La degnazione
della diva. I pensieri del 30 maggio trascritti in forma incondita.
Ifigenia quale simbolo di un'età
egoista e nichilista, senza alcun principio né scopo se non il conseguimento dell'utile
personale e immediato. Il farfugliare truffaldino dei politici obesi.
Progetto e schemi di una nuova tragedia. La
prova a cronometro su per la salitaccia del monte Donato
Dopo l'esibizione,
Ifigenia si sentiva una stella: venne a casa mia e acconsentì a fare l'amore,
ma con degnazione nemmeno tanto celata. Nuda e distesa sul letto, non aveva
smesso di recitare; anzi si dava insopportabili arie da attrice famosa.
L'accompagnai a casa sua, provando rancore per lei e per me stesso che
continuavo ad amare una donna del genere.
Il giorno
seguente, sabato trenta maggio , la ragazza passò la giornata a concentrarsi
sull'esame di recitazione, io a riflettere sulla decadenza e rovina del
nostro rapporto. Mancavano meno di due settimane alla caduta finale.
Trascrivo i
pensieri di quel giorno lontano, inconditi come li trovo nel diario:
"Ecco perché
il secondo anno ho smesso di amarla: vedevo già i segni dell'egoismo volgare
che ora sta dispiegando in tutta la sua piatta, ottusa e immensa grandezza.
Adesso mi sfrutta apertamente, non dissimula nemmeno i sentimenti cattivi,
non nasconde l'illusione ridicola di valere molto più di me, e di avere
migliori possibilità che stare con me. Prende tutto come se le fosse dovuto, senza
apprezzare il tempo che impiego per il
suo esame, anche a discapito del lavoro mio. E' un prodotto tipico di
quest'età superba e vuota. Maggior mi sento[1]. Già è ingrata e superficiale di sua natura, poi il mondo istrionico ha
esercitato un'influenza
funesta sul suo carattere. Una seduzione cattiva che non riesco a
controbattere. Ho usato tutte le forze di cui disponevo. Non le ho sprecate
però. Quello che non ho insegnato a lei (onestà, giustizia e così via), l'ho
imparato per me e per la prossima femmina umana, chiunque ella sia.
Ora prova fastidio della mia serietà, del rigore che lei stessa mi consigliava quando ci teneva, e come, a stare con me,
poiché voleva essere aiutata; allora aspirava a essere la mia unica donna,
non sopportava di condividermi con altre, mentre io facevo l'esteta, il
seduttore insofferente di impegni morali, incapace di scelte radicali e
definitive.
“Laudata sii,
Diversità/delle creature, sirena/del mondo! Talor non elessi/perché parvemi
che eleggendo/io t’escludessi,/o Diversità, meraviglia/sempiterna”[2],
mi dicevo in quel tempo. Ora però le nostre situazioni si sono capovolte:
Ifigenia sguazza nella corruzione, nell'ingiustizia e nell'estetismo
mediocre; io tendo a diventare morale: a scegliere il bene e la vita. In
questo tempo doloroso ho reso migliore me stesso, non lei. Oramai è meglio
perderla: il suo comportamento rozzo e cattivo versa nell'anima mia un veleno
composto di noia e dolore. Ho ancora meno in comune con quella che con una
borghese soddisfatta e convinta che almeno ha viaggiato, ha visto qualcosa e
ne può parlare. Ifigenia per l'arte non ha una passione autentica, altrimenti
studierebbe; per il teatro non possiede un vero talento, né un interesse
profondo; se non fosse così, non punterebbe tutto sull'offerta del corpo a maestri
famosi; esperienze di vita con me non ha voluto farne, tranne la bicicletta e
quel paio di viaggi dove del resto si è comportata da parassita : insomma ha
soltanto la smania del successo comunque, e lo strumento della sua potenza
fisica disposta a correre rischi di ogni natura: un mezzo valutato troppo, per
il fatto che con me ha funzionato, ma inadeguato al nuovo fine: a ottenere un
lasciapassare dai maschi più cattivi che buoni, posto che abbiano la volontà
di darglielo, o ne siano in grado. Io sono riuscito a trovare anche mito e
poesia in una poveretta del genere; quelli sui quali ora la disgraziata punta
tutto, probabilmente la useranno senza ascoltarla, senza scoprire niente in lei, a
parte la carne di cui si pasceranno come fanno i lupi con le pecore: materia
scambiata con una speranza di applausi e lustrini.
Da quando ha fatto
questa puntata folle su un destino di gran rinomanza, mi ha escluso dal suo
amore e dalla sua intimità spirituale. Del resto ha ancora bisogno di me, perciò continuerà a
strumentalizzarmi e a lasciarmi usare la sua bellezza finché le sarà utile.
Veramente Ifigenia è un simbolo dell'epoca nostra: egoista e nichilista,
senza alcun principio oltre l'utile. Fa come Poppea: “Unde utilitas
ostenderetur, illuc libidinem transferebat”[3]. Che se ne vada è cosa soltanto buona. Io devo restare solo,
indagare me stesso, tentare la rivoluzione morale. Da questo dolore devo
ricavare un messaggio di eticità autentica, del tutto diverso dal farfugliare
truffaldino dei politici obesi che quando aprono le bocche voraci, i denti da
pescecane, simulano competenze inesistenti mentre dissimulano tutta la
vergognosa avidità che li anima. E corrompono il popolo, soprattutto i
giovani. Quella ragazza, come tanti
coetanei suoi, è peggiorata con il clima politico e con i costumi
generali. La scelleratezza massima di questo regime di ladri è il cattivo
esempio che dà alla gente. Dalla nostra miserabile
storia, rappresentativa del triennio nel quale si è svolta, devo trarre la
luce e i semi di una nascita nuova. Potrebbe essere una tragedia neoclassica:
eschilea per la presenza della Giustizia, sofoclea per lo scavo psicologico
dei personaggi, euripidea per la descrizione della decadenza di una civiltà.
Un'opera che ponga
la questione morale in termini inquietanti per tutti. Partendo dal nostro
rapporto infelice, siccome immorale, devo comunicare il messaggio che non può
darsi felicità senza moralità. Potrebbe esserci un coro di giovani desiderosi
del Bene. Ragazzi che rifiutano non solo i professori incolti, ma tutti i
cattivi maestri di questa era guasta che ci rende disperati.
Lo schema potrebbe
essere questo:
I Atto. Ci
conosciamo a scuola. Parliamo delle nostre vite di edonisti-esteti, dediti al
piacere e al culto della bellezza.
II Atto a
Debrecen. Miei sospetti e angosce. Un'occhiata all'Europa, con una
retrospettiva fino al 1966. L' infelicità sessuale di quel periodo. Dialoghi
con le finniche degli anni '70 per mostrare
la cultura di quel decennio felice. Peggioramento dei rapporti umani già dal
1979.
III Atto. A
Pesaro. Colloqui con le zie pretificate. Arriva Ifigenia. Serie difficoltà.
IV Atto. Mia
emozione per Lucia, altra supplente bellocciua. Dialoghi a scuola.
V Atto. Emozione
di Ifigenia per il ballerino. Loro colloqui. Lui le parla del mondo dello
spettacolo e la affascina. Epilogo e soluzione ancora da trovare".
Appena ebbi finito
questo programma, sentii suonare le campane di una chiesa vicina. Poteva
essere l'assenso divino al mio piano.
Anche quando
Ifigenia arrivò stremata sul monte delle formiche, i rintocchi del santuario
diedero un segno. Forse dovevo fare un
altro tentativo per indurla a
considerarsi una persona morale e razionale. Potevo spiegarle quanto avevo pensato e progettato.
Se l'idea del secondo dramma le fosse piaciuta, se ne avesse provato
interesse, magari saremmo risaliti dalla buca fangosa dove eravamo caduti
anche perché da tanto tempo oramai non avevamo più progetti ma solo ricordi
comuni. Se avesse collaborato, ce l'avrei fatta. Mi aveva detto che dovevo continuare
a scrivere, che ne ero capace. Finalmente avevo qualcosa di propositivo da
dirle. Poteva darmi un'altra volta un compito impegnativo, difficile: ci
avrei messo il meglio delle mie forze, non avrei più avuto l'angoscia. Il
fine nobile e universale, era educare il popolo, massime i giovani; quello
più personale e pratico, competere con i registi, gli attori e tutti i maschi
di prestigio che Ifigenia avrebbe incontrato facendo l'attrice. Per emularli
e batterli, dovevo creare una grande opera d'arte, costruirmi una fama più
vasta e duratura di quella che loro, i già famosi, avrebbero potuto sbattere
in faccia alla donna mia per portarsela a letto.
"Se voglio
continuare a fare l'amore con lei, devo avere successo attraverso lo
scrivere. In fondo per arrivare a lei,
nel '78, ho dovuto compiere un'impresa che tre anni prima mi sarebbe sembrata
irrealizzabile. Nell'autunno del '75 infatti ero un velleitario del tutto
incolto. Sciupavo il mio tempo in chiacchiere vane. La mia preparazione
professionale era fatta di manuali, paradigmi e giornali. Sicché quando ho
avuto l'incarico di latino e greco al Rambaldi di Imola, quasi nulla sapevo.
Meno dei ragazzi più bravi sapevo. Avevo di buono che non sapevo nemmeno simulare.
Né lo volevo. Per sopravvivere ho dovuto contare sulla loro pazienza, e non
vergognarmi troppo della loro pietà. Bravo come ero stato da studente sui
banchi del Mariani di Pesaro, quando cominciai da insegnante liceale, dovetti
accettare il fatto che molti ragazzi e, quel che è peggio, ragazze, non mi
ascoltassero, e che alcuni addirittura leggessero un libro o un giornale. Non
mi cacciarono per compassione, credo. Fino a Natale in terza facevo lezione tremando.
A casa studiavo, studiavo sempre. Giorno e notte studiavo. Per ogni venti
versi di traduzione dell’Edipo re,
per ogni dieci righe di Tacito, mi leggevo un libro di critica. In gennaio
dai banchi sparirono tutti i giornali, e in maggio allieve e allievi
prendevano appunti. Il secondo anno, al Binghetti, fin dal primo giorno,
erano molti quelli che scrivevano le mie parole. Avevo studiato pure d'estate.
Il terzo anno raggiunsi il successo. Poi, all'inizio del quarto, il premio:
la super-ragazza ventiquattrenne. “Ce l'ho fatta - mi dissi - oh Dio, ce l'ho
fatta.” Deve andare così un'altra volta.
Qualche anno, due,
tre, anche dieci o più, di sacrifici inumani, se necessario, poi il
capolavoro, la gloria, la fama. Se ti riesce, lei ti ama di nuovo. O magari
trovi di meglio. Un amore morale. Una di stile elevato e di anima nobile.
Insomma una grande donna, bella e fine".
A questo punto mi
feci due obiezioni: "Che gusto c'è a fare l'amore con una che ti ama
soltanto nel caso che tu abbia successo?"
Poi: "Se
Ifigenia, invece di aspirare al teatro, avesse mirato a studiare con serietà,
non sarebbe stato tutto più semplice e bello?"
Non mi diedi
risposta: non ne potevo più di pensare; inoltre erano già le sette di sera, e
se volevo fare un giro in bicicletta prima di andare a vedere il suo esame, dovevo sbrigarmi. Anche tu
lettore,
suppongo, sarai
stanco di una ruminazione mentale che aveva stremato uno come me,
allenatissimo all'almanaccare. Andai a cronometro su per il monte Donato.
Feci un buon tempo con un rapporto più duro del solito.
"La marcia in
più – pensai - che riesco a usare quando il pensiero di lei mi mette alla
prova". Avevo pedalato con leggerezza e potenza; così avrei scritto il
mio capolavoro; così avrei superato tutti i registi e gli attori famosi nella
sua stima. Il sole tramontò vicino a S.
Luca alle 20 e 34 minuti. Gli chiesi il successo per la mia compagna e per
me. Quindi tornai velocemente a casa, feci la doccia e mi avviai verso il
teatro. Avevo indossato un vestito di lino azzurro su una camicia bianca e
mocassini rossicci. Ero teso.
giovanni ghiselli
a Polina
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[1] Cfr. Leopardi, Il pensiero dominante: "Di
questa età superba,/che di votesperanze si nutrica,/vaga di
ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/einutile la vita/quindi più sempre divenir non
vede,/maggior mi sento" vv. 59-65.
[2] D’Annunzio, Laus Vitae,
vv. 46-52. La Sirena del Mondo
[3] Tacito, Annales,
XIII, 45, volgeva la libidine là dove si mostrava l’utile.