sabato 26 luglio 2025

Ifigenia CCXLIV La festa lugubre. Il tranello della gravidanza mentita.


 

Arrivai al teatro che era circa l'una. Gli aspiranti

attori erano scesi in uno stanzone sotterraneo: festeggiavano il

compimento del lavoro annuale e aspettavano i voti: avevano l'aria

di attendere una promozione generale. Parlavano, o ridevano,

mangiavano e bevevano vino. Vicino alle pareti c'erano lunghi

tavoli coperti di bottiglie e vassoi con frammenti di pasta fritta. I

giovani stavano in piedi nel mezzo della sala con frittelle e

bicchieri in mano. Su piccole pozze multicolori sparse dovunque,

galleggiavano pezzi di  fritto unto  che irradiava minuscoli

arcobaleni. Lasciavano segni dai colori confusi: erano enigmi difficili da risolvere .

Appena mi ebbe notato, Ifigenia mi corse incontro e fece:

"Ciao amore, stavo per telefonarti".

"Per dirmi che cosa?"

"Che mi mancavi tanto. Sono contenta che tu sia tornato".

Si era ricordata che ci sarebbe stato un altro esame

 e che potevo esserle  utile per superarlo.

 Sempre che nel frattempo non avesse trovato un altro supervisore più importante.

"Meno male", pensai, e tirai un sospiro di sollievo, ma senza darlo

a vedere.

Dissi:"Sono venuto per domandarti se ti serve un passaggio fino a

casa, o se hai bisogno di me in altro modo".

"In ogni modo io ho bisogno di te, gianni, amore. Stai qua  mentre

attendo il voto", rispose, e mi baciò. Aveva capito di essere

stata troppo dura, troppo precipitosa rispetto al compimento,

vicino ma non immediato della nostra vicenda e delle parti che vi

recitava: amante, Musa e parassita.

Parlammo della sua prova. Confessò che il il ragazzo portavoce e mimo di Alfred, durante la scena del bacio, le aveva messo la lingua dentro la

bocca. La cosa mi spiacque ma non glielo dissi. Né le parlai dello

strazio di poco prima. Aspettava il verdetto della commissione e

ne aveva paura. Arrivò verso le tre: era stata promossa con

ventitré trentesimi. Nell’ Università ai miei tempi non era un bel voto.

Dopo, andammo a casa mia e facemmo l'amore assai bene.

Ricordai che nel maggio precedente, quando pure ne ero

disamorato, la sera odorosa che la vidi recitare la parte di Nora in

Casa di bambola, provai un'attrazione forte , rinnovata, tanto

palese che a letto, disse:"Questa sera mi ami molto, quanto una volta; però adesso mi tratti come una pari tua. Ne sono felice. Vedrai che non ti deluderò".


Forse, vedendola sul palcoscenico, mi eccitava il pensiero che gli

altri uomini presenti in sala l'avevano desiderata, ma lei faceva

l'amore solo con me. Le dissi: “una gioia profonda mi prende vedendoti viva”1

La mattina seguente dormimmo a lungo. Il pomeriggio andammo

a Marina di Ravenna.  Durante il viaggio le svelai la mia pena

dell'ultima settimana  nella quale  mi ero  sentito  trascurato, e la

sofferenza della sera prima per il fatto che, finita la commedia,

non si era rivestita subito e mi aveva negletto.

Del bacio concesso al collega, il cui pensiero, pur non straziandomi, mi dava fastidio, non feci parola, poiché in fondo poteva essere giustificato come esigenza scenica.

Rispose che il mio desiderio di non vederla girare in mezzo al

pubblico con quella calzamaglia trasparente poteva essere

legittimo, ma la preparazione, la recita stessa, e l'immediato

doporecita, l'avevano impegnata tanto che  nemmeno se glielo avessi chiesto avrebbe potuto stare con me più di così.

 Su questo punto fui io a darle ragione, sicché ci trovammo d'accordo.

 Arrivati alla spiaggia, ci venne voglia di fare l'amore subito, in un luogo qualunque, purché un poco riparato dagli sguardi altrui. Insomma come ai bei tempi. Ma erano solo gli ultimi guizzi di una fiamma lontana2 e morente .

 

Ci chiudemmo in un capanno. Mi venne in mente un'espressione carica di amore e odio dei Fratelli Karamazov :"Prima mi facevano languire soltanto le flessuosità del suo corpo infernale, ma adesso tutta la sua anima l'ho trasfusa nella mia, e grazie a lei anch'io sono diventato un uomo3 !".

 Per un poco di tempo sperai ancora una volta che i nostri orgasmi si

sarebbero elevati fino all'intesa spirituale, alla trasfusione delle anime. Quando uscimmo di lì, stremati per la scomoda posizione e l'aria pesante nella quale ci eravamo scambiati un piacere affannoso, mi domandò:

" gianni, perché non facciamo un bambino?"

"Quando?"

"Subito".

"Perché subito?"

"Perché io ne ho bisogno subito".

"Possibile?"

"Sì, adesso mi sento molto infelice".

"Non mi sembra un motivo buono. Aspettiamo di essere più

soddisfatti, o almeno più equilibrati. Potremo farlo allora. Tu ieri

sei stata brava; presto reciterai davvero, a teatro, o al cinema, e ti

sentirai realizzata; io ricomincerò a scrivere. Se ci andrà bene,

saremo contenti di noi e metteremo al mondo un figlio per

renderlo partecipe della felicità nostra".

Dissi queste parole pieno di sincero ottimismo, siccome mi

inorgogliva il pensiero che Ifigenia volesse un bambino da me.

Ancora l'amavo nonostante tutti i sillogismi implacabili della mia

povera mente spietata. L’amore del resto non è riducibile a dei sillogismi, soprattutto se son difettivi in quanto prodotti da menti insensate.

Sentita la mia risposta negativa, Ifigenia si mise a piangere e continuò a lungo.

Quando fu sazia di lacrime, disse:" Non so tu, gianni, ma io sono

molto  disgraziata. Lasciami, se devo rendere tale anche te".

"No-risposi-finché tu vorrai stare con me, e non mi mancherai di

rispetto, non ti lascerò, poiché ti amo, e sono convinto che la

nostra unione darà altri frutti buoni. Ma da che cosa dipende

questo tuo accesso di dolore?"

Non seppe o non volle rispondermi.

Poco dopo, il suo umore migliorò. Siccome pensavo troppo a me

stesso, credetti che avesse dei sensi di colpa nei miei confronti,

forse per avere fornicato. Magari  era pure rimasta incinta di un altro e voleva attribuirmi il bambino. Questo in effetti non si poteva escludere.

Mi sarebbe capitato più di una volta in seguito. Ma non sono cascato mai in tale tranello.

Oppure piangeva poiché temeva, o aveva capito, di non avere talento. Non sapeva fingere bene, neanche con me.

Tornammo a casa al tramonto. La serata era bella.

 Bastava una sua gentilezza, un moto d'affetto anche sporadico nei miei confronti, per rallegrami

Lei invece era triste.

Rimasto solo, pensai al mio dolore della sera prima, al suo del

pomeriggio, alla nube che oscurava da quasi due anni il cielo del

nostro rapporto.

Eppure c'era una volta una ragazza che faceva brillare le lugubri,

lunghissime sere di novembre e dicembre con una luce più vivida

di quella del sole, quando entrava come una giovane  dea nel mio

talamo, togliendosi gli stivali ancora innevati. Che cosa ci

era successo? Quando mi fossi messo a raccontare la nostra storia, avrei dovuto scolpire immagini splendidissime con l'aurea,

solida  felicità amorosa delle prime stagioni, e pure estrarre figure significative dall’ oscurità lugubre degli ultimi tempi.

 

Note

1 “E’ accaduto in silenzio. Una gioia profonda

prende il buio davanti alla giovane viva”, Pavese, Poesie, Paternità, vv. 14-15.

 

2Cfr. Foscolo, Notizia intorno a Didimo Chierico:"Dissi che teneva chiuse le sue

passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana".

 

3Trad. it. Bietti, Milano, 1968,  parte quarta, capitolo quarto, p.709

 

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Ifigenia CCXLIII. L'esame. L'imbarazzo dopo la recita. La mia dolorosa ritirata.

I

L’esame si svolgeva all'incirca come la prova della sera prima. La differenza

stava nel pubblico più numeroso e in una riduzione del testo.

Ifigenia recitò discretamente. Meglio di tutto le riuscì la scena

sul Danubio. Alla fine i giovani attori furono applauditi a lungo

dal pubblico in piedi, del resto composto in massima parte da

amici, parenti e altri amanti di questa o di quello forse. La mia donna guardava gli osannatori. Era in calzamaglia poiché la rappresentazione si era chiusa con gli svolazzi dello Zeppelin erotico incarnato da lei, callipigia scultorea tuttavia fatta di carne che si muoveva.

Io ero in prima fila, ma fui ignorato. Quando gli applausi

terminarono, Ifigenia si mosse verso il gruppo dei suoi

amici che erano da un'altra parte. Rimasi al mio posto: non

volevo avvicinarmi inopportunamente. Speravo fosse lei a cercarmi con

lo sguardo e a venire da me: non ero nascosto. Mi ero  anche

aspettato che, finita la commedia, si sarebbe cambiata, o avrebbe

messo qualcosa sopra la tuta trasparente; invece si era accostata al

pubblico con il seno in evidenza.

 Questo mi dava fastidio: non erapiù per esigenza scenica che andava mostrando il petto  con tutte e due le poppe1, da donna sfacciata qual era.

  Era vanità, esibizionismo,  mancanza di rispetto per il suo uomo se mai lo fossi stato ancora.

Io la penso così, forse da retrogrado. Anche le sfacciate che mostrano seni e chiappe sulle spiagge non mi sono simpatiche. Nemmeno eccitanti sono. Una donna fine non lo fa, ed è più attraente.   Piuttosto mostra   le cosce, fin quasi alle mutande, le adorabili mutande delle donne belle e fini.

Gli amici  gridavano:"brava, brava!!!" come si fa con le prime donne dell’Opera. La volevano tutti, di qua e di là, come Figaro.

Lei sorrideva allungando il collo, giuliva. Soffrivo parecchio. Finalmente si accorse di me e venne a salutarmi. Ma non era contenta che fossi presente nel momento e nel luogo del suo primo trionfo. Oramai non le servivo più, ero di

troppo.

"Brava", dissi.

"Grazie. Dov'eri?"

"Qui, dove sono ora".

"Ti sono piaciuta?"

"Molto". Ci fu un momento di silenzio.

"Ora che cosa farai?"

"Non lo so", rispose imbarazzata, volgendosi verso gli altri

attori.

"Credo che i miei compagni vogliano festeggiare in qualche

maniera".

"Ho capito" borbottai. Avevo capito che non dovevo entrarci.

Ifigenia non aggiunse parola: mi stava davanti silenziosa e

sempre più imbarazzata.

Dopo qualche secondo la salutai: "Bene. Allora ciao. Sei stata

brava. Continua così".

"Ciao, grazie".

Mi mossi verso l'uscita sperando che mi chiamasse, mi facesse

tornare indietro per dirmi almeno:"Ci vediamo domani". Invece mi

lasciò andare via come se fossi stato uno spettatore qualunque, o

un ammiratore di nessuna importanza, anzi piuttosto importuno.

Uscii da quell'ambiente che mi soffocava. Entrai nella bianca

Volkswagen, la scoprii nella notte d'estate precoce, ventosa, calda

e profumata. Tornai a casa. Speravo che mi telefonasse. Invece

niente. Mi spogliai e mi stesi sul grande letto dei nostri tripudi. Il

dolore mi ringhiava nel petto: lo accarezzavo, lo scrutavo, cercavo

di ammansirlo perché non mi dilaniasse quale iena affmata, mordace.

Pensavo:" E' andata come avevo previsto. Appena si è sentita

un'attrice, si è sbarazzata di me. Tornerà nell  fango da dove

l'avevo estratta per elevarla al mio linguaggio, alla mia logica, al

mio stile. Questa sera si sente una diva, poveraccia! E' solo una

grossolana plebea. Volgare di

anima, di comportamento, di tutto! Sebbene mi abbia scimmiottato

per quasi tre anni, è rimasta quello che era: fatta per la confusione, per il  guazzabuglio dove le piace sguazzare.

 Ricordo una volta che mi telefonò da via Rizzoli e andai a prenderla. Era con altre due o tre della sua razza mentale: facevano chiasso sul marciapiede. Io l' ho tirata fuori di lì. Ora ci torna".

Ero steso sopra il lenzuolo, in mutande; stavo per piangere, ma

non volli lasciarmi andare così. Non era ancora giunto il momento

della catastrofe. Decisi di alzarmi, rivestirmi e tornare nel suo

covo  per porle delle domande, farla parlare, ascoltarla.

Anche se non fosse stata sincera, qualche cosa mi avrebbe

insegnato.

 

Nota

1

Cfr. Dante, Purgatorio, XXIII, vv. 100-102:"nel qual sarà in pergamo

interdetto/alle sfacciate donne fiorentine/l'andar mostrando con le poppe il petto".

 

Villa Fastiggi 26 luglio 2026 ore 13 e 57 minuti giovanni ghiselli

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