mercoledì 26 marzo 2025

Secondo viaggio ciclistico in Grecia, da solo. I Andros e Tenos.


Nel luglio del 1978 feci il membro interno all’esame di maturità nel quale mi donò  amicizia e affetto l’ottima collega esterna di filosofia una di Torino che mi aiutò a crescere dicendomi: “devi leggere e studiare tutta l’opera di Nietzsche”, e quando gliene domandai la ragione, rispose molto benevolmente: “Perché sei così aristocratico!”.

Siano benedetti i benevoli che ci aiutano a diventare quello che siamo, e vengano invece schivati quelli che vogliono renderci malevoli al pari di loro. Feccia triviale questa, sciacalli dal ceffo brutto assai.

 Il 2 di agosto, finiti gli esami,  ripartìì in bicicletta questa volta da solo diretto al porto di Ancona per imbarcarmi sul traghetto per Patrasso. Avevo un punto di riferimento in alcuni conoscenti di Bologna che campeggiavano nell’isola di Andros. Mi recai da loro. Furono ospitali e gentili con me, però si comportavano come se fossero a Bologna: usavano nel parlare tutto il repertorio già sentito delle tipiche famiglie borghesi di questa città: gente civile, per carità, ma io ero andato in Grecia in cerca di altro: mito e poesia volevo trovare, e la strada che mi avrebbe portato metodicamente all’arte e all’artistica donna che mi mancava. Un’altra come Elena Augusta, già circondata da un alone sacro.

 Il reperto nobile e antico che volevo trovare nella terra dell’Ellade piena di dèi doveva essere quell’armonia che rimane nascosta a tanti, eppure è molto più forte e significativa di quella visibile a tutti.

 

Il 9 agosto  salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava lontano da quei compagni di tenda con i quali non avevo argomenti comuni: erano tutt’altre persone dai contubernali di Debrecen, gli amici che nel 1966 mi salvarono la vita come ho ricordato più volte. Nel 1978 ero già salvo ed ero felice di essere solo con la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.

Osservavo il chiarore dei flutti canuti  solcati dal veicolo marino.  Biancheggiava la scia del traghetto come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa che fluttua mossa dal vento sonoro.

Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove pernottare con la dignità del giovane povero eppure ricco di spirito, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.

Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza l’obbligo che avevo avuto  nella tappa precedente di presentarmi ai conoscenti bolognesi che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati  in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la santa luce del cielo greco.

Come facevano i consumisti di Debrecen la sera che corsi via per andare  a trovare Elena la ragazza madre santa quanto la luce celeste. Se non è più sulla terra sarà eternamente viva nell’isola dei beati, come la figlia di Zeus omonima sua e bella quasi quanto lei.

Dopo due giorni passati con tanta noia volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Insomma di gioia. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del povero ostello, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di forza, di vita. Le cime degli alberi,, i visi umani, perfino i musi degli animali apparivano sereni, pieni di luce, promesse e speranze.

Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo  i raggi del sole danzare tripudi di gioia sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove li festeggiavano  innumerevoli i cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce capaci di  moltiplicare i sorrisi del dio che nutre la vita. Mi chiedevo se ero ancora su questa terra o già in paradiso. Credetti di dovermi meritare quanto vedevo  pedalando e riflettendo con tutta le forze di cui mi avevano dotato gli dèi, i genitori, le amanti, le amiche e gli amici.

Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta alla nostra vista la massima significazione del Nume supremo. Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa tutta come un frutto appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura nel  paradiso così ben fatto dall’artista divino.

 Assaporavo  gli umori distillati dai raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e accentuati dalla pienezza del suo splendore.

Il mondo era bello, variopinto, caldissimo, luminoso e mi rendeva felice.

Ogni tanto mi fermavo per cogliere un’arancia sugosa, un fico o un grappolo d’uva: dolce e graditissima offerta, maturata precocemente dal calore che favorisce la vita. Non dovevo nemmeno sfiorare i miseri, pochi quattrini che mi ero portato dietro. Quindi non avevo bisogno di lavarmi le mani.

Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali gratuiti ricevuti dalle donne belle e fini che avevo già conosciuto meravigliosamente. Le ho sempre considerate “borse di studio”, come le belle giornate. Ero sicuro che altri premi ci sarebbero stati dopo una vacanza talmente pia. Non mi sbagliavo.

Ringraziavo la madre terra femmina felix e generosa , poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola.

Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile, e rendendo la mente serena quanto il cielo, era una gioia: mi sembrava di salire  su per una scala i cui gradini portavano alla Mente dell’universo; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese  rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria pur calda sulla pelle abbronzata: mi sentivo armonizzato con l’opera creata dall’artista divino dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.

 

Bologna 26 marzo 2025 ore 13, 11 giovanni ghiselli

p. s.

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