Il giorno dopo ci trovammo alle 7, 30 e ci avviammo verso la nostra scuola, contenti del vago avvenire che avevamo in mente. Era davvero indefinito il futuro, e pure attraente.
Infatti rimanere nell’indefinito, il to; a[peiron di Anassimandro, significa non pagare il fio dell’ ingiustizia reciproca. Avevo commesso già molti sbagli con le amanti precedenti quando cercavo di imporre delle regole. Cieco di mente ero stato. Solo a me stesso potevo assegnare le norme. Agli altri, alunni compresi, tutt’al più dei propreptikoi; lovgoi discorsi esortativi.
Di sera Ifigenia mi aveva telefonato dopo essersi rifugiata nel garage. Ci eravamo detti tante parole non poco belle.
Quella mattina camminavamo con lieta baldanza: ci sentivamo assortiti bene. Lei mi fiancheggiava a destra pavoneggiandosi. Teneva le spalle spalancate in modo da mettere in risalto il petto florido e sodo per quanto si capiva benissimo dal golf leggero che glielo copriva gonfiandosi assai. Ogni tanto poi la ragazza ne accentuava ulteriormente il rilievo mettendo entrambe le piccole mani tra i capelli ondulati, fulgide onde che luccicavano nel mite sole della mattina di ottobre e illuminavano l’aria. La guardavo ammirato: era bella dalla cima della piccola testa folta di gioie, alla punta dei piedi minuti. Camminava con agilità. Elevandosi un poco a ogni passo come se avesse avuto le molle dentro le caviglie sottili. Mentre procedevo al suo fianco con passo di gloria sentivo crescere il desiderio di tale creatura rara, preziosa: bella assai, giovane molto, eppure del tutto cosciente di quanto voleva. Risoluta com’era e in grado di scegliere quello che desiderava, avrebbe reso più sicuro anche me, mentre da me avrebbe ricevuto strumenti per potenziare le sue qualità e prolungarle del tempo poiché già allora sapevo che ogni lepóre, anche quello delle brune più belle e più sode, ha breve durata. Avevo visto invecchiare la nonna poi le zie e la mamma con il volgere delle stagioni. Anche io che pure mi difendevo bene dall’inesorabile tempo non ero più il giovanotto grazioso, scherzoso e simpatico dei primi anni Settanta nelle estati più belle di Debrecen, già finite come ogni cosa con il volgersi delle stagioni che portano via tutto e tutti.
Arrivati al portone del liceo, ci separammo: io dovevo fare lezione all’ultimo piano, in cima a sei rampe di scale, lei aveva la classe in fondo al piano terreno. La salutai con un cenno da collega a collega, e mi lanciai su per le scale, di corsa. Saltavo, sia per bruciare il superfluo, la carne non mia, sia per manifestare a me stesso la gioia e la moltiplicata vitalità, sia per ringraziare gli dèi del bonus che mi avevano dato volendo compensarmi dei tre anni di studio continuo cui avevo dedicato quasi tutto il mio tempo pressocché maniacalmente, proprio per meritare il premio tanto sperato. Se perdevo il posto al liceo, e finivo al ginnasio, pensavo per consolarmi della probabile degradazione, lì avrei dovuto insegnare anche italiano e ne avrei tratto stimoli non solo per rivedere la nostra letteratura, ma per studiare anche le maggiori europèe, l’inglese, la tedesca, la russa e la francese. “Magari pue la ceca” mi dissi ricordando Helena di Praga e l’aurea primavera di dieci anni e mezzo prima, con gratitudine alla biondina ventenne. Avevo passato con lei una Pasqua di resurrezione personale. Una delle poche bionde della mia vita.
Blèn prò, si dice a Pesaro, bellina però, una ragazza bionda ma carina.
Non “bruna ma carina” come sproloquiava una canzoncina in voga alla fine degli anni Cinquanta quando ero innamorato della bruna Marisa una compagna di scuola che mi appariva come la fanciulla più bella del mondo. Era anche brava a scuola. Io l’amavo. Non contraccambiato purtroppo. Non glielo dissi nemmeno. Glielo dico ora che nel cielo sta.
Ma torniamo alla bella bruna del 1978. In quei giorni Apollo dalle cui corde vengono scagliate le indomabili frecce che prostrano i mostri ostili alla vita, e Afrodite che invita all’amore con fiammeggiante sorriso, come stava facendo Ifigenia con me, emulando la dea, Febo e Cipride dunque, dèi tutt’altro che falsi e bugiardi secondo l’empia calunnia curiale, avevano esaudito le mie preghiere indirizzate al cielo diurno e notturno nel mese di agosto, quando in solitudine ascetica durante il giorno pedalavo la bicicletta su e giù per i monti dell’Ellade piena di dèi, e pure nelle notti serene mentre guardavo le stelle disteso sopra il tetto del povero ostello di Micene, da dove la veduta del cielo e del mare non mi era tronca.
Alzavo preghiere agli dèi e non chiedevo i miseri quattrini per fare le successive vacanze a Cortina in mezzo a gente troppo diversa da me, bensì l’amore di una femmina umana auspicavo, una creatura radiosa e di levatura mentale non inferiore alla mia.
Come era Marisa nel 1958. Eravamo i più bravi della scuola media Lucio Accio di Pesaro e come uscimmo dalla prova scritta di latino nell’esame che ci avrebbe aperto le porte del Liceo classico Mamiani situato nel piano nobile, sopra le medie, confrontammo le traduzioni e tutti gli scolari delle nostre due classi, la mia maschile, la sua femminile, ci stavano intorno per avere lumi.
Al ginnasio ci avrebbero messi di nuovo in classi diverse perché allora le femmine dovevano studiare francese e tenere sopra gli abiti un lungo grembiule abbottonato, una specie di tonaca nera, e noi l’inglese ancora in calzoni corti. Monachelli ci facevano far.
Bologna ore 19, 04 giovanni ghiselli
p. s.
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