venerdì 2 febbraio 2018

Ifigenia. Silvia Virág

Silvia Virág

La sera del primo di agosto c’era una festa da ballo sulla terrazza del casinetto di fianco allo stadio. C’erano tutti i miei conoscenti e amici di quell’anno 1979 e quelli rimasti vivi degli anni passati. C’era anche la bella slava Giulia in forma splendente: i suoi occhi azzurri e i capelli biondi, radiosi, facevano venire in mente il mare di Grecia illuminato dal sole. Mi venne l’idea di farle la corte e di piacerle poiché Ifigenia continuava a non scrivere infliggendomi una ferita ogni giorno, quando, dopo la scuola, andavo a vedere se c’era posta per me. Una piaga, un’ulcera che mi bruciava dentro e fuori ogni giorno di più.

La posta c’era sempre solo per altri. L’ulcus si aggravava e uccideva l’amore.
Pensai dunque che potevo prepararmi il terreno con una corte fatta a regola d’arte in modo da essere in grado di prendermi una vendetta allegra se colei continuava a negarmi il conforto di qualche riga. Un farmaco necessario oramai.
C’era pure Silvia Virág che mi corteggiava e gratificava dicendo che le piacevo siccome ero molto diverso dagli altri. Le sorrisi e la ringraziai ma prima di darle una risposta mi chiesi se la stravaganza fosse davvero un’ottima cosa. Allora non avevo le idèe chiare su questo. Ora rispondo che essere soli e diversi in sé non è bene e non è pienamente umano se è vero che siamo animali politici e linguistici, ma quando la nostra specie si spoliticizza e diviene brutale o vegetale, quando il prossimo è formato da profittatori e imbecilli, allora stare da soli a leggere, riflettere, scrivere è la maniera per salvare quanto rimane della propria identità umana e politica lavorando per gli uomini dell’avvenire. “Essi saranno la mitezza e la forza”, ha scritto un poeta ungherese del Novecento,  József Attila.

A Silvia poi dissi che non mi spiaceva essere differente dagli altri, anche se tale difformità mi era costata solitudini lunghe e difficili. Il corso di Debrecen, aggiunsi, era un ambiente strano e consolatorio, siccome frequentato da studiosi di materie umanistiche provenienti da quasi tutte le Università europee e vi si potevano trovare persone inclini al pensiero e curiose di imparare, ma frequentare la gente usuale diseducata dalla pubblicità e dalla propaganda, infarcita di luoghi comuni, ascoltare luoghi comuni o menzogne, significava perdere tempo, il bene più prezioso di questa breve esistenza. Di qui la mia solitudine cronica e la mia diversità da anacoreta.
“Tuttavia non dispero che un giorno, forse in seguito a qualche catastrofe espiatoria o all’opera di un demiurgo geniale, rinasca un ethos politico tra la gente comune, che dalle rovine del ’68 o magari dai testi della Grecia classica, risorga un popolo capace di pensare e sentire umanamente; allora la preparazione che sto costruendo in me stesso, con anni di lavoro solitario, forse potrò impiegarla in favore delle donne e degli uomini tornati umani”.
“Dovresti scrivere-disse la ragazza tedesca mal maritata con un ungherese e separata da lui. Un’altra possibile vendetta allegra.
“Ci penserò. Lo farò di sicuro quando avrò qualcosa di preciso da dire se allora avrò a arricchito il mio linguaggio, trovato uno stile mio e ne sentirò la necessità”, risposi. Quindi ci separammo.

giovanni ghiselli

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