Passato il mezzogiorno da diverse ore, finalmente arrivai a Epidauro. Ero a pezzi, fatto a fette, altro che dimidiatus Ioannes! Non andai a vedere l’antico teatro, non baciai la terra, né pregai in alcun modo gli dèi come sono solito fare, pure teatralmente, quando raggiungo una meta agognata; questa volta invece mi diedi subito a cercare un ostello qualsiasi per supplicare l’ostessa di affittarmi una stanza con bagno.
Il luogo non ne è sprovvisto per via del festival estivo. La locandiera, o fantesca che fosse, interpellata e andata a informarsi, tardava a tornare. Forse voleva darsi importanza come il portiere della prima notte di Debrecen, o sospettava un accattonaggio da parte mia, sconciato com’ero e stava chiamando la polizia: astinomìa.
Aspettavo il suo ritorno e la risposta con il terrore che non fosse ospitale: quasi una sentenza di morte. Passavano atrocemente i minuti e già trasecolavo. Gli dèi avevano ridotto il mio corpo a uno straccio sudicio sottoponendomi a durissime prove, debilitandomi con il sonno, la fame, la sete, la sporcizia, lo sconforto. Dopo tanta tribolazione sentivo sia la sofferenza fisica sia quella non meno grave della perdita del bene dell’intelletto. Non capivo più niente: non accettavo il mio destino e diventavo empio verso gli dèi senza tenere conto che spesso mettono in croce proprio quelli che amano.
Ricordai che Giove nel Cimbelino di Shakespeare assicura delle persone in pena dicendo: “Whom best I love I cross” .
Avevo bisogno dell’aiuto dei miei auctores come tutte le volte che sono in difficoltà. Ed essi –gli accrescitori-per loro umanità mi danno sempre una mano.
Oltre tutto temevo di perdere un occhio la cui sanie giallastra insudiciava la lente a contatto e mi orbava di metà della visione del mondo.
Finalmente la donna tornò con la chiave dell’agognata camera dotata di bagno per giunta: la salvezza del corpo e della mente. Per toglierle ogni sospetto pagai immediatamente e volentieri nonostante il mio status assai trito e parco. Il necessario non mi manca e mi basta. Il più è soltanto un nome pensai. E ricordai : “ tiv d’ ejsti; to; plevon; o[nomj e[cei movnon dalle Fenicie di Euripide dato che ero vicino al teatro greco.
Mi lavai e dormìi fino a tarda sera. Al risveglio ero tornato in me.
Mi sentivo bene e ringraziai gli dèi di avere annientato la montagna di stanchezza e di schifezza che, gravandomi sopra il cervello con un carico più pesante delle rupi dell’Etna, aveva oscurato la mia vista tanto fisica quanto mentale e sconvolto i pensieri tutti. Mi alzai rinfrancato e giurai che avrei scalato con la bicicletta quel vulcano gigante nella Trinacria bella quasi quanto il Peloponneso laddove è grecizzata, quindi entrai di nuovo nel bagno che avevo allagato facendo la doccia.
Mi vidi riflesso in uno specchio murale e riconobbi la mia forma migliore: quella dei diciotto anni persa a diciannove e recuperata sui venticinque, nell’estate del 1970.
Nell’agosto del ’ 78 ne avevo già quasi trentaquattro. Non senza avere fatto tanti progressi però. Ammiravo la mia snellezza muscolosa e mi dissi: “Hai ripreso con mani d’acciaio l’aspetto piacente e la fierezza mentale che ti si addicono. In questi anni non ti sono mancati i successi. Con venti mesi di studio sei diventato uno degli insegnanti più egregi, a detta degli studenti, del liceo classico Marco Minghetti. Adesso meriti il premio, la borsa di studio costituita dalla femmina umana più egregia di tutta Bologna”. Ne ero convinto. A ragione. Ringraziai ciascuno degli dèi del mio pantheon con una “orazion picciola” ma speciale, quindi mi posi in cammino verso il teatro che a dire il vero non mi commosse. Forse presentivo che la giovane collega incontrata a scuola in autunno, dico l’auspicata e meritatatissima borsa di studio, nel giugno del 1981 mi avrebbe lasciato per passare una notte brava con un vecchio istrione famoso.
Un’altra crocifissione per il mio bene. Ero maturato dell’altro e la mattina seguente arrivai sulla Futa in bicicletta. Giunto al cimitero di guerra mi dissi: “sarà un’altra provvida sventura”. Quindi, per darmi altro conforto, aggiunsi: “marcet sine adversario virtus” 1
Poi, a dire il vero, l’attore molto attempato non era indegno di me: ci sapeva fare anche lui.
Nell’agosto del 1978, quel quindici agosto, non prevedevo che a Epidauro sarei tornato più di una volta in bicicletta con gli amici più cari: Maddalena, Fulvio e Alessandro, per assistere alle rappresentazioni dei drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane nel teatro greco.
Lo studio del dramma antico, le traduzioni delle tragedie e i commenti scritti per diversi editori, le conferenze e lezioni tenute in molti luoghi d’Italia sarebbe stato il mio opus maximum nel campo lavorativo.
Per quanto riguarda gli aspetti e gli eventi della mia vita li avrei sistemati metodicamente in un ordine progressivo e di crescita personale, speravo. A ragione.
Nota
[1] Seneca, De providentia, II, 4
Bologna 28 marzo 2025 ore 17, 35 giovanni ghiselli
p. s.
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