lunedì 12 maggio 2025

Ifigenia XCIX. Le ferite antiche si riaprono.


 

Ifigenia è un nome circondato da un alone letterario, eppure profano;  l’alone di Helena,  la finlandese amata nel 1971, è pure sacro.

Mi accingo a procedere nel racconto della storia con la bella italiana. Cercherò di rendere interessante quanto di personale scrivo in modo che nei miei amori ciascun lettore possa riconoscere qualche cosa dei propri.

La sera del 30 giugno Ifigenia con una coppia di amici suoi e con il suo bambolotto più caro, chiamato Cicciobello, partì per Misano dove avrebbe passato il mese di luglio in una casetta presa in affitto e sulla spiaggia gremita.

Rammento bene quella piccola casa perché c’ero stato un paio di volte, poi mi tornava in mente quando ero a Debrecen dove non cercavo l’amore come negli anni passati, bensì affaticavo il cervello chidendomi perché Ifigenia non mi scrivesse, o per quale altra ragione non arrivasse l’espresso promesso, falso dilemma.

Pensavo  all’amante silente tra le pareti della sua stanza di notte, o nella cucina a bere il caffè dopo il riposo nel letto, non agitato, speravo, e scosso da chissà quale tanghero.

A quella casetta prossima al mare indirizzavo la posta ogni giorno  senza ricevere mai l’agognata risposta. Come succedeva con la mamma bella e bruna negli anni Cinquanta quando ero a Moena con la zia Giulia, e la madre mia si trovava a Pesaro dove spedivo lettere e cartoline senza ricevere mai nulla da lei. Accadrà di nuovo con Päivi dopo la mia visita in Finlandia nel settembre del 1974 e l’aborto mai comunicato.

Helena Augusta invece mi scrisse presto  e mi rese conto di quanto aveva deciso.  Lasciandomo solo e pure libero e con buoni ricordi.

 Ecco perché è diventata la suprema, la sublime tra le donne amanti incontrate in questa vita mortale. Non mi ha mai ingannato. Un’eccezione.

 

A mano a mano che i giorni passavano e la posta promessa non arrivava, si ripeteva l’antico dolore del bambino che si sentiva abbandonato, sicché  il silenzio ostinato  riapriva la ferita, e l’amore per Ifigenia diveniva ogni giorno più brutto, ulcerato con un’infezione che generava  dolore, risentimento, rancore.  Sospettavo, ma non volevo ancora ammetterlo con tutto me stesso, che non rispondere  significa non amare la persona in attesa, siccome ci sono altri piaceri da ricevere e dare.  Avrei dovuto approfittarne per fare altre esperienze anche io, se fossi stato meno pazzo. C’era una tedesca di Berlino est che mi corteggiava assiduamente ma io la frequentavo solo da amico. Tra l’altro questa ragazza aveva un eloquio, pur in inglese, più ricco di contenuti interessanti, ossia politici, dello sciocchezzaio sentimentale, falso oltretutto, cui mi ero assuefatto negli ultimi mesi. Tali donne se ci piacciono per motivi carnali, dobbiamo prenderle come sono, senza soffrire se non sono colte né intelligenti né oneste come la ragazza madre di Cristo o Maria Goretti da Corinaldo l’idolo dell’amico evaso dal seminario di Cesena.

Le femmine non sante sono incarnazioni della carne. Volerle diverse da come sono è u[bri~, è dismisura mentale e morale. Al ritorno Ifigenia voleva continuare con me: se avessi avuto una relazione con la germanica, la bionda Silvia,  avrei avuto l’anima in pace. Ma ero mezzo pazzo. E scemo del tutto: in quel mese caddi in balìa del mio côté deficiente evidenziato dalla zia Rina. Sono ancora pentito di non avere fatto l’amore con quella ragazzona tedesca che anche solo parlando mi insegnava tanto.

Del resto nei due anni seguenti con Ifigenia ho imparato molto altro sul male da tale maestra.

 

Bologna 12 maggio 2025 ore 11, 23. giovanni ghiselli-

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Omero, Odissea, XVII parte. L’intelligenza di Odisseo. I segni divini. La dote.


 

L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia, no.

 

Anche se il piangere di Telemaco è stato un mezzo efficace per commuovere il popolo, generalmente nella letteratura classica l'ostensione del dolore non è priva di biasimo.

 

Nell'Elettra  di Sofocle (v.1172) il coro suggerisce alla protagonista che crede di avere perduto il fratello :" mh; livan stevne", non piangere troppo; sei nata da padre mortale, e Oreste pure era mortale.

 

Pascersi di lacrime è una voluttà depravata, significa non riconoscere la giustizia divina. Soprattutto sconveniente è lacrimare in pubblico: nell'Antigone  (vv.1247-1249) il nunzio spera che Euridice, appreso il suicidio del figlio, sparga lacrime sotto il suo tetto, non pubblicamente:" mi nutro della speranza/

che, venuta a sapere la pena del figlio, non riterrà degni/

i lamenti in faccia alla città, ma sotto il tetto, all'interno ("ajll j uJpo; stevgh" e[sw"/proporrà alle ancelle di piangere il lutto domestico (vv. 1246-1249) .

 

Anche nell'Andromaca di Euripide, la nutrice di Ermione consiglia alla ragazza affranta di entrare nel palazzo per non dare spettacolo del suo terrore (vv. 876-878).

 

Alcesti  , l'ottima moglie, moribonda "si è accostata a tutti gli altari che sono nella casa/di Admeto, li ha incoronati e ha pregato/staccando il fogliame dai ramoscelli di mirto,/senza lacrime, senza gemiti, a[klausto" ajstevnakto"", (vv. 170-173).

 Platone biasima Omero per avere rappresentato Achille piangente (Repubblica , 388 a-b). 

 

Tacito nella Germania  (27, 1) fa distinzione tra il pianto dei maschi e quello delle femmine:"Feminis lugere honestum est, viris meminisse ", per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.

 

Ancora a proposito dell'ostensione del dolore Nietzsche scrive:"A che cosa rimanda il fatto che la nostra cultura non solo è tollerante verso le estrinsecazioni del dolore, verso le lacrime, i lamenti, i rimproveri, il gesticolare del furore o dell'umiliazione, ma le approva e le annovera tra le più nobili delle cose inevitabili? Invece lo spirito dell'antica filosofia le riguardava con disprezzo e non annetteva loro assolutamente alcuna necessità. Ci si rammenti come Platone-cioè uno dei filosofi non certo meno umani-parla del Filottete  della scena tragica. Che alla nostra moderna cultura manchi “la filosofia?” Apparterremmo forse noi tutti e ciascuno in particolare, secondo quanto stimavano quegli antichi filosofi, alla “plebe”?"[1].

 

Non a tutti gli autori moderni del resto approvano le lacrime: infatti l'autore del romanzo Il Gattopardo considera le lamentele poco aristocratiche:"Questi nobili poi hanno il pudore dei propri guai: ne ho visto uno, sciagurato, che aveva deciso di uccidersi l'indomani e che sembrava sorridente e brioso come un ragazzo alla vigilia della Prima Comunione; mentre voi, don Pietrino, lo so, se siete costretto a bere uno dei vostri decotti di senna fate echeggiare il paese dei vostri lamenti. L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un 'signore' lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco" (p. 135).

Nel film di Visconti il protagonista piange da solo, davanti a uno specchio.

Fine Excursus

Quindi parla Antinoo, il caporione della banda, che racconta la storia della tela di Penelope facendo notare l'intelligenza insuperabile della donna. Costui pecca di prepotenza imponendo a Telemaco la scelta tra rimandare la madre a casa del padre di lei con l'ordine di sposarsi, se non vuole vedere ancora il suo patrimonio dilapidato. "Con il suo inganno Penelope arresta l'inesorabilità del tempo: oggi è uguale a ieri, a giudicare dal lavoro del telaio. Penelope inganna i pretendenti prolungando una situazione, quella del giorno in cui partì Ulisse, annullando il tempo nella misura in cui disfà quello che ha tessuto. L'inganno di Penelope viene concluso da Ulisse al suo ritorno che prende i pretendenti in una "rete dai mille fori"  diktuvw/ poluwpw`/ Od. XXII 386)"[2].

I proci comunque fanno di tutto per meritarsi la morte. "Gli dei condannano la loro condotta, e mettono in moto la concatenazione di fatti per cui Ulisse potrà fare ritorno e vendicarsi di loro. Una volta iniziato questo processo, la causa degli dei è difesa da Atena, che sorveglia attentamente Ulisse nelle sue avventure, lo aiuta a trarsi dai peggiori pericoli e lo incoraggia a uccidere i proci, cosa che apertamente ritiene giusta. Tuttavia questo spirito moralistico si fonde con quello eroico"[3].

 

Telemaco nella risposta invoca questo intervento degli dèi contro l'ingiustizia dei proci che restano isolati dal punto di vista morale: egli infatti non vuole rendersi loro complice cacciando la madre che potrebbe invocare le odiose erinni vendicatrici (v. 135). In questo il figlio di Odisseo si distingue, saggiamente, da Oreste.

 Dopo il discorso di Telemaco, Zeus manda un segno: due aquile che preannunciavano  con lo sguardo la morte ("o[ssonto d  j o[leqron", v. 152), poi, laceratesi con gli artigli le guance e il collo, si lanciarono a destra, sulle case e la loro città. 

"I segni divini" che vengono dagli uccelli di buono o cattivo augurio.

Gli omina vocali dei Romani: Cauneas!

 

 Gli uomini chiedono segni agli dèi, però gli incalliti nel male non li vedono.  Come dice il Cristo nel :"Generatio mala et adultera signum requirit, et signum non dabitur ei nisi signum Ionae prophetae " ( N. T. Matteo, 12, 39), la generazione malvagia e adultera reclama un segno, e non le sarà dato un segno se non quello di Giona profeta.

Così nel Gerontion  di Eliot leggiamo:"Signs are taken for wonders. 'We would see a sign!'/The word within a word, unable to speak a word,/Swaddled with darkness. In the juvescence of the year/Came Christ the Tiger " (vv. 17-20), i segni sono presi per miracoli. 'Vogliamo vedere un segno!'/La parola dentro una parola, incapace di dire una parola,/fasciata di tenebre. Nella giovinezza dell'anno/ venne Cristo la tigre.Ma gli uomini non lo riconobbero.

Vediamo invece qual è il segno divino dell'Odissea . Il vecchio  , un indovino che eccelleva nel conoscere il volo degli uccelli (" o[rniqa" gnw'nai", II 159) e rivelare il destino conferma l'imminente arrivo del re e la rovina dei proci se non smetteranno.

Si chiama Aliterse e già partenza di Odisseo e dei compagni aveva predetto il ritorno del capo, da solo, al ventesimo anno,

 

Anche nell'Antigone  di Sofocle l'indovino Tiresia che ha visto gli uccelli dilaniarsi tra loro con gli artigli, fino alla strage, dichiara che il rombo delle ali non era privo di segni (v. 1004) il cui significato è la malattia della città derivata dalla disposizione mentale del tiranno Creonte il quale non dà retta, anzi afferma empiamente: "neppure così, siccome non ho  terrore di questa contaminazione,/lascerò seppellire quello là: infatti so bene che/nessuno degli uomini ha la forza di contaminare gli dei"(vv. 1042-1044).

Altrettanto empio è il protagonista dell'Edipo re  istigato dalla madre-moglie:"Ahi, ahi, perché dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/il fatidico altare di Delfi o gli uccelli / che schiamazzano in alto (tou;" a[nw-klavzonta" o[rnei"), sotto la guida dei quali io/dovevo ammazzare mio padre?"(vv. 964-967).

Su questa linea di negazione degli auspìci troviamo Teseo nell'Ippolito  di Euripide, nel momento in cui accusa ingiustamente il figlio:"tou;" d  j uJpe;r kavra-foitw'nta" o[rni" poll j ejgw; caivrein levgw" (vv. 1058-1059 ), agli uccelli che vanno e vengono sul capo mando tanti saluti.

 Pure Apollonio Rodio rappresenta un personaggio tracotante, blasfemo, e scettico nei confronti dei segni che vengono dagli uccelli: si tratta di Ida che, come Edipo re  e Aiace  di Sofocle rivendica a se stesso i successi nelle imprese,  volenti o no gli dèi[4], quindi contesta gli aùspici Idmone e Mopso e irride quanti rifiutano il combattimento "oujkevt j jEnualivoio mevga sqevno", ej" de; peleiva"-kai; kivrkou" leuvssonte""( Argonautiche, III, 560-561), guardando non più alla grande forza di Ares ma a colombe e sparvieri.

 

Gli autori e i personaggi religiosi viceversa riconoscono validità ai segni degli uccelli: Plutarco nella Vita di Tiberio Gracco  racconta che poco prima della morte del tribuno si videro dei corvi che si azzuffavano sulla sinistra del tetto di casa ("w[fqhsan uJpe;r keravmon macovmenoi kovrake" ejn ajristera'/" , 17, 4) e uno di loro fece cadere una pietra ai piedi di Tiberio.

 

Ennio negli Annales  racconta che Romolo e Remo scrutavano il cielo e attendevano segni dagli uccelli per sapere "uter esset induperator " v. 78 Skutsch, chi dei due sarebbe stato il capo. Romolo, come si sa, ebbe l'auspicio favorevole:"et simul ex alto longe pulcerruma praepes/laeva volavit avis: simul aureus exoritur sol./Cedunt de caelo ter quattuor corpora sancta/avium, praepetibus sese pulcrisque locis dant./ Conspicit inde sibi data Romulus esse priora, auspicio regni stabilita scamna solumque ", vv. 86-91, e subito dall'alto un uccello, di gran lunga il più bello, di buon augurio, si mostrò in volo da sinistra: subito sorge il sole d'oro. Scendono dal cielo tre volte quattro corpi santi di uccelli, e si dirigono a luoghi fausti e belli. Quindi Romolo vede che l'auspicio ha dato a lui la supremazia, il trono e il dominio del regno.  

 

Tacito nota che pure tra i Germani è noto il famoso uso di interrogare le voci e i voli degli uccelli ("Et illud quidem etiam hic notum, avium voces volatusque interrogare ", 10, 2).

Un uccello di cattivo augurio è la civetta in Nietzsche:"Un tempo agognavo auspici di felicità: e voi mi faceste attraversare la strada da una civetta mostruosa e ributtante"[5].

I segni possono venire anche da voci umane. “Soprattutto, si sa in quale conto i Romani tenessero i loro omina vocali, ugualmente presagi di voci còlte al volo, frasi ingenue, involontarie, che pure contenevano un messaggio profondo e spesso fondamentale per la persona a cui erano dirette”.

Per l’etimologia di omen Bettini rimanda a E. Benveniste, il quale scrive: “La formazione di ōmen presenta una difficoltà: il tema si trova ridotto alla vocale ō-. Questo lascia alla restituzione parecchie possibilità, che sono state di fatto proposte dagli etimologisti senza che nessuna sia parsa dimostrabile. Ma abbiamo ora un accostamento che permette di spiegare senza sforzo il senso e la formazione di ō-men. Il radicale lat. ō- può paragonarsi direttamente al tema verbale itt. - ‘credere, considerare vero’; di conseguenza ōmen s’interpreterà come ‘dichiarazione di verità’. Una parola fortuita, pronunciata in una circostanza decisiva, potrà essere accettata come ōmen, come presagio vero, come segno del destino. Sarà una parola di buon ‘augurio’, annunciatrice della sorte. Parecchi esempi sono riportati da Cicerone (De divinatione I 46)”[6].

 

Torniamo a Bettini: “Anche in questo caso bisognava però saper riconoscere il valore soprannaturale della “voce”, quando si manifestava. Crasso, per esempio, non riuscì a comprendere che il venditore di fichi Cari-il quale gridava Cauneas! Sulla banchina del porto di Brindisi-non stava semplicemente facendo pubblicità alla sua merce, gridando “vendo fichi di Cauno!”, come si poteva pensare. Niente di tutto questo. Il venditore lo diffidava nientemeno dal prendere il mare verso la sua propria morte: cau’ n(e) eas! “non andare”, stava infatti gridando-ovviamente secondo la pronunzia apocopata dell’imperativo cave che si usava nel latino parlato[7]. Ma Crasso non se ne accorse. Il problema era che, per sua disgrazia, non se l’aspettava”[8].

 


 

Era empietà dunque o per lo meno miscredenza non considerare il segno che viene dagli uccelli. Ebbene tale negazione parte da Eurimaco il quale minaccia il profeta e assicura che Odisseo è morto da un pezzo e non bisogna dar retta agli uccelli: ne girano molti sotto i raggi del sole e non sono tutti fatidici (vv. 181-183).

 

A Telemaco il prepotente consiglia di rimandare la madre dal padre : per lei i pretendenti prepareranno le nozze e i doni nuziali, quanti è giusto che accompagnino una cara figliola (vv. 196-197). Qui non è chiaro chi paghi la dote: dal verso 196 sembra il nuovo sposo; dal 197 il padre. Pare che Eurimaco comunque voglia dire a Telemaco che non starà al figlio dotare la madre. L'uso che sia il marito a portare la dote alla sposa risulta da vari passi dell'Odissea  (p. e. VIII 318 , XI 282 , XV 16 sgg).

 

 

Nell'Iliade  Andromaca è a[loco" poluvdwro" (VI, 394) la sposa dai molti doni, fatti da Ettore, il quale la portò via dalla casa di Eezione dopo che ebbe dato "muvria e{dna" (XXII, 472), infiniti regali di nozze.

 

 

Vediamo un paio di casi nella letteratura latina.

Tacito racconta che presso i Germani:"Dotem non uxor marito sed uxori maritus offert " (Germania , 18, 2), la dote non è la moglie che la porta al marito, ma il marito alla moglie

 

La dote morale portata dalla sposa al marito.

Nell’Amphitruo di Plauto, Alcmena, sospettata di tradimento dal marito afferma di avergli portata una dote non materiale, bensì morale: un patrimonio di onestà e generosità: “Non ego illam mihi dotem duco esse, quae dos dicitur,/Sed pudicitiam[9] et pudorem et sedatum cupidinem,/Deum metum, parentum amorem et cognatum concordiam,/tibi morigera atque ut munifica sim bonis, prosim probis” (vv. 939-942), non considero mia dote quella nota, che si chiama dote, ma pudicizia e rispetto e passione controllata, timore degli Dei, amore dei genitori, accordo con i congiunti, essere condiscendente con te, generosa con i buoni, giovare alle persone per bene. 

 

 Eurimaco aggiunge che essi non smetteranno la corte molesta ( mnhstuvo~ ajrgalevh~ v. 199) finché Penelope resterà con il figlio poiché non temono Telemaco né il cattivo augurio.

 Le molestie sessuali dunque erano già minacciate e praticate, e verranno pure punite, ancora più pesantemente di oggi. Telemaco in risposta chiede una nave per andare in cerca del padre. Poi prende la parola Mentore, un compagno di Ulisse cui il re partendo aveva affidato la casa. Egli rimprovera non i proci che divorano violentemente il palazzo di Odisseo rischiando la testa (vv. 237-238) ma il popolo di Itaca per la sua acquiescenza verso chi dilapida i beni di un re buono. Gli risponde un pretendente tracotante: Leocrito che afferma il diritto del più forte, ossia il loro, di fare scempio della roba se questa non può essere difesa:" ajrgalevon de;-ajndravsi kai; pleovnessi machvsasqai peri; daitiv "(vv. 244-245), è difficile combattere per il pasto contro degli uomini che sono pure numerosi. E' già l'affermazione del diritto del più forte che troverà sviluppo nell'opera di Tucidide. A Telemaco, come ai Meli dello storiografo, non resta che invocare gli dèi, e il ragazzo si rivolge ad Atena. Questa gli si avvicina con l'aspetto di Mentore e gli parla. Mentore- Atena è di nuovo l'educatore che si rivolge al giovane incoraggiandolo. Gli ripete che assomiglia a suo padre nella quintessenza di lui: l'ingegno ("mh'ti"  jOdussh'o"", v. 279).


Nella guerra di Troia, come anche durante le avventure del ritorno e in letteratura da Sofocle a Shakespeare, egli si rivela maestro di retorica, del linguaggio finalizzato alla sopravvivenza, impiegato a scopo politico nella persuasione, nell’inganno, nell’illusione, per il possesso e il dominio (in Dante aspirazione alla conoscenza, oratoria e maestria nella navigazione si congiungeranno. Infine…Odisseo costituisce nella sua metis e nella sua aletheia[10], nell’astuta arte della sapienza che lo lega ad Atena e nella verità che lo associa ad Apollo, un modello di poesia  [11].

 

 

Ulisse, eroe dell'intelligenza. La metis[12]. Odisseo è simile a Zeus mhtiveta, Zeus che ha ingoiato Metis.

 Questa facoltà infatti "caratterizza l'eroe dell'Odissea...La metis , cui presiede la dea Atena, che sempre protegge Ulisse, è intelligenza unita all'astuzia, è coglier sempre la palla al balzo, prudenza che consiste nell'approfittare di qualsiasi mezzo...Nel libro III dell'Iliade , in una famosa scena, Elena, dalle mura di Troia, informa Priamo sull'identità e sull'aspetto di alcuni degli eroi achei che può scorgere dalla sua torre di vedetta. Quando è la volta di Ulisse, Elena lo presenta così (vv. 200-202):"E' il figlio di Laerte, l'accorto (poluvmhti~ : che ha molta metis , recita il testo greco) Odisseo, che crebbe tra le genti della rocciosa Itaca e conosce ogni sorta di inganni pantoivu~ dovlou~  (202) e di sottili pensieri"...Ulisse...medita: parla del destino e si lamenta, ma sempre riflette e non si lancia in alcunché che non abbia prima calcolato: da qui scaturiscono le sue risorse, ed è grazie a ciò che egli ottiene di accedere al mondo dei morti e di poter uscire dal luogo da cui non si può far ritorno, così come, unico tra gli uomini, riesce a udire il canto delle Sirene senza esserne sedotto. Sia nel caso di Circe come in quello dell'accesso all'Ade, egli sa che cosa deve fare, e di fronte alle Sirene escogita uno stratagemma: tappa gli orecchi dei suoi marinai e si fa legare all'albero della nave"[13].

Nel II canto dell'Iliade Omero assimila la metis di Odisseo addirittura a quella di Zeus: "  jOdusseuv"Dii; mh'tin ajtavlanto" " (v. 636).

Nell’Odissea Ulisse si rivolge al proprio cuore perché sopporti le beffe delle ancelle in casa propria, e per incoraggiarsi ricorda quando nell’antro del Ciclope  si credeva già morto,  quando la mh'ti~ lo trasse fuori (se mh'ti~-ejxavgag  j, XX, 18-21). 

La superiorità che conta è quella fondata sulla metis :"Per quanto forte possa essere un uomo o un dio, viene sempre un giorno in cui egli trova qualcuno più forte di lui: soltanto la superiorità in metis conferisce a una supremazia quel duplice carattere di stabilità e di universalità che fa di essa un vero e proprio potere sovrano. L'uomo della metis è sempre pronto a scattare; agisce come un fulmine. Ciò non vuol dire che Odisseo ceda, come accade di solito agli altri eroi omerici, a un impulso improvviso. Al contrario, la sua metis sa pazientemente attendere che si verifichi l'occasione attesa. Anche quando deriva da un brusco slancio, l'azione della metis si colloca agli antipodi dell'impulsività. La metis è rapida, improvvisa come l'occasione che essa deve prendere al volo, senza lasciarla passare. Ma essa è tutto tranne che leggera, lepté  : carica di tutto il peso dell'esperienza acquisita, è un pensiero denso, fitto, serrato-pykiné  ; invece di ondeggiare qua e là secondo le circostanze, essa radica profondamente la mente nel progetto che ha elaborato in anticipo, grazie alla sua capacità di prevedere, al di là dell'immediato prsente, una fetta più o meno spessa di futuro.

Omero attribuisce infine alla metis una terza caratteristica. Essa non è una né unita, ma molteplice e diversa. Nestore la qualifica pantoìe . Ulisse è l'eroe polùmetis  (scaltro) come è polùtropos  (versatile) e poluméchanos  nel senso che non manca mai di espediento, di pòroi , per trarsi d'impaccio in ogni genere di difficoltà, aporìa ...La varietà, il cambiamento della metis, sottolineano la sua parentela con il mondo multiplo, diviso, ondeggiante dove essa è immersa per esercitare la sua azione. E' questa complicità con il reale che assicura la sua efficacia"[14].

 

Infine giunge il momento di agire: allora Ulisse possiede in modo supremo quello che i Greci chiamano l’intuizione del kairov~. Come dice Pindaro, egli sa che l’occasione ha breve durata: ora c’è, tra dieci minuti non si ripete. Bisogna agire al momento giusto e nella situazione giusta, prima che l’occasione s’involi: spiare l’istante, con esattezza, senza dimenticare e senza abbandonarsi all’eccesso[15]. Perché, senza misura, il kairov~ si perde”[16].

 

Platone nelle Leggi stabilisce questa graduatoria per quanto riguarda il governo delle cose umane: “qeo;~ me;n pavnta, kai; meta; qeou` tuvch kai; kairov~, tajnqrwvpina diakubernw`si suvmpanta” (709b), dio pensa a tutto, e con dio la sorte, e l’occasione, governano tutte insieme le cose umane.   

 

 Né bisogna dimenticare che l'occasione "è calva di dietro"[17]. “Per cogliere il kairov~ fugace, la mh`ti~ deve essere più rapida di esso”[18].

Nell’Antonio e Cleopatra  di Shakespeare Menas decide di non seguire più l’indebolita fortuna di Sesto Pompeo che ha perso l’occasione di sbarazzarsi dei suoi nemici: “Who seeks and will not take, when once ‘tis offer’d, -Shall never find it more” (II, 1), chi cerca e non prende qualcosa una volta che viene offerta, non la troverà mai più.

 

Ma torniamo a Vernant che considera Metis quale divinità  di Esiodo:" Nella Teogonia , appena promosso re degli dèi, Zeus convola a prime nozze con Metis, figlia di Oceano, dea che" ne sa più di tutti gli dèi o uomini mortali". Questa unione riconosce appunto i servizi che l'intelligenza scaltra ha reso al dio, nella sua accessione al trono, e illustra la necessità della presenza di Metis nel fondamento di una sovranità che non può, senza di lei, né essere conquistata, né esercitarsi né conservarsi. Prendendo dalla madre lo stesso tipo di astuzia tortuosa che la caratterizza, i figli della dea sarebbero certamente invincibili e finirebbero col prevalere sul padre. Zeus dunque, a causa del matrimonio che lo consacra re degli dèi, si vede minacciato dalla stessa sorte che ha riservato al sovrano precedente: cadere sotto i colpi del proprio figlio. Ma Zeus non è un sovrano come gli altri. Crono, ingoiando i figli, lasciava ancora esistere al di fuori di sé potenze di scaltrezza superiore alla sua. Zeus va alla radice del pericolo. Egli rivolge contro Metis le armi stesse della dea: la scaltrezza, l'inganno, la sorpresa. Lusingandola con parole carezzevoli, la ingoia (Teogonia, 891)  prima che partorisca Atena, per evitare che dopo la figlia essa porti in seno un figlio, che fatalmente sarebbe stato re degli uomini e degli dèi. Sposando, dominando e ingoiando Metis, Zeus non è più solo un dio scaltro, egli è il mhtiveta [19], il dio tutto scaltrezza. Niente può più sorprenderlo, ingannare la sua vigilanza e opporsi ai suoi disegni"[20].  

 

Odisseo è amato dalla dea per la sua intelligenza:  i suoi compagni sono morti, egli invece " sopravviverà perché possiede qualche cosa in più: l'astuzia intelligente, o mh'ti", capacità che viene, insieme ad altre, dalla dea Atena, figlia di Zeus e di Metis"[21].

"Ulisse ha la capacità prodigiosa di immaginare i modi per uscire dalle situazioni più delicate. Questa capacità che gli è propria s'inscrive nell'epiteto greco che lo definisce in quanto eroe: è il poluvmhti"  jOdusseuv" e anche il poluvtropo", Ulisse dalle tante astuzie, dai tanti viaggi"[22].

“Egli costituisce fin dall’inizio della sua esistenza mitico-letteraria un modello, una forma “multiforme” (polytropos) di vita umana piena di potenzialità…Ulisse è inoltre supremo ingegnere e artigiano della techne: costruttore del cavallo di legno, di una zattera, del suo stesso letto nuziale;esperto navigatore.

 

L'intelligenza del resto caratterizza anche Penelope che è la compagna degna di Odisseo e pure Telemaco che vuole diventare come il padre. Tutti sono protetti da Atena, la dea della metis . I proci invece, continua Mentore, sono nello stesso tempo per niente assennati né giusti ( "ou[ ti nohvmone" oujde; divkaioi", v. 282) poiché non sanno nulla della morte e del nero destino che sta accanto a loro. La distinzione tra i vincenti e i perdenti sta nel sapere e capire: a chi capisce, sarà dato.

Odisseo mente al Ciclope quando gli dice di chiamarsi Outis. “ Si tratta anche di un gioco di parole perché le due sillabe di ou-tis possono essere rimpiazzate in altro modo, me-tis. Ou e me sono infatti in greco le due forme della negazione, ma se outis significa nessuno, metis designa l’astuzia. Ben inteso, quando si parla di metis, si pensa innanzitutto a Ulisse che è appunto l’eroe della metis, della capacità di trovare soluzioni all’inestricabile, di mentire, di raggirare le persone, di raccontare loro sciocchezze e di sapersela cavare sempre al meglio”[23].

Infine: nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Polluce sconfigge e uccide Amico, il brutale re dei Bebrici in uno scontro di pugilato all’ultimo sangue grazie alla tecnica e alla metis: il figlio di Leda e di Zeus schivava gli assalti e restava incolume dia; mh`tin (II, 75).

 

Bologna 12 maggio 2025 ore 10, 49 giovanni ghiselli

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[1] Aurora, libro Terzo, 157

[2]C. Miralles, Come leggere Omero  p. 82.

[3]C. M. Bowra, Mito e modernità della letteratura greca , p. 46.

[4]Nel I libro de Le Argonautiche  grida a Giasone:" non ci sarà sventura esiziale né impresa incompiuta, finché Ida ti segue, anche se un dio si oppone"(vv. 468-470)

[5]Così parlò Zaratustra , II, Il canto dei sepolcri.

[6] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, p. 478.

[7] Questo celebre caso di omen è riportato da Cicerone, De divinatione, 2, 84.

[8] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 7.

[9] Poco più avanti Alcmena, sdegnata per le accuse che le sono state rivolte, minaccia di lasciare la casa maritale portandosi dietro il Pudore che le farà da scorta: “comitem mihi Pudicitiam duxero” (v. 930).

[10] G. Chiarini, Odisseo, Il labirinto marino, Roma 1991, pp.101-44.

[11] Piero Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 14 e p. 15.

[12] Quel misto di saggezza, di spregiudicatezza e di astuzia che dev’essere patrimonio di statisti e uomini di guerra” G. Brizzi, Annibale Come un’autobiografia, p. 32.

 

[13]C. Miralles, Come leggere Omero , pp. 59, 60 e 61.

[14]M. Detienne-J. P. Vernant, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia , p. 3 e sgg.

[15] L’intelligenza dell’occasione serve a capire la misura appropriata: “C’è una misura in tutto: e l’occasione è ottima a comprenderla” (Pindaro, Olimpica XIII, vv. 47-48). Ndr.

[16] P. Citati, La mente colorata, p. 93.

[17] C. Marlowe, L'ebreo di Malta, V, 2.

[18] M. Detienne-J. P. Vernant, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, p. 11.

[19]Odissea  , XIV, 243.

[20]J. P. Vernant, Tra mito e politica  , p. 147.

[21]M. Detienne-J.P. Vernant, Les ruses de l'intelligence, la mêtis des Grecs , Flammarion, Paris, 1974.

 

 [22]F. Dupont, Omero e Dallas , p. 56.

[23] J. P. Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, pp. 98-99.