madre quando in agosto mi affidava a sua sorella Giulia la quale da Pesaro mi portava lontano, a Moena, in Val di Fassa, nel Trentino, dove ogni giorno aspettavo dalla mamma lettere e cartoline che non arrivavano mai. Allora pregavo Dio che la inducesse a scrivermi, e andavo a osservare per decine di minuti l’acqua dell’Avisio che scorreva sui sassi lisci e rotondi. Aspettavo di vedere i salti nell’aria, i tuffi a rovescio delle trote picchiettate di rosa. Li prendevo come segni buoni. Passavo il tempo così perché non avevo amici a Moena negli anni Cinquanta”.
“Lascia perdere tua madre, la zia, la tua infanzia e le tue nevrosi antiche. Credi ancora di essere una specie di Edipo, il bambino che sopravvive alle malevolenze parentali, poi da adulto diventa un eroe che però porta i segni delle ferite ricevute da piccolo? La posta può avere ritardo, comunque non deve determinare il tuo stato d’animo. Almeno finché non arriva qualche notizia precisa. Cerca piuttosto di capire se la tua compagna è buona, e se lo è , tiella da conto, Gianni; non chiederti quanto sia bella o ricca, o quanto prestigio ti dia, o quanto assomigli o non assomigli a tua madre. Tu devi invece capire, con il cuore prima che con il cervello, quanto sia sensibile, onesta e generosa. La persona buona possiede tutte le altre qualità di cui tu hai bisogno”.
Tali parole alleviarono il mio dolore poiché erano autentiche, vere e intelligenti più dei miei pensieri penosi.
Perciò la guardai con fiducia piena, con ammirazione, e le dissi: “Vai avanti Cornelia, ti prego, parlami ancora di questo: le tue parole mi curano l’anima”.

giovanni ghiselli

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lunedì 19 febbraio 2018

Lucrezio, "De rerum natura". IV libro. parte 15


Esiodo, Semonide, Euripide, Leopardi, Schopenhauer, Weininger.

Esiodo dal quale parte la considerazione malevola delle donne, (VII secolo) riconosce che l'uomo ha bisogno di questa creatura complementare e che, se non sbaglia la scelta della compagna, può evitare i dolori infiniti. Nella Teogonia definisce la donna "bel malanno" (kalo;n kakovn v. 585) e "inganno scosceso" (dovlon aijpuvn v. 589), un malanno che Zeus inflisse agli uomini per controbilanciare il potenziamento ricavato dal fuoco, dono di Prometeo: aujtivka d j ajnti; puro;" teu'xen kako;n ajnqrwvpoisi (570).
Poi però afferma che comunque chi evita le nozze e le opere tremende delle donne ("mevrmera e[rga gunaikw'n, v. 603) arriva alla funesta vecchiaia con la carenza di uno che si prenda cura di lui, e, quando muore, la sua ricchezza se la dividono i lontani parenti. Del resto chi sceglie una buona moglie, saggia e premurosa, compensa il male con il bene (v. 609), chi invece si imbatte in una donna di stirpe funesta, vive con un'angoscia costante nel petto, nell'animo e nel cuore e il suo male è senza rimedio (vv. 610-612).
Nel poema agricolo l'autore torna sull'argomento e aggiunge che l'uomo non può fare migliore acquisto di una moglie buona, come non c'è nulla di più raccapricciante di una sposa cattiva (Opere, vv. 702-703).

Su questa linea si trova Semonide di Amorgo autore (nei primi anni del VI secolo) di un Giambo sulle donne (fr. 7 D), una tra le più famose espressioni dell'antifemminismo greco. Questo autore fa derivare le femmine umane di vario carattere da altrettante bestie: il primo tipo discende dal porco irsuto (ejx uJo;" tanuvtrico", v. 2, dal lungo pelo): sta non lavata in vesti sporche a ingrassare in mezzo al luridume (aujth; d j a[louto" ajpluvtois j ejn ei{masin- ejn koprivh/sin hJmevnh piaivnetai, vv. 5-6).

Poi il tipo che deriva dalla volpe[1] maliziosa (ejx ajlitrh'" ajlwvpeko"), esperta di tutto, non le sfugge niente, sovverte le categorie morali ed è varia d'umore oJrgh;n d j a[llot j ajlloivhn e[cei (11)

Un’altra deriva dal mare ejk qalavssh" (27). Questa alterna risate a scenate da pazza (maivnetai, 33). Allora, come una cagna con i cuccioli, è implacabile (ajmeivlico") con tutti ed è spiacevole pe tutti, (pa'si kajpoqumivh) per gli amici e per i nemici
 Insomma è come il mare, spesso calmo, non fa danni, anzi è cavrma nauth/sin mevga (38), grande fonte di gioia per i marinai, d’estate qevreo" ejn w[rh/ (39), ma spesso si infuria pollavki" de; maivnetai, sballottandosi con onde dal cupo fragore. Insomma una bufera di femmina.
In conclusione è cangiante come il mare.
"Varium et mutabile semper/femina ", come aveva già detto Virgilio [2].

Un’altra deriva dalla cagna. Questa vuole adscoltare tutto, sapere tutto, e non puoi farla tacere nemmeno se la prendi a sassate

La figlia della terra, è pigra e pesante.

Poi c’è quella che deriva dalla cavalla,
E’ morbida e adorna di una folta criniera. Non sopporta i lavori domestici e si fa amico l'uomo solo per necessità (ajnavgkh/ d j a[ndra poiei'tai fivlon, 62). Questa è la donna narcisista e parassitaria che passa il tempo a pettinarsi, truccarsi, profumarsi. Una creatura del genere è uno spettacolo bello a vedersi per gli altri, ma per chi se la tiene in casa è un male (kalo;n me;n w\n qevhma toiauvth gunhv-a[lloisi, tw'/ d j e[conti givgnetai kakovn, 67-68) , a meno che sia un despota o uno scettrato che di tali vezzi si gloria nell'animo.
Tale è dunque la donna adatta ai tiranni che nella cultura greco-latina sono paradigmi negativi. Costoro hanno fama di violentare le donne come abbiamo visto nella descrizione che Otane fa del mouvnarco" nel dibattito sulla migliore costituzione (Erodoto, III, 79-84).

Quella che deriva dalla scimmia è brutta e ripugnante.

 La derivata dall'asina, scostumata, sessualmente vorace.

 La discendente dalla donnola, sciagurata, disgustosa e ladra

Ultimo tipo, e unico raccomandabile, è quello che deriva dall'ape ("ejk melivssh"", v. 83). Questa ha tutte le caratteristiche della buona sposa e chi se la prende è fortunato. A lei sola infatti non siede accanto il biasimo (mw'mo"), grazie a lei fiorisce la prosperità, invecchia cara con lo sposo che l'ama[3] dopo aver generato una bella prole, diviene distinta tra tutte le donne, la circonda grazia divina (qeivh... cavri", v. 89) e non si compiace di star seduta tra le donne quando parlano di sesso (oud j ejn gunaixivn h[detai kaqhmevnh o[kou levgousin ajfrodisiouv" lovgou" , 90-91)

Leopardi traduce questi versi (90-91) così: "né con l'altre è solita/goder di novellari osceni e fetidi".
Del resto A Silvia la natura negò le conversazioni gentili e delicate con altre ragazze: "né teco le compagne ai dì festivi/ragionavan d'amore" (vv. 47-48).

Dunque una possibilità di non essere cattiva per la donna c'è secondo Esiodo, Semonide e Lucrezio.

Molto più radicale nella negatività e nella certezza di non poter trovare una buona moglie è l'Ippolito di Euripide il quale vorrebbe che i figli si potessero generare in altro modo che passando attraverso le donne: "O Zeus perché ponesti nella luce del sole le donne, un male ingannatore per gli uomini? Se infatti volevi seminare la stirpe umana, non era necessario ottenere questo dalle donne , ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero discendenza di figli, ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno, sperperiamo la prosperità della casa" (vv. 616-626).

Tra i classici dell'antifemminismo assoluto possiamo aggiungere qualche parola di Schopenhauer: "Le donne sono adatte a curarci e a educarci nell'infanzia, appunto perché esse stesse sono puerili, sciocche e miopi, in una parola tutto il tempo della loro vita rimangono grandi bambini: esse occupano un gradino intermedio fra il bambino e l'uomo, che è il vero essere umano... le donne rimangono bambini per tutta la vita, vedono sempre soltanto ciò che è vicino, rimangono attaccate al presente, scambiano l'apparenza delle cose con la loro sostanza, e preferiscono inezie alle questioni più importanti... le donne, in quanto sesso più debole, sono costrette dalla natura a far ricorso non già alla forza ma all'astuzia: di qui deriva la loro istintiva scaltrezza e la loro indistruttibile tendenza alla menzogna... per la donna una sola cosa è decisiva, vale a dire a quale uomo essa sia piaciuta... Il sesso femminile, di statura bassa, di spalle strette, di fianchi larghi e di gambe corte, poteva essere chiamato il bel sesso soltanto dall'intelletto maschile obnubilato dall'istinto sessuale: in quell'istinto cioè risiede tutta la bellezza femminile. Con molta più ragione, si potrebbe chiamare il sesso non estetico... Nel nostro continente monogamico, sposare significa dividere a metà i propri diritti e raddoppiare i doveri... Nessun continente è così sessualmente corrotto come l'Europa a causa del matrimonio monogamico contro natura"[4].

In questa stessa linea il Leopardi di Aspasia, frustrato da Fanny Targioni-Tozzetti sui sentimenti della quale precedentemente si era illuso al punto che gli sembrava di errare "sott'altra luce che l'usata"[5]. Dopo la morte del poeta, Ranieri disse a Fanny che quella donna era lei ma ella protestò dichiarando di non aver mai dato "la menoma lusinga a quel pover uomo" e anzi precisò, ogni volta che il Leopardi accennava a cose d'amore, "io m'inquietavo, e non volevo, né anco credevo vere certe cose, come non le credo ancora, ed il bene che io gli volevo glielo voglio ancora tal quale, abbenché ei più non esista"[6]. Vediamo dunque la vendetta dell'innamorato deluso. Rispetto al solito: diventerai vecchia e brutta, qui la variante è: sei scema come tutte, quasi tutte le donne. Riporto alcuni versi di Aspasia :"Raggio divino al mio pensiero apparve,/donna, la tua beltà[7]...
Vagheggia/il piagato[8] mortal quindi la figlia/della sua mente, l'amorosa idea/che gran parte d'Olimpo in se racchiude, /tutta al volto ai costumi alla favella/pari alla donna che il rapito amante/vagheggiare ed amar confuso estima./or questa egli non già, ma quella, ancora/nei corporali amplessi, inchina ed ama./ Alfin l'errore e gli scambiati oggetti/conoscendo, s'adira; e spesso incolpa/la donna a torto. A quella eccelsa imago/sorge di rado il femminile ingegno;/e ciò che inspira ai generosi amanti/la sua stessa beltà, donna non pensa,/né comprender potria. Non cape in quelle/anguste fronti ugual concetto. E male/al vivo sfolgorar di quegli sguardi/spera l'uomo ingannato, e mal richiede/sensi profondi, sconoscuti, e molto/più che virili, in chi dell'uomo al tutto/da natura è minor. Che se più molli/e più tenui le membra, essa la mente/men capace e men forte anco riceve" (vv. 33 e ss.). Quel "di rado" invero lascia qualche speranza.


CONTINUA



[1]Si ricorderà "son volpi vezzose" de Le nozze di figaro.
[2]Eneide, IV, 569-570.
[3]G. Leopardi traduce"In carità reciproca... ambo i consorti dolcemente invecchiano".
[4]Parerga e paralipomena Tomo II, p. 832 e ss.
[5]G. Leopardi, Il pensiero dominante , v. 104.
[6] Citazione tratta da Giacomo Leopardi, Canti , p. 231.
[7]Nota il platonismo.
[8]Nota il tovpo" della ferita amorosa.