In quella giovane bruna,
vivace, bramosa di afferrare la sua porzione di scuola e di vita e anche
desiderosa di donarmi qualche cosa di sé, mi sembrò che rivivesse tutta la
bellezza luminosa dell’arte e della terra greca che l’empia teocrazia del lucro
non è riuscita a nullificare; osservando con attenzione l’aspetto incensurabile
delle sue forme, sentendo l’aroma della sua pelle vicina, ammirando il colore
dei suoi capelli e quello dell’incarnato reso bronzino dal sole, a un tratto in
quel mio trentaquattresimo autunno già cupo di ombre sentìi rifiorire i maggi
odorosi della prima adolescenza quando alle sette di sere profumate e ancora
allietate dal sole andavo nella chiesa vicina di Cristo re a seguire le
funzioni dedicate alla Madonna, e cercavo di imparare un po’ di latino non
senza osservare con ammirazione i capelli, le caviglie sottili e i polpacci
sodi, torniti delle ragazze più carine che potevano dare un significato alla
mia vita di solitario studioso, sportivo e carente di affetti.
Quella mattina il tempo si
rinnovava grazie al giovane angelo che veniva a confermare la mia speranza di
sempre: stava per annunciarmi il diritto alla felicità meritata grazie a tante
fatiche impiegate con volontà e intelligenza. Immaginavo che presto Ifigenia mi
avrebbe offerto il suo amore e provavo la sensazione che il mio triennio di
studio continuo, intenso e speranzosissimo, stava per diventare un’esperienza
reale, concreta e completa: mentale e
carnale. Con il mio incessante lavoro, un’ascesi spirituale e corporea quasi
fanatica, avevo attirato una creatura ambita da chissà quanti uomini di tutte
le età, dai ginnasiali, ai bidelli, ai colleghi. Senza essere ricco, né ben
vestito né particolarmente giovane e bello, senza avere alcun potere, anzi,
andato in pensione il galantuomo Piero Cazzani, era subentrato un preside nuovo, il tipo di uomo ordinario che
mi era ostile e mi ostacolava siccome ero del tutto diverso da lui.
Intanto il corridoio del liceo si stava
affollando e mi sembrò troppo gremito perché potessi parlare a mio agio con quella fanciulla che stava
aspettando di sentirsi dire qualcosa di significativo e piacevole da come
simpaticamente mi sorrideva. Sicché le dissi: “andiamo fuori a bere un caffè.
Nell’intervallo ne ho proprio bisogno. Vorrei di parlare con te e sentirti
parlare ancora, Ifigenia”.
“Sì gianni, volentieri.
Usciamo di qui”.
Et coepit me praecedere. Pensai che quella ragazza significasse il destino.
In effetti si stava aprendo
un altro capitolo di questa mia vita mortale. E anche della storia che vi sto
raccontando.
Uscimmo e ci avviamo verso un
bar dove probabilmente non avremmo incontrato altri colleghi: non era il locale
più vicino alla scuola. Tra l’altro
Volevo camminare trionfalmente nella luce del sole per osservare la ragazza
illuminata dai suoi raggi e pure per compiacermi dell’ombra delle mie membra
che dopo l’estate si trovano sempre nella forma migliore.
Entrai subito in medias res in modo diretto dicendo: “
allora, ragazza, quale collega e amica vuoi che faccia di te?”.
“Non so da dove cominciare”
fece lei sentendosi forse aggredita.
“Inizia dal nocciolo della
questione. Vai subito al centro siccome ci restano solo otto minuti” le dissi
con un sorriso serio, incoraggiante.
“Va bene. Io mi sento molto
attirata da te. Credo che tu possa aiutarmi a diventare brava e spero di potere
contraccabbiarti in qualche modo pur con il poco che ho”. Calcava la voce sulle
parole per significarmi che le diceva sul serio.
“Tu non hai poco da darmi,-la
incoraggiai- sei giovane, bella e fine: hai tutto quanto mi piace”.
Mi lanciò un’occhiata piena
di gratitudine e di luce. Poi disse: “Tu comunque meriti questo mio bene e
anche di più”.
Aspettavamo i caffè e ci
chiedevamo come procedere. La ragazza era tanto diretta che quasi mi faceva
paura.
Del resto ero tentato di
accarezzarla, ma non feci nemmeno questo gesto preliminare, mi sembrò prematuro:
la giovane donna, sicuramente desiderata da molti, se voleva una carezza mia
doveva darmene il permesso. Meglio ancora se ne faceva richiesta. “Diamole
tempo”, pensai. Mentre aspettavo una sua mossa, pensavo che se avessi fatto
l’amore con Ifigenia, autorizzato da lei, non ci sarebbe stato inganno poiché
le sue membra mi piacevano assai, il suo animo non doveva essere volgare dato
che voleva imparare e proprio da me per giunta. Era la prima volta che tale
sollecitazione mi arrivava da una collega giovane e bella molto. I conti
tornavano quasi tutti.
Pensavo questo mentre si
beveva il caffè e non si parlava.
A un tratto la ragazza fece:
“Tu che cosa vuoi fare con me?”
Nell’anima mia si aprì una finestra
che fece entrare un raggio di luce.
“Quello che vuoi tu probabilmente,
quello che forse mi chiarirai”.
Dette queste parole però ebbi
paura di essermi lasciato andare troppo alla felicità che un’educazione
pretesca mi aveva sempre indicato come colpa se associata all’amore o, peggio
al sesso: “la cosa più sporca del mondo” secondo i furfanti, gli scellerati
bigotti, i curiali traditori e carnefici di Cristo e pure i laici perbenisti gente
ordinaria, adusa alla menzogna.
Sicché restrinsi l’apertura
delle parole precedenti e quella della finestra che aveva fatto passare la luce.
“Ascoltami signorina o
signora: io potrei essere quasi tuo padre per lo meno spirituale o se
preferisci un fratello maggiore cui ti stai affidando non incautamente si spera.
Se vuoi, possiamo frequentarci anche fuori dalla scuola, per quanto ce lo consente
il lavoro, ma limitiamoci all’amicizia
per ora”.
Mentre parlavo mi accorsi che
il discorso aveva un suono falso, stonato.
Faceva male a entrambi. Infatti Ifigenia di fronte a tanta ipocrisia
e viltà si ribellò e rispose
polemicamente:
“Puoi dirmi con chiarezza che cosa vuoi tu da
me? Se mi hai portata fuori dalla scuola di certo hai progettato qualcosa, ma
ora non hai il coraggio di dirmela. Quanto al tuo “signorina” io sono maritata”.
“Meglio così, quasi sicuramente mal maritata”
pensai con allegrezza cinica se non scellerata : avevo già constatato che le
adultere mi erano simpatiche e congeniali; con loro funzionavo senza impaccio:
non dovevo temere una pretesa di matrimonio che aborrivo. L’augusta Helena era
già sposata quando la conobbi, meravigliosamente.
L’essenziale l’aveva capito e
l’aveva detto. Era intelligente e coraggiosa oltre che giovane molto e tanto
bella. Provai ammirazione e mi eccitai.
Tuttavia mantenni la mia
doppiezza.
Da una parte la smania
sessuale, dall’altra la paura e il senso di colpa nel soddisfarla.”You fearful jesuit” dissi a me stesso
ricordando l’Ulisse di Joyce, tu
pauroso gesuita
Quindi risposi dicendo solo
una mezza verità. “Te l’ho detto, signora: cerco la tua amicizia. In te posso
trovare una sorella giovane, vitale, e genuina spero: una collega con cui potrò
parlare apertamente di tutto e praticare gli sport che amo e so fare bene:
correre a piedi e in bicicletta, sciare d’inverno e nuotare d’estate. Sono
originario di Pesaro e ho una zia che mi portava ogni anno a Moena quando ero
bambino”. Volevo mostrarle qualche cosa di romito e lontano, di non ovvio per
uno studioso: quel peregrino e strano che
incuriosisce e può anche attirare.
Bologna 30 marzo 2025 ore 19, 08 – ora legale- giovanni
ghiselli.
p. s.
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