L'ira e la
beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia, no.
Anche se il piangere di Telemaco è
stato un mezzo efficace per commuovere il popolo, generalmente nella letteratura classica l'ostensione del dolore non è
priva di biasimo.
Nell'Elettra di Sofocle (v.1172) il coro suggerisce alla protagonista che
crede di avere perduto il fratello :" mh; livan stevne",
non piangere troppo; sei nata da padre mortale, e Oreste pure era mortale.
Pascersi di lacrime è una voluttà depravata, significa non
riconoscere la giustizia divina. Soprattutto sconveniente è lacrimare in
pubblico: nell'Antigone (vv.1247-1249) il nunzio spera che Euridice, appreso
il suicidio del figlio, sparga lacrime sotto il suo tetto, non
pubblicamente:" mi nutro della speranza/
che,
venuta a sapere la pena del figlio, non riterrà degni/
i
lamenti in faccia alla città, ma sotto il tetto, all'interno ("ajll j
uJpo; stevgh" e[sw"/proporrà alle ancelle di piangere il lutto domestico (vv.
1246-1249) .
Anche nell'Andromaca
di Euripide, la nutrice di Ermione
consiglia alla ragazza affranta di entrare nel palazzo per non dare spettacolo
del suo terrore (vv. 876-878).
Alcesti , l'ottima moglie, moribonda "si è
accostata a tutti gli altari che sono nella casa/di Admeto, li ha incoronati e
ha pregato/staccando il fogliame dai ramoscelli di mirto,/senza lacrime, senza
gemiti, a[klausto" ajstevnakto"", (vv. 170-173).
Platone biasima Omero per avere rappresentato Achille
piangente (Repubblica , 388
a-b).
Tacito nella Germania (27, 1) fa
distinzione tra il pianto dei maschi e quello delle femmine:"Feminis lugere honestum est, viris meminisse
", per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
Ancora a proposito dell'ostensione del dolore Nietzsche scrive:"A che cosa
rimanda il fatto che la nostra cultura non solo è tollerante verso le
estrinsecazioni del dolore, verso le lacrime, i lamenti, i rimproveri, il
gesticolare del furore o dell'umiliazione, ma le approva e le annovera tra le
più nobili delle cose inevitabili? Invece lo spirito dell'antica filosofia le
riguardava con disprezzo e non annetteva loro assolutamente alcuna necessità.
Ci si rammenti come Platone-cioè uno dei filosofi non certo meno umani-parla
del Filottete della scena tragica. Che
alla nostra moderna cultura manchi “la filosofia?” Apparterremmo forse noi
tutti e ciascuno in particolare, secondo quanto stimavano quegli antichi
filosofi, alla “plebe”?".
Non a tutti gli autori moderni del resto approvano
le lacrime: infatti l'autore del romanzo Il
Gattopardo considera le lamentele poco aristocratiche:"Questi nobili
poi hanno il pudore dei propri guai: ne ho visto uno, sciagurato, che aveva
deciso di uccidersi l'indomani e che sembrava sorridente e brioso come un
ragazzo alla vigilia della Prima Comunione; mentre voi, don Pietrino, lo so, se
siete costretto a bere uno dei vostri decotti di senna fate echeggiare il paese
dei vostri lamenti. L'ira e la beffa
sono signorili; l'elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se
incontrate un 'signore' lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico:
vi troverete presto un ramo secco" (p. 135).
Nel film di Visconti il protagonista piange da solo,
davanti a uno specchio.
Fine Excursus
Quindi parla Antinoo, il caporione della banda, che racconta la storia della tela di Penelope facendo notare l'intelligenza insuperabile
della donna. Costui pecca di prepotenza imponendo a Telemaco la scelta tra
rimandare la madre a casa del padre di lei con l'ordine di sposarsi, se non
vuole vedere ancora il suo patrimonio dilapidato. "Con il suo inganno
Penelope arresta l'inesorabilità del tempo: oggi è uguale a ieri, a giudicare dal
lavoro del telaio. Penelope inganna i pretendenti prolungando una situazione,
quella del giorno in cui partì Ulisse, annullando
il tempo nella misura in cui disfà quello che ha tessuto. L'inganno di
Penelope viene concluso da Ulisse al suo ritorno che prende i pretendenti in
una "rete dai mille fori" diktuvw/
poluwpw`/ Od. XXII
386)".
I proci comunque fanno di tutto per meritarsi la morte.
"Gli dei condannano la loro condotta, e mettono in moto la concatenazione
di fatti per cui Ulisse potrà fare ritorno e vendicarsi di loro. Una volta
iniziato questo processo, la causa degli dei è difesa da Atena, che sorveglia
attentamente Ulisse nelle sue avventure, lo aiuta a trarsi dai peggiori
pericoli e lo incoraggia a uccidere i proci, cosa che apertamente ritiene
giusta. Tuttavia questo spirito moralistico si fonde con quello eroico".
Telemaco nella risposta invoca questo intervento degli dèi
contro l'ingiustizia dei proci che restano isolati dal punto di vista morale:
egli infatti non vuole rendersi loro complice cacciando la madre che potrebbe
invocare le odiose erinni vendicatrici (v. 135). In questo il figlio di Odisseo
si distingue, saggiamente, da Oreste.
Dopo il discorso di
Telemaco, Zeus manda un segno: due
aquile che preannunciavano con lo
sguardo la morte ("o[ssonto d j o[leqron", v. 152), poi, laceratesi
con gli artigli le guance e il collo, si lanciarono a destra, sulle case e la
loro città.
"I
segni divini" che vengono dagli uccelli di buono o cattivo augurio.
Gli omina vocali
dei Romani: Cauneas!
Gli uomini chiedono segni agli
dèi, però gli incalliti nel male non li vedono. Come dice il Cristo nel :"Generatio mala et adultera signum requirit, et signum non dabitur ei
nisi signum Ionae prophetae " ( N.
T. Matteo, 12, 39), la generazione malvagia e adultera reclama un segno, e
non le sarà dato un segno se non quello di Giona profeta.
Così nel Gerontion di Eliot leggiamo:"Signs are taken for wonders. 'We would see a sign!'/The word within a
word, unable to speak a word,/Swaddled with darkness. In the juvescence of the
year/Came Christ the Tiger " (vv. 17-20), i segni sono presi per
miracoli. 'Vogliamo vedere un segno!'/La parola dentro una parola,
incapace di dire una parola,/fasciata di tenebre. Nella giovinezza dell'anno/
venne Cristo la tigre.Ma gli uomini non lo riconobbero.
Vediamo invece qual è il segno divino dell'Odissea . Il vecchio , un indovino che
eccelleva nel conoscere il volo degli uccelli (" o[rniqa"
gnw'nai", II 159) e rivelare il destino conferma l'imminente
arrivo del re e la rovina dei proci se non smetteranno.
Si chiama Aliterse e già partenza di Odisseo e dei compagni
aveva predetto il ritorno del capo, da solo, al ventesimo anno,
Anche nell'Antigone di Sofocle
l'indovino Tiresia che ha visto gli
uccelli dilaniarsi tra loro con gli
artigli,
fino alla strage, dichiara che il rombo delle ali non era privo di segni (v.
1004) il cui significato è la malattia della città derivata dalla disposizione
mentale del tiranno Creonte il quale non
dà retta, anzi afferma empiamente: "neppure così, siccome non ho terrore di questa contaminazione,/lascerò
seppellire quello là: infatti so bene che/nessuno degli uomini ha la forza di
contaminare gli dei"(vv. 1042-1044).
Altrettanto empio è il
protagonista dell'Edipo re
istigato dalla madre-moglie:"Ahi, ahi, perché dunque, o
donna, uno dovrebbe osservare/il fatidico altare di Delfi o gli uccelli / che
schiamazzano in alto (tou;" a[nw-klavzonta" o[rnei"), sotto
la guida dei quali io/dovevo ammazzare mio padre?"(vv. 964-967).
Su questa
linea di negazione degli auspìci troviamo Teseo nell'Ippolito di Euripide, nel momento in cui accusa
ingiustamente il figlio:"tou;" d j uJpe;r kavra-foitw'nta"
o[rni" poll j ejgw; caivrein levgw" (vv. 1058-1059 ), agli
uccelli che vanno e vengono sul capo mando tanti saluti.
Pure Apollonio Rodio rappresenta un
personaggio tracotante, blasfemo, e scettico nei confronti dei segni che
vengono dagli uccelli: si tratta di Ida
che, come Edipo re e Aiace di Sofocle rivendica a se stesso i successi
nelle imprese, volenti o no gli dèi, quindi
contesta gli aùspici Idmone e Mopso e irride quanti rifiutano il combattimento
"oujkevt j jEnualivoio mevga sqevno", ej" de;
peleiva"-kai; kivrkou" leuvssonte""( Argonautiche,
III, 560-561), guardando non più alla grande forza di Ares ma a colombe e
sparvieri.
Gli autori e i personaggi religiosi viceversa riconoscono
validità ai segni degli uccelli: Plutarco
nella Vita di Tiberio Gracco racconta che poco prima della morte del
tribuno si videro dei corvi che si azzuffavano sulla sinistra del tetto di casa
("w[fqhsan uJpe;r keravmon macovmenoi kovrake" ejn
ajristera'/" , 17, 4) e uno di loro fece cadere una pietra ai
piedi di Tiberio.
Ennio negli Annales racconta che Romolo e Remo scrutavano il
cielo e attendevano segni dagli uccelli per sapere "uter esset induperator " v. 78 Skutsch, chi dei due sarebbe
stato il capo. Romolo, come si sa, ebbe l'auspicio favorevole:"et simul ex alto longe pulcerruma praepes/laeva
volavit avis: simul aureus exoritur sol./Cedunt de caelo ter quattuor corpora
sancta/avium, praepetibus sese pulcrisque locis dant./ Conspicit inde sibi data
Romulus esse priora, auspicio regni stabilita scamna solumque ", vv.
86-91, e subito dall'alto un uccello, di gran lunga il più bello, di buon
augurio, si mostrò in volo da sinistra: subito sorge il sole d'oro. Scendono
dal cielo tre volte quattro corpi santi di uccelli, e si dirigono a luoghi
fausti e belli. Quindi Romolo vede che l'auspicio ha dato a lui la supremazia,
il trono e il dominio del regno.
Tacito nota che
pure tra i Germani è noto il famoso uso di interrogare le voci e i voli degli
uccelli ("Et illud quidem etiam hic
notum, avium voces volatusque interrogare ", 10, 2).
Un uccello di cattivo augurio è la civetta in Nietzsche:"Un tempo agognavo
auspici di felicità: e voi mi faceste attraversare la strada da una civetta
mostruosa e ributtante".
I
segni possono venire anche da voci umane. “Soprattutto, si sa in quale conto i
Romani tenessero i loro omina vocali,
ugualmente presagi di voci còlte al volo, frasi ingenue, involontarie, che pure
contenevano un messaggio profondo e spesso fondamentale per la persona a cui
erano dirette”.
Per
l’etimologia di omen Bettini rimanda
a E. Benveniste, il quale scrive: “La formazione di ōmen presenta una difficoltà: il tema si trova ridotto alla vocale ō-. Questo lascia alla restituzione
parecchie possibilità, che sono state di fatto proposte dagli etimologisti
senza che nessuna sia parsa dimostrabile. Ma abbiamo ora un accostamento che permette
di spiegare senza sforzo il senso e la formazione di ō-men. Il radicale lat. ō-
può paragonarsi direttamente al tema verbale itt. hā- ‘credere, considerare vero’; di conseguenza ōmen s’interpreterà come ‘dichiarazione
di verità’. Una parola fortuita, pronunciata in una circostanza decisiva, potrà
essere accettata come ōmen, come
presagio vero, come segno del destino. Sarà una parola di buon ‘augurio’,
annunciatrice della sorte. Parecchi esempi sono riportati da Cicerone (De divinatione I 46)”.
Torniamo a Bettini: “Anche in questo caso bisognava però
saper riconoscere il valore soprannaturale della “voce”, quando si manifestava.
Crasso, per esempio, non riuscì a comprendere che il venditore di fichi Cari-il
quale gridava Cauneas! Sulla banchina
del porto di Brindisi-non stava semplicemente facendo pubblicità alla sua
merce, gridando “vendo fichi di Cauno!”, come si poteva pensare. Niente di
tutto questo. Il venditore lo diffidava nientemeno dal prendere il mare verso
la sua propria morte: cau’ n(e) eas!
“non andare”, stava infatti gridando-ovviamente secondo la pronunzia apocopata
dell’imperativo cave che si usava nel
latino parlato. Ma
Crasso non se ne accorse. Il problema era che, per sua disgrazia, non se
l’aspettava”.
Era empietà dunque o per lo meno miscredenza non
considerare il segno che viene dagli uccelli. Ebbene tale negazione parte da Eurimaco il quale minaccia il profeta e
assicura che Odisseo è morto da un pezzo e non bisogna dar retta agli uccelli:
ne girano molti sotto i raggi del sole e non sono tutti fatidici (vv. 181-183).
A Telemaco il prepotente consiglia di rimandare la madre
dal padre : per lei i pretendenti prepareranno le nozze e i doni nuziali,
quanti è giusto che accompagnino una cara figliola (vv. 196-197). Qui non è
chiaro chi paghi la dote: dal verso 196 sembra il nuovo sposo; dal 197 il
padre. Pare che Eurimaco comunque voglia dire a Telemaco che non starà al
figlio dotare la madre. L'uso che sia il
marito a portare la dote alla sposa risulta da vari passi dell'Odissea
(p. e. VIII 318 , XI 282 , XV 16 sgg).
Nell'Iliade Andromaca è a[loco" poluvdwro" (VI, 394) la sposa dai molti doni, fatti da Ettore,
il quale la portò via dalla casa di Eezione dopo che ebbe dato "muvria e{dna" (XXII, 472), infiniti regali di nozze.
Vediamo un paio di casi nella letteratura latina.
Tacito racconta che presso i Germani:"Dotem non uxor marito sed uxori maritus
offert " (Germania , 18, 2),
la dote non è la moglie che la porta al marito, ma il marito alla moglie
La dote morale portata dalla sposa al marito.
Nell’Amphitruo di
Plauto, Alcmena, sospettata di tradimento dal marito afferma di avergli portata
una dote non materiale, bensì morale: un patrimonio di onestà e generosità: “Non ego illam mihi dotem duco esse, quae dos
dicitur,/Sed pudicitiam et pudorem et sedatum cupidinem,/Deum metum,
parentum amorem et cognatum concordiam,/tibi morigera atque ut munifica sim
bonis, prosim probis” (vv. 939-942), non considero mia dote quella nota,
che si chiama dote, ma pudicizia e rispetto e passione controllata, timore
degli Dei, amore dei genitori, accordo con i congiunti, essere condiscendente
con te, generosa con i buoni, giovare alle persone per bene.
Eurimaco aggiunge
che essi non smetteranno la corte
molesta ( mnhstuvo~ ajrgalevh~ v. 199) finché Penelope resterà
con il figlio poiché non temono Telemaco né il cattivo augurio.
Le molestie sessuali dunque erano già minacciate e praticate, e
verranno pure punite, ancora più pesantemente di oggi. Telemaco in risposta
chiede una nave per andare in cerca del padre. Poi prende la parola Mentore, un compagno di Ulisse cui il re partendo aveva affidato la casa.
Egli rimprovera non i proci che divorano violentemente il palazzo di Odisseo
rischiando la testa (vv. 237-238) ma il popolo di Itaca per la sua acquiescenza
verso chi dilapida i beni di un re buono. Gli risponde un pretendente
tracotante: Leocrito che afferma il
diritto del più forte, ossia il loro, di fare scempio della roba se questa
non può essere difesa:" ajrgalevon de;-ajndravsi kai; pleovnessi
machvsasqai peri; daitiv "(vv. 244-245), è difficile combattere per il
pasto contro degli uomini che sono pure numerosi. E' già l'affermazione del diritto del più forte che troverà sviluppo
nell'opera di Tucidide. A Telemaco, come ai Meli dello storiografo, non resta
che invocare gli dèi, e il ragazzo si rivolge ad Atena. Questa gli si
avvicina con l'aspetto di Mentore e gli parla. Mentore- Atena è di nuovo l'educatore che si rivolge al giovane
incoraggiandolo. Gli ripete che
assomiglia a suo padre nella quintessenza di lui: l'ingegno ("mh'ti" jOdussh'o"", v. 279).
Nella guerra di Troia, come anche durante le avventure del
ritorno e in letteratura da Sofocle a Shakespeare, egli si rivela maestro di retorica, del linguaggio finalizzato
alla sopravvivenza, impiegato a scopo politico nella persuasione, nell’inganno,
nell’illusione, per il possesso e il dominio (in Dante aspirazione alla
conoscenza, oratoria e maestria nella navigazione si congiungeranno.
Infine…Odisseo costituisce nella sua metis
e nella sua aletheia,
nell’astuta arte della sapienza che lo lega ad Atena e nella verità che lo
associa ad Apollo, un modello di poesia ”.
Ulisse,
eroe dell'intelligenza. La metis. Odisseo è simile a Zeus mhtiveta, Zeus che ha ingoiato Metis.
Questa facoltà
infatti "caratterizza l'eroe dell'Odissea...La
metis , cui presiede la dea Atena,
che sempre protegge Ulisse, è intelligenza unita all'astuzia, è coglier sempre
la palla al balzo, prudenza che consiste nell'approfittare di qualsiasi
mezzo...Nel libro III dell'Iliade , in una famosa scena, Elena,
dalle mura di Troia, informa Priamo sull'identità e sull'aspetto di alcuni
degli eroi achei che può scorgere dalla sua torre di vedetta. Quando è la volta
di Ulisse, Elena lo presenta così (vv. 200-202):"E' il figlio di Laerte,
l'accorto (poluvmhti~ : che ha molta metis , recita il testo greco) Odisseo,
che crebbe tra le genti della rocciosa Itaca e conosce ogni sorta di inganni pantoivu~
dovlou~ (202) e di sottili
pensieri"...Ulisse...medita: parla del destino e si lamenta, ma sempre
riflette e non si lancia in alcunché che non abbia prima calcolato: da qui
scaturiscono le sue risorse, ed è grazie a ciò che egli ottiene di accedere al
mondo dei morti e di poter uscire dal luogo da cui non si può far ritorno, così
come, unico tra gli uomini, riesce a udire il canto delle Sirene senza esserne
sedotto. Sia nel caso di Circe come in quello dell'accesso all'Ade, egli sa che
cosa deve fare, e di fronte alle Sirene escogita uno stratagemma: tappa gli
orecchi dei suoi marinai e si fa legare all'albero della nave".
Nel II canto dell'Iliade
Omero assimila la metis di Odisseo addirittura a quella di Zeus:
" jOdusseuv"…Dii;
mh'tin ajtavlanto" " (v. 636).
Nell’Odissea
Ulisse si rivolge al proprio cuore perché sopporti le beffe delle ancelle in
casa propria, e per incoraggiarsi ricorda quando nell’antro del Ciclope si credeva già morto, quando la mh'ti~ lo
trasse fuori (se mh'ti~-ejxavgag j, XX, 18-21).
La superiorità che conta è quella fondata sulla metis :"Per quanto forte possa
essere un uomo o un dio, viene sempre un giorno in cui egli trova qualcuno più
forte di lui: soltanto la superiorità in
metis conferisce a una supremazia quel duplice carattere di stabilità e di
universalità che fa di essa un vero e proprio potere sovrano. L'uomo della
metis è sempre pronto a scattare; agisce come un fulmine. Ciò non vuol dire che
Odisseo ceda, come accade di solito agli altri eroi omerici, a un impulso
improvviso. Al contrario, la sua metis sa pazientemente attendere che si
verifichi l'occasione attesa. Anche quando deriva da un brusco slancio,
l'azione della metis si colloca agli antipodi dell'impulsività. La metis è
rapida, improvvisa come l'occasione che essa deve prendere al volo, senza
lasciarla passare. Ma essa è tutto tranne che leggera, lepté : carica di tutto il
peso dell'esperienza acquisita, è un pensiero denso, fitto, serrato-pykiné
; invece di ondeggiare qua e là secondo le circostanze, essa radica
profondamente la mente nel progetto che ha elaborato in anticipo, grazie alla
sua capacità di prevedere, al di là dell'immediato prsente, una fetta più o
meno spessa di futuro.
Omero attribuisce infine alla metis una terza
caratteristica. Essa non è una né unita,
ma molteplice e diversa. Nestore la qualifica pantoìe . Ulisse è l'eroe polùmetis (scaltro) come è polùtropos (versatile) e poluméchanos nel senso che non manca mai di espediento, di
pòroi , per trarsi d'impaccio in ogni
genere di difficoltà, aporìa ...La
varietà, il cambiamento della metis, sottolineano la sua parentela con il mondo
multiplo, diviso, ondeggiante dove essa è immersa per esercitare la sua azione.
E' questa complicità con il reale che
assicura la sua efficacia".
“Infine giunge il momento di
agire: allora Ulisse possiede in modo supremo quello che i Greci chiamano
l’intuizione del kairov~. Come dice Pindaro, egli sa che l’occasione ha breve
durata: ora c’è, tra dieci minuti non si ripete. Bisogna agire al momento
giusto e nella situazione giusta, prima che l’occasione s’involi: spiare
l’istante, con esattezza, senza dimenticare e senza abbandonarsi all’eccesso. Perché,
senza misura, il kairov~ si perde”.
Platone
nelle Leggi stabilisce questa
graduatoria per quanto riguarda il governo delle cose umane: “qeo;~
me;n pavnta, kai; meta; qeou` tuvch kai; kairov~, tajnqrwvpina diakubernw`si
suvmpanta” (709b), dio pensa a tutto, e con dio la sorte, e
l’occasione, governano tutte insieme le cose umane.
Né bisogna dimenticare che l'occasione "è calva di dietro". “Per cogliere il kairov~ fugace, la mh`ti~ deve essere più rapida di esso”.
Nell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare Menas decide di non seguire più
l’indebolita fortuna di Sesto Pompeo che ha perso l’occasione di sbarazzarsi
dei suoi nemici: “Who seeks and will not
take, when once ‘tis offer’d, -Shall never find it more” (II, 1), chi cerca
e non prende qualcosa una volta che viene offerta, non la troverà mai più.
Ma
torniamo a Vernant che considera Metis quale divinità di Esiodo:" Nella Teogonia , appena promosso re degli dèi, Zeus convola a prime nozze
con Metis, figlia di Oceano, dea che" ne sa più di tutti gli dèi o uomini
mortali". Questa unione riconosce appunto i servizi che l'intelligenza
scaltra ha reso al dio, nella sua accessione al trono, e illustra la necessità
della presenza di Metis nel fondamento di una sovranità che non può, senza di
lei, né essere conquistata, né esercitarsi né conservarsi. Prendendo dalla
madre lo stesso tipo di astuzia tortuosa che la caratterizza, i figli della dea
sarebbero certamente invincibili e finirebbero col prevalere sul padre. Zeus
dunque, a causa del matrimonio che lo consacra re degli dèi, si vede minacciato
dalla stessa sorte che ha riservato al sovrano precedente: cadere sotto i colpi
del proprio figlio. Ma Zeus non è un sovrano come gli altri. Crono, ingoiando i
figli, lasciava ancora esistere al di fuori di sé potenze di scaltrezza
superiore alla sua. Zeus va alla radice del pericolo. Egli rivolge contro Metis
le armi stesse della dea: la scaltrezza, l'inganno, la sorpresa. Lusingandola con parole carezzevoli, la
ingoia (Teogonia, 891) prima che partorisca Atena,
per evitare che dopo la figlia essa porti in seno un figlio, che fatalmente
sarebbe stato re degli uomini e degli dèi. Sposando, dominando e ingoiando
Metis, Zeus non è più solo un dio scaltro, egli è il mhtiveta , il dio tutto scaltrezza.
Niente può più sorprenderlo, ingannare la sua vigilanza e opporsi ai suoi
disegni".
Odisseo è amato dalla dea per la sua intelligenza: i suoi compagni sono morti, egli invece
" sopravviverà perché possiede qualche cosa in più: l'astuzia
intelligente, o mh'ti", capacità che viene, insieme ad
altre, dalla dea Atena, figlia di Zeus e di Metis".
"Ulisse ha la capacità prodigiosa di immaginare i modi
per uscire dalle situazioni più delicate. Questa capacità che gli è propria
s'inscrive nell'epiteto greco che lo definisce in quanto eroe: è il poluvmhti" jOdusseuv" e anche il poluvtropo", Ulisse
dalle tante astuzie, dai tanti viaggi".
“Egli costituisce fin dall’inizio della sua esistenza
mitico-letteraria un modello, una forma
“multiforme” (polytropos) di vita
umana piena di potenzialità…Ulisse è inoltre supremo ingegnere e artigiano
della techne: costruttore del cavallo
di legno, di una zattera, del suo stesso letto nuziale;esperto navigatore.
L'intelligenza
del resto caratterizza anche Penelope che è la compagna degna di Odisseo e pure
Telemaco che vuole diventare come il padre. Tutti sono protetti da
Atena, la dea della metis . I proci invece, continua Mentore, sono
nello stesso tempo per niente assennati né giusti ( "ou[ ti
nohvmone" oujde; divkaioi", v. 282) poiché non sanno nulla della morte e
del nero destino che sta accanto a loro. La
distinzione tra i vincenti e i perdenti sta nel sapere e capire: a chi capisce,
sarà dato.
Odisseo mente al Ciclope quando gli dice di chiamarsi Outis. “ Si tratta anche di un gioco di
parole perché le due sillabe di ou-tis
possono essere rimpiazzate in altro modo, me-tis.
Ou e me sono infatti in greco le due forme della negazione, ma se outis significa nessuno, metis designa l’astuzia. Ben inteso,
quando si parla di metis, si pensa
innanzitutto a Ulisse che è appunto l’eroe della metis, della capacità di trovare soluzioni all’inestricabile, di
mentire, di raggirare le persone, di raccontare loro sciocchezze e di sapersela
cavare sempre al meglio”.
Infine: nelle Argonautiche di Apollonio Rodio,
Polluce sconfigge e uccide Amico, il brutale re dei Bebrici in uno scontro di
pugilato all’ultimo sangue grazie alla tecnica e alla metis: il figlio di Leda e di Zeus schivava gli assalti e restava
incolume dia; mh`tin (II, 75).
Bologna 12 maggio 2025 ore 10, 49 giovanni ghiselli
p. s.
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Quel misto di saggezza, di spregiudicatezza e di
astuzia che dev’essere patrimonio di statisti e uomini di guerra” G. Brizzi, Annibale Come un’autobiografia, p. 32.
L’intelligenza dell’occasione serve a capire la
misura appropriata: “C’è una misura in tutto: e l’occasione è ottima a
comprenderla” (Pindaro, Olimpica XIII,
vv. 47-48). Ndr.