mercoledì 19 marzo 2025

La storia di Päivi. 30 La desolazione dei mesi più crudeli.



L’amore tra noi con l’abortimento della nostra creatura era finito, e non solo l’amore. Non avevamo più niente da fare insieme, niente da dirci,

Päivi mi aveva già dato e detto tutto quanto doveva per farmi comprendere che lo studio disciplinato dei libri buoni poteva aiutarmi a vivere meglio, a essere meno meschino, vuoto, insignificante.

Non mi doveva più niente e non voleva più niente da me.

Non volle nemmeno dirmi se aveva abortito.

 Per sapere questo, le scrissi durante l’autunno, l’inverno e la primavera: una volta ogni due settimane spedivo lettere, invitandola sempre a rispondere almeno alle domande sulla salute e sui sentimenti suoi; inoltre rimasi sessualmente fedele alla sua immagine per centosettantadue giorni, cioè fino all’11 marzo del 1975, quando conobbi una collega giovane, attraente e ben disposta nei miei confronti, seppure sposata da poco, malmaritata probabilmente, mentre lei, Päivi dico, non aveva di me cura e non rispondeva alle lettere mie.

Volevo tornare a vivere e imparare altro da altre donne donna sperando di scordare quella finnica rossa, di emanciparmi da lei. Ma prima dovevo sapere se aveva abortito.

 La figlia era anche mia. Non ho mai creduto quanto dice Apollo nelle Eumenidi: che il figlio è solo del maschio e nemmeno credo all’altro dogma altrettanto balordo e ora di moda che il figlio è esclusivamente della femmina la quale può farne tutto quello che vuole senza accordarsi con l’uomo che la incinse.

 Telefonai, anche, diverse volte, nel monolocale di Yväskylä dove Päivi mi aveva ospitato in settembre, ma quella donna, ferocemente, si faceva negare, oppure alle mie domande angosciose e incalzanti rispondeva in maniera generica, elusiva, evasiva.

 

Ora mi chiedo: se quando abbiamo concepito il bambino, e poi per un mese, ci siamo amati e siamo stati felici assai, perché non abbiamo fatto nascere la nostra creatura?

Rispondo: perché non ci amavamo abbastanza a vicenda, perché ciascuno di noi non amava se stesso e la vita tanto da creare la vita. E questa carenza di amore in me era causata da un sentimento di insufficienza: mi sentivo intelligente a metà, buono a metà, bello a metà. Il sentimento del cinque che probabilmente angosciava anche lei. Ciascuno di noi era un dimidiatus o anche meno di una mezza creatura, tanto che la nostra unione non fu sufficiente a metterne insieme una intera.

Soltanto egoisti eravamo del tutto ambedue. Simboli dell’età di feroce individualismo che stava iniziando.

 Ciascuno di noi aveva amato non la persona dell’altro, e nemmeno la propria, ma la stranezza, l’esoticità dell’amante, la propria emozione passeggera, e la bella cornice di tutta la storia: l’Università di Debrecen, la “grande foresta” con il ponticello sul lago dove gracidava la rana lontana, il sangue di toro di Eger, e altri viatici al  concubitus vagus,  quali la palinka all’albicocca o alla prugna.

Insomma abbiamo funzionato benissimo per un mese bello in una vacanza “oltre cortina” per entrambi. Poi basta. Dopo non rimaneva più niente tra noi.

L’uno aveva già dato all’altro, e già preso, tutto quello che c’era di interessante.

Il resto sarebbe stato tutto pieno di noia e dolore. Dopo quell’estate non ho mai più creato tanto dolore facendo l’amore, ma ho rinunciato a una porzione di piacere usando il preservativo quando la donna non prendeva la pillola. Voglio dire che i figli si possono evitare in vari modi prima di arrivare  all’orrore dell’aborto. Anche questo ho imparato dalla finnica rossa.

Pure nel minato campo del sesso e dell’amoe  sarebbe utile, anzi preziosa, l’educazione.

Bologna 19 marzo 2025 ore 10, 33. giovanni ghiselli

p. s

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