domenica 25 ottobre 2015

Essere cittadino

25 ottobre 2015
Sommario della conferenza Essere cittadino del 25 ottobre. Mediateca di San Lazzaro.
Giovanni Ghiselli membro del direttivo del Centrum Latinitatis Europae
 
Essere cittadino (polivth~) significa avere una cultura politica, vuole dire essere educato alla vita democratica della polis.
 La tirannide è associata alla prepotenza e all’ignoranza del bene comune.
Il dibattito costituzionale nelle Storie di Erodoto.
Il tiranno non deve rendere conto ai suoi sudditi dei propri atti spesso criminosi.
Il tuvranno~ nella storiografia greca, in quella latina, nella tragedia greca e in Platone.
Critiche alla dhmokrativa. Anche il popolo può gestire il potere con prepotenza, ossia non sottostando alle leggi  (Senofonte, Polibio, Platone, Aristotele).
I discorsi di Pericle nelle Storie di Tucidide. La politeiva ateniese e la nostra costituzione: analogie e differenze.
 
Paideia si può identificare, in un certo senso, con formazione politica : “ Uso questo termine non nel suo senso contemporaneo di istruzione scolastica formale ma nel senso antiquato, nell’antico senso greco: per paideia i greci intendevano l’educazione, la “formazione” (la Bildung tedesca), lo sviluppo delle virtù morali, il senso della responsabilità civica, della cosciente identificazione con la comunità, i suoi valori e le sue tradizioni”[1].
Già l’Odisseo dell’Iliade  possiede l’arte politica[2] che “consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio”[3].
 
Erodoto
 
Il discorso tripolitico del dibattito costituzionale ( Storie, III, 80 ss.) forse deriva dalle Antilogie di Protagora che parte da premesse relativistiche ma non fu anarchico: venne chiamato a preparare le leggi per la città di Turi.
Nelle Antilogie si trovano i dissoi; lovgoi con la loro logica aperta al contrasto
Questi di Erodoto sono trissoiv.

Erodoto scrive che dopo la magofoniva,  la strage che aveva soppresso i  Magi, a partire dal Mago Medo senza orecchi[4] il falso Smerdi, il quale si spacciava per Smerdi figlio di Ciro,   i Sette[5] nobili persiani che si erano ribellati all’ usurpazione, tennero un consiglio dove  vennero pronunciati alcuni discorsi incredibili per alcuni Greci: lovgoi a[pistoi me;n ejnivoisi   JEllhvnwn (III, 80, 1).
 Tuttavia questi discorsi furono pronunciati.

“In un passo delle sue Storie, Erodoto sostiene molto chiaramente che prima di Clistene la democrazia politica era stata “inventata” in Persia da uno dei dignitari persiani implicati nella congiura che aveva abbattuto l’usurpatore, il falso Smerdis. Erodoto si lamenta del fatto che i Greci, durante le sue letture pubbliche, non avevano accettato questa informazione molto netta e dettagliata (III, 80). Un grande storico della Grecia e della Persia, David Asheri, ha scritto bene in proposito che in questo passo Erodoto ha di mira, in maniera velata, il pregiudizio tipicamente ateniese (più in generale greco) che la democrazia sarebbe un’ “invenzione” greca[6][7]
Più avanti (VI, 43, 3) Erodoto scrive che ci sono dei Greci i quali non credono che Otane abbia consigliato il regime democratico per i Persiani. Ebbene costoro saranno sorpresi nel sentire che Mardonio quando, nel 492, giunse nella Ionia, ne depose i tiranni e istituì nelle città governi democratici.


Nel VI libro lo storiografo racconta che nella primavera del 492 Mardonio, genero di Dario depose tutti i tiranni degli Ioni e istituì governi democratici. Erodoto chiarisce che  lo dice per quanti non accettano che Otane abbia esposto agli altri sei nobili   il parere che i Persiani dovessero avere una costituzione  democratica (wJς creon ei[h dhmokratevesqai Pevrsaς, VI, 43, 3).
Secondo Diodoro (Biblioteca storica, X, 25) questo provvedimento di Mardonio sarebbe stato suggerito da Ecateo come mezzo di pacificazione.

Comunque questi lovgoi  secondo Erodoto vennero effettivamente pronunciati da Otane, Megabizo e Dario, i tre nobili persiani che avevano la possibilità di  succedere a Cambise .

Parlò per primo Otane il quale propose di affidare il potere al popolo dicendo che non era cosa piacevole né buona (ou[te ga;r hJdu; ou[te ajgaqovn, 80, 2) che uno di loro diventasse re.
“Voi sapete a che punto è arrivata l’ u{briς di Cambise e avete provato anche quella del Mago”. Cambise, racconta Erodoto era un pazzo che fece uccidere suo fratello Smerdi da Pressaspe cui aveva ammazzato il figlio.
 Non solo: " pantach'/ w\n moi dh'lav ejsti o{ti ejmavnh megavlw" oJ Kambuvsh""( III 38) da ogni punto di vista dunque per me è evidente che  molto matto era Cambise; altrimenti non si sarebbe messo a schernire religioni e costumi. Questo despota “lunatico” arrivava perfino a bruciare  le immagini dei santuari (III, 37, 3).

Politica, si diceva, è associata a educazione
Secondo Platone, Cambise e Smerdi ricevettero una trofh;n gunaikeivan, una cura di donne da parte di femmine appena arrivate al potere, e di eunuchi, e crebbero in un tipo di allevamento licenzioso trofh̃/ ajnepivplhktw/  (ejpiplhvssw, colpisco, punisco).
Sicché ereditarono il regno trufh̃ς mestoi; kai; ajnepiplhxivaς, gonfi di lussuria e di sregolatezza ( Leggi, 695b)

Il tiranno non deve rendere conto ai suoi sudditi
Al monarca-continua Otane- è lecito (e[xesti) fare quello che vuole senza renderne conto (ajneuquvnw/[8] poievein ta; bouvletai III, 80, 3)

Aristofane nelle Vespe   fa dire a Filocleone che i giudici parziali dell’Eliea non dovevano rendere conto del male che facevano.
(ajnupeuvqunoi drw̃men, 587).
Anzi, davanti a lui se la fanno sotto i ricchi e i potenti ( ejgkecovdasiv m j oiJ ploutoũnteς (627).

Nei Persiani di Eschilo,  Serse conduce uomini privi di libertà ai quali  non deve rendere conto dei propri atti, nemmeno degli insuccessi.
Il grande re  pur se sconfitto, non è tenuto a rendere conto alla città " oujc uJpeuvquno" povlei" (Persiani, v. 213),  come  lo è uno stratego eletto dal popolo.

Eschilo contrappone al potere assoluto il sistema democratico di Atene  quando la regina madre Atossa domanda ai vecchi dignitari   chi sia il pastore e il padrone dell'esercito greco. Allora il corifeo risponde:"ou[tino" dou'loi kevklhntai fwto;" oujd j uJphvkooi"  (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
 
 
Essere cittadino, polivthς, dunque, e avere un ruolo direttivo, significa  renderne conto alla povliς.

Ma torniamo a quanto dice Otane nelle Storie di Erodoto contro il potere incontrollato del mouvnarcoς che di fatto è un despota.

Al monarca viene l’u{briς dai beni presenti, mentre l’invidia gli è connaturata dall’origine: fqovnoς de; ajrch̃qen  ejmfuvetai ajnqrwvpw III, 80, 3)/.

 Ha ogni malvagità (e[cei pãsan kakovthta, 80, 4)  che   compie  per arroganza e invidia

 Cfr. la storia di Trasibulo di Mileto, Periandro di Corinto e Policrate di Samo.

Periandro, dopo la lezione di Trasibulo: “pãsan kakovthta ejxevfane eς tou;ς polivtaς (V; 92, h).

 Cfr. anche Tarquinio il Superbo in Tito Livio.



La  prima caratteristica del despota è  l'insofferenza dell'opposizione.
La mania della distruzione delle teste pensanti fa parte dalla mente autocratica:  sappiamo da Erodoto  che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era  scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:"oiJ uJpetivqeto(...)tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano (Erodoto,  Storie , V, 92 h).
 Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano. Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
Diogene Laerzio I, 7) riferisce da Aristippo (Della lussuria degli antichi in realtà di ignoto autore del III a. C.) che Periandro si unì con la madre Crateia innamorata di lui.
Periandro ha in comune con Edipo anche la zoppia razziale (cfr. Labda nonna di Periandro  e Labdaco, nonno di Edipo).
La tirannide è una sovranità claudicante.
 
Su questa linea si trova anche Platone il quale  chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo, Sisifo e Tizio "ejn jAidou to;n ajei; crovnon timwroumevnou""( Gorgia, 525e), puniti nell'Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth"") non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono "oiJ sfovdra ponhroiv" ( 526a) quelli malvagi assai. Da i  potenti provengono quelli che hanno commesso i crimini più atroci e perciò sono ajnivatoi (525c), incurabili. Da questi si traggono esempi (ejk touvtwn ta; paradeivgmata gignetai).  Il giudice infernale Radamanto, quando gli si presenta il  Gran Re o  altri sovrani ne vede l’anima piena di piaghe (oujlw'n mesthvn) causate dalla falsità e dall’ingiustizia (uJpo; ejpiorkiw'n kai; ajdikiva", 525a). L’anima è marchiata perché è cresciuta lontano dalla verità. Radamanto la vede piena di disordine e di bruttura (ajsummetriva" te kai; aijscrovthto" gevmousan th;n yuch;n ei\den (525a).   
 
 
Dai capitoli erodotei (III, 80-82) ricordati sopra derivano alcuni modelli costituzionali della filosofia ( Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive. E non solo la storiografia greca.
 
Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole:" rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse "(I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri[9]
 
Il falso sciocco in Livio
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere disprezzato:"Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit cognomen " (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto.
“Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[10].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet  quod ea communis mater omnium mortalium esset " I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali. Cfr. l’Amleto di Shakespeare.


Il despota non dovrebbe essere invidioso poiché ha tutti i beni.

Invece invidia i cittadini migliori, si compiace dei peggiori (caivrei de; toĩsi kakivstoisi tw̃n astw̃n) ed è ottimo ad accogliere le calunnie ( diabola;ς de; a[ristoς ejndevkesqai, Erodoto,  III, 80, 4).


Il tiranno nella storia romana e nella tragedia greca

 Cfr. Tiberio e Domiziano in Tacito.

Quanto allo fqovno", Tacito attribuisce più di una volta l'invidia ai suoi Cesari: Tiberio (14-37) temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat , Annales , I, 80).
Ma il vizio capitale di  Tiberio eral’ipocrisia:  si serviva di formule antiche per nascondere scelleratezze recenti : “Proprium id Tiberio fuit scelera nuper reperta priscis verbis obtegere” (4, 19).
 
 
 Domiziano (81-96) invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia:"Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli " ( Agricola[11], 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.

La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti Pittaco "to;n kakopatrivdan"( fr. 348 L P) dal padre ignobile,
a Platone che certamente non risparmia biasimi al   turanniko;" ajnh;r. Costui, nella Repubblica  (573c) è uomo, per natura, o per le abitudini, "mequstikov".. ejrwtikov", melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre è di animo sostanzialmente servile"oJ tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e).
 
 Questa  considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà  sostiene che" l'impotenza dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui l'individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama di potere" (p. 144).
 
 
La paura del tiranno. Metus tyranni: Genitivo soggettivo e oggettivo
 
Il tiranno  fa paura, come affermano la nutrice della Medea di Euripide (119 sgg.), e Antigone di Sofocle, a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507).  
 Il despota vive circondato dal fovbo" :  fa paura e  ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus  di Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit " (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute  chi lo dice.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di due tiranni del IV secolo Dionigi il vecchio di Siracusa e di Alessandro di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che infine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.  
 
 Nell'Edipo re   di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'" ejmh'" turannivdo"" (v. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura ("a[rcein...xu;n fovboisi", v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più utile delle dee.
 "La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[12].
Il tiranno ha paura che gli tolgano il bene più grande che per lui è il potere
Per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (v. 506) e per lei può essere bellissimo anche commettere ingiustizia:" ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d j eujsebei'n crewvn", (Fenicie vv. 524-525), se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio. Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie  li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare:"Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem  colas ", (De Officiis , III, 82).
La paura che il tiranno ha, è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio:"Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[13], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola  (39) di Tacito.
 La sua paura accompagna il suo potere: governare in mezzo alle paure, questa è la condizione del tiranno (Sofocle, Edipo re, v. 585[14]).
 
L’ argomento del timore del principe  viene ripreso da Machiavelli  che gli antepone e preferisce quello di Dio.
L'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio  (1517) verte sulla religione dei Romani
Questa fu introdotta beneficamente  da Numa, il secondo dei re.
Quindi il segretario fiorentino nomina  Licurgo e Solone tra i legislatori che "ricorrono a Dio".
 Infine tira le somme:"Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".
 
Nel Principe (XVII), Machiavelli menziona la “disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto”
Ebbene: “rispondesi, che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua”
E, poco più avanti: “Debbe, non di manco, el principe, farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi e dalle donne loro…ma, sopra a tutto, astenersi dalla roba d’altri; perché li uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio”.   
 
Fine tiranno

 

 
 
Ma torniamo a Otane di Erodoto (III, 80, 6)
I misfatti più gravi del tiranno sono questi: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio. "Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[15]
 Nelle tragedie, il tiranno è il paradigma mitico- o storico- di questo principio ( Serse nei Persiani di Eschilo, Creonte nell’Antigone di Sofocle  e nelle Supplici di Euripide.
 
Invece il governo del popolo, sostiene Otane, ha il nome più bello, l’uguaglianza davanti alla legge: “plh̃qoς de; a[rcon prw̃ta me;n ou[noma pavntwn kavlliston e[cei, ijsonomivhn (6), poi esercita a sorte le magistrature (pavlw/ me;n ajrca;ς a[rcei ) e ha un potere soggetto a controllo (uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei) e presenta tutte le deliberazioni del consiglio all’assemblea pubblica (bouleuvmata de; pavnta ejς to; koino;n ajnafevrei).
 I bouvleumata infatti non sono khruvgmata, ordinanze, editti come quello di Creonte nell’Antigone di Sofocle.
 
Otane dunque propone la democrazia, perché nella massa deve stare ogni potere.
 
Megabizo invece parlò in favore dell’oligarchia (I, 81). Accetta la critica alla tirannide ma non l’elogio del popolo. Infatti dice non c’è niente di più stupido (oujdevn ejsti ajxunetwvteron, cfr. sunivhmi), né più prepotente ( uJbristovteron) di una moltitudine buona a nulla (oJmivlou ajcrhivou).
Il monarca è caratterizzato dall’ybris, il dh̃moς è sfrenato (ajkovlastoς)
La moltitudine non ha imparato niente da altri e non conosce da sé nulla di buono, e sconvolge lo Stato scagliandosi a[neu novou simile a un fiume invernale (ceimavrrw/ potamw̃/ i[keloς, 81, 2).
 
D'Annunzio in Il piacere  denuncia "il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente"; un nubifragio sotto il quale "va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte" (p. 38).
Nelle Supplici di Euripide, l’araldo tebano di Creonte parla contro la democrazia: “il popolo che non sa tenere in piedi i propri discorsi, come potrebbe tenere dritta la città? (417-418).
 
Una curiosità: Ciano nel suo Diario ha scritto che Mussolini diceva: “il popolo non sa mai quello che vuole, tranne guadagnare molto e lavorare poco” (22 maggio 1938)
Poi: “Solo un paese vile, brutto, insignificante può essere democratico. Un popolo forte ed eroico tende all’aristocrazia” (24 giugno 1938)
 
 
 
Dunque, aggiunge Megabizo,  il potere va affidato a un gruppo ristretto di uomini migliori (ajndrw̃n tw̃n ajrivstwn)
 
 
 
Torniamo a Erodoto. Per ultimo parlò Dario. Approva Megabizo sulla democrazia, lo confuta sull’oligarchia.
Secondo lui il sistema migliore è la monarchia anche se tw̃/ lovgw/, a parole, sono ottime tutte e tre.
Non c’è niente di meglio di un uomo ottimo il quale con il suo senno (gnwvmh/, III, 82, 2) guida tutto il popolo in modo irreprensibile ajmwvmhtoς. Nell’oligarchia invece gli oligarchi giungono a grandi inimicizie, da cui nascono stragi, quindi si passa alla monarchia che così si rivela il regime migliore. Quando invece comanda il dh̃moς (dhvmou te au\ a[rcontoς, III, 82, 4)  è impossibile che non sopravvenga la malvagità (ajduvnata mh; ouj kakovthta ejggivnesqai) e i malvagi instaurano tra loro filivai ijscuraiv, salde amicizie, poiché danneggiano gli interessi comuni cospirando tra loro.
Questo accade finché li fa cessare uno che viene proclamato monarca. E ancora una volta si vede wJς hJ mounarcivh kravtiston.
Del resto per farla breve: a noi la libertà chi l’ha data? Non il popolo né l’oligarchia ma un monarca, ossia Ciro. Manteniamo dunque la monarchia
III, 83.
Vennero dati dunque questi 3 pareri e gli altri quattro dei sette aderirono all’ultimo.
Otane che voleva dare ai Persiani l’isonomia, sconfitto, non volle entrare in lizza per diventare re, e disse: “ejgw; me;n nun uJmĩn oujk enagwnieũmai: ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw” (III, 83, 2).
 
In Erodoto c’è, come in Eschilo, una logica aperta al contrasto: lo storiografo conferisce nobiltà a Otane e pure allo spartano Demarato che  era al servizio di Serse e disse al re che ai Greci è sempre stata compagna assidua penivh, la povertà, mentre la virtù (ajrethv) è un acquisto successivo, operato attraverso la saggezza (ajpo; te sofivhς) e leggi severe (kai; novmou ijscuroũ)
Avvalendosi di queste, la Grecia si difende dalla povertà e dalla tirannide (VII, 102, 1).
Quanto agli Spartani in particolare, essi sono liberi, ma non del tutto (ouj pavnta ejleuvqeroiv eijsi, VII, 104, 4)  perché su di loro comanda la legge (e[pesti ga;r sfi despovthς novmoς).
 
Mazzarino riconosce alla cultura dei Greci una maggiore disponibilità a considerare e accettare punti di vista diversi tra loro
Così in Erodoto: c'è la "tirannide" dei Greci nemica di Dike; ma c'è anche la "tirannide" di Deioce[16] per cui i Medi hanno kòsmos  :"La nostra logica è rettilinea, astratta: quella dei Greci è sempre aperta al contrasto. Nell'Oresteia  di Eschilo Divka Divkai (xymbaleî  ) "Dika si scontrerà con Dika"[17]: ci possono essere due Dikai, due Giustizie nel caso dell'Oresteia , quella "matriarcale" di Clitennestra ( e delle Erinni, a cui il ghénos di Eschilo non può sacrificare) contro quella "patrilinea" di Oreste , la democrazia dei Greci e la "tirannide" di Ciro, dalla quale i Persiani ricevono "libertà", eleutherìa "[18].
  

 
 
 
Per quanto riguarda la prepotenza del popolo, cfr. Senofonte (Elleniche II) e Polibio (Storie VI). Il popolo che non sottostà alle leggi e rivendica il diritto di fare ciò che vuole.
 
La battaglia delle Arginuse e il processo agli strateghi ( tarda estate del 406 a. C.). Teramene.
Nel 406 gli Ateniesi con grande sforzo misero insieme centocinquanta navi per la loro ultima vittoria. La battaglia avvenne presso le tre isolette Arginuse situate tra Mitilene di Lesbo e la costa asiatica. Callicratida fu sconfitto e, caduto in mare scomparve ("ajpopesw;n eij" th;n qavlattan hjfanivsqh", Elleniche , I, 6, 33) ma anche ai comandanti vincitori toccò una sorte non buona:  il vento e una tempesta impedirono che si portasse soccorso alle navi danneggiate. Fatto che indusse gli Ateniesi a destituire gli strateghi tranne Conone. Invece elessero Adimanto e Filocle. Quindi sei strateghi, tra cui Pericle il Giovane, figlio di Pericle e di Aspasia, e Trasillo, furono arrestati e accusati, soprattutto da Teramene, poiché era giusto che rendessero conto del motivo per cui non avevano raccolto i naufraghi:"dikaivou" ei\nai lovgon uJposcei'n diovti oujk ajneivlonto tou;" nauagouv"" ( I, 7, 4).
A proposito della condanna a morte del figlio di Pericle si può notare che il padre non poté, o non volle, trasmettere il proprio potere al figlio: “Uomini come Pericle costituirono certamente un’élite politica, ma non era un’élite capace di perpetuare se stessa; ad essa si accedeva per meriti pubblici, specialmente in seno all’Assemblea; era aperta a tutti, e per continuare a farne parte era necessaria un’attiva presenza continua”[19].
A ruling group is a ruling group so long as it can nominate its successors”, una classe dirigente continua ad essere tale soltanto fino a quando è in grado di nominare i propri successori”[20].
Secondo Orwell non importa che questi siano i figli: “Il Partito non si preoccupa di perpetuare una linea di discendenza sanguigna, ma  di perpetuare se stesso”.
 Teramene continua ad essere il personaggio peggio che ambiguo e camaleontico che abbiamo conosciuto attraverso Tucidide: infatti proprio a lui, e a Trasibulo, che erano trierarchi, ossia comandanti di triremi, gli strateghi avevano ordinato di soccorrere le navi danneggiate (I, 6, 35). Gli strateghi nella loro difesa, breve poiché non fu concesso loro il tempo di parlare stabilito dalla legge "kata; to; novmon"(I, 7, 5), ricordarono di avere appunto ordinato a Teramene e Trasibulo di soccorrere i naufraghi, ma non volevano incolparli solo perché venivano accusati da loro, anzi ribadivano che era stata la violenza della tempesta a impedire il recupero:"ajlla; to; mevgeqo" tou' ceimw'no" ei\nai to; kwlu'san thvn ajnaivresin"(I, 7, 6).
“Gli strateghi volevano in definitiva salvare tutti, diluendo le responsabilità fra se stessi e i trierarchi a loro subordinati; ma è proprio Teramene che, ad evitare anche ogni possibile sviluppo negativo, parte all’attacco, calcando la mano sulla responsabilità degli strateghi, i quali finiscono necessariamente schiacciati tra il furore del popolo e le accuse del subordinato”[21].
Già gli accusati stavano convincendo l'assemblea, quando il dibattito venne aggiornato dopo tre giorni di festa, e per la volta seguente i seguaci di Teramene prepararono uomini vestiti di nero e rasati ("pareskeuvsan ajnqrwvpou" mevlana iJmavtia e[conta" kai ejn crw' kekarmevnou"[22]", I, 7, 8) perché si presentassero in assemblea come se fossero parenti dei morti. Quindi convinsero il consigliere Callisseno a formulare una proposta di condanna a morte. Si presentò perfino un tale a dire che si era salvato sopra un barile di farina (favskwn ejpi; teuvcou" ajlfivtwn swqh'nai, I, 7, 11) e che i naufraghi morendo lo avevano incaricato di accusare gli strateghi di mancato soccorso. Ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa oramai era stato inoculato l'odio e il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che è  grave se qualcuno non permetterà al popolo di fare quanto vuole ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein   o}  a]n   bouvlhtai", I, 7, 12)."E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", è, come vedremo, "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione  della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole")”.[23]
Da notare che la parola plh`qo~ , dalla radice pla-/plh (q), è imparentata con i vocaboli latini plebs, plenus, impleo (riempio).
 
Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4 , 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è  quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia.
Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli  erano pochi (ojlivga me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.
Aristotele nella Politica (1292a) scrive che dove non comandano le leggi non c’è costituzione: o{pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva.

Nella Costituzione degli Ateniesi (41) Aristotele passa in rassegna 11 regimi succeduti in Atene. Biasima la riforma di Efialte  (del 462 a. C.) che ridusse i poteri dell’Areopago. Da allora i governi commisero più errori a causa dei demagoghi. Dopo la tirannide dei Trenta, il popolo si è reso padrone assoluto di ogni cosa.
 Anche Cicerone critica questo potere eccessivo: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep., 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama  libertà, ma è piuttosto licenza.
 
 
Tucidide
 

 Il torneo oratorio di Sparta 432
 
I Corinzi parlano degli Ateniesi con l’acume dell’odio alla I assemblea (non plenaria) dei delegati della lega Peloponnesiaca che si tenne a Sparta nel 432
Per tutta la vita essi si affaticano tra prove e pericoli-meta; povnwn kai; kinduvnwn mocqoũsi e godono pochissimo di quello che hanno, perché sempre acquistano-dia; to; aijei; ktãsqai, e non considerano una festa  altro che fare ta; devonta, quello che devono, e una sventura non meno una tranquillità inattiva che un’attività penosa ( I, 70) 
Anche nella tecnica prevale la scoperta più recente. Così nella politica, che è una tecnica, ci vogliono sempre innovazioni: pollh̃ς th̃ς ejpitecnhvsewς deĩ (I, 71).
Voi Spartani non vi rinnovate.

Quindi parlarono gli Ateniesi invitati a questo convegno.
Rivendicano i loro meriti nelle guerre persiane, soprattutto nella seconda: ci misero il maggior numero di navi, lo stratego più intelligente[24] e l’impegno più risoluto proqumivan ajoknotavthn (I. 74).

Al nostro successivo potenziamento siamo stati costretti. kathnagkavsqhmen dal timore (malivsta uJpo; devouς) , dall’onore (e[peita kai; timh̃ς) e dall’utile (u{steron kai; wjfelivaς). E’ la logica del potere.
Quindi proclamano il diritto del più forte.
 E’ stabilito da sempre che il più debole sia sopraffatto da più forte (aijei; kaqestw̃toς to;n h{ssw ujpo; toũ dunatwtevrou kateivrgesqai, I, 76) e noi ne siamo degni. Noi esercitiamo la supremazia con moderazione metriavzomen.

I processi
Abbiamo fama di amare i processi: filodikeĩn dokoũmen (I, 77), e lo riconosciamo: quelli  che possono fare violenza infatti non hanno bisogno di processi biavzesqai ga;r oi|ς a}n ejxh̃/ , dikavzesqai oujde;n prosdevontai (I, 77).
Per la mania dei processi Le Nuvole di Aristofane del 422.

Il primo discorso[25] di Pericle del 431  ( Storie, II, 140-144)

Tucidide  introduce questo discorso scrivendo che Pericle era prw`to~  jAqhnaivwn , il primo degli Ateniesi e il più capace di parlare e di agire: “levgein te kai; prassein dunatwvtato~.

Essere cittadini significa anche avere delle capacità: in primis quella di parlare, poi quella di agire conseguentemente[26].

 


Pericle chiede di non cedere agli Spartani (mh; ei[kein, I, 140, 1).

Tucidide si rifà a un’idea razionale dell’uomo e della storia e, come poi Cesare[27]. e dà poco spazio ai motivi irrazionali delle imprese.
.Tuttavia egli non elimina del tutto il para; lovgon: a volte la tuvch conduce i fatti para; lovgon appunto contro il ragionato calcolo.

Dunque: Non bisogna cedere alle richieste degli Spartani di abrogare il decreto di Megara e di togliere l’assedio a Potidea, altrimenti arriveranno altri ordini
Sono i capitali , le eccedenze che sostengono le guerre (aiJ periousivai tou`~ polevmou~ ajnevcousin) e i Peloponnesiaci ne sono privi. 
Senza denaro non si colgono le occasioni le quali non aspettano[28] (oiJ kairoi; ouJ menetoiv, I, 142, 1), sarà importante dominare il mare e gli Spartani non possono poiché la nautica è fatta di tecnica e di capitali.

(Cfr, l’ajcrhmativa di, I, 11. Essa  inficiava la grandezza e la potenza della flotta contro Troia).

Non importa se i campi verranno danneggiati; basta che si salvino le vite umane, poiché sono gli uomini ad acquistare le cose, non le cose gli uomini. Grande cosa è il dominio sul mare: “mevga ga;r to; th̃ς  qalavsshς kravtoς (I, 143, 3).

 
Pericle conclude il primo discorso, non senza una contraddizione: ricorda che i loro padri che pure non avevano tante risorse e anzi abbandonarono quelle che possedevano,  affrontarono i Medi  con l’intelligenza (gnwvmh/) più che con la fortuna (plevoni h] tuvch/), con il coraggio più grande della potenza (tovlmh/ meivzoni h] dunavmei) I, 144, 4.
Si vede che qui entra anche l’elemento irrazionale (tovlmh/).
Gli Ateniesi votarono come lui volle.

 


Secondo discorso di Pericle
Lovgoς ejpitavfioς  (II, 35-46) tenuto nell’inverno 431-430.
 
La lode dei caduti sta nelle loro gesta, non nelle espressioni dell’oratore  che deve solo trovare parole adeguate ai fatti.
Soloo i pepaideumevnoi sono capaci di farlo.
Chi parla è spesso portato a straparlare: è difficile infatti parlare con misura (calepo;n ga;r to; metrivwς eijpeĩn, II, 35, 2). Di chiacchierare sono capaci tutti, ma come dice Pelasgo nelle Supplici di Eschilo: “makra;n ge me;n dh;  rJh̃sin ouj stevrgei povliς (273), la città non ama i lunghi discorsi.

Talora gli ascoltatori provano invidia davanti all’eroismo e non credono a ciò che supera la loro mediocrità.
Pericle cercherà comunque di seguire la tradizione e di incontrare le aspettative degli uditori.
Il figlio di Agariste d’altra parte poteva pure permettersi di contraddire i gusti del suo popolo e provocarlo fino all’ira pro;ς ojrghvn  in quanto era chiaramente incorruttibile riguardo al denaro : “ diafanw̃ς ajdwrovtatoς  genovmenoς kateĩce to; plh̃qoς ejleuqevrwς” (II, 65),  teneva in pugno il popolo lasciandolo libero. E’ il commento di Tucidide

Torniamo al lovgoς ejpitavfioς
 Gli abitanti dell’Attica sono autoctoni da sempre.
I loro padri hanno conquistato l’impero (ajrchvn) non senza fatica (oujk ajpovnwς) e i figli lo hanno accresciuto (II, 35, 2) rendendo Atene aujtarkestavthn[29], del tutto autosufficiente.


La grandezza di Atene è dovuta  alla sua costituzione  (politeiva) e ai suoi costumi (trovpoi), detto in breve, poiché Pericle non vuole makrhgoreĩn, parlare prolissamemente.
Polibio ripeterà queste formule: infatti Tucidide ejnomoqevthse, legiferò (cfr. Luciano)

Quindi il paragrafo , II,  37, 1 delle Storie di Tucidide.
 Questo viene echeggiato dalla nostra costituzione
Noi, dice Pericle abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma) e degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti. Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima del valore (kata; de; th;n ajxiwvsin)  e nessuno viene preferito alle cariche per il partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς) più che per il valore (to; plevon ejς ta; koina; h] ajp j ajreth̃ς), né del resto secondo il criterio della povertà (oujd j au\ kata; penivan), se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai). 

Sentiamo allora la nostra Costituzione.
Articolo 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. 
L’articolo 3 è forse il più noto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e sociali
Comma B. E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese.

Nel Menesseno di Platone, Aspasia dice che nessuno è stato escluso per povertà (peniva/), né per oscurità dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è stato ritenuto degno di onore (238d)
Sarebbe stata Aspasia a suggerire  il discorso sui morti a Pericle.
“La costituzione, se è buona, alleva uomini valorosi, se è cattiva invece dei malvagi. Quella che chiamano democrazia  di fatto è un’aristocrazia con il consenso della massa (e[sti de; th̃/ ajlhqeiva/ metj eujdoxivaς plhvqouς ajristokrativa (238d). Noi abbiamo sempre avuto dei re. (Il secondo arconte che presiedeva al culto, aveva il titolo di re)
Il popolo assegna cariche e potere a chi gli sembra essere il migliore: nessuno è stato escluso (ajphlevlatai oujdeivς) per debolezza, povertà, oscurità dei padri, né per motivi opposti (oujde; toĩς ejnantivoiς) è stato onorato. C’è un solo limite (ei|ς o{roς): ha il potere e comanda (krateĩ kai; a[rcei)  chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ dovxaς sofo;ς h} ajgaqo;ς ei\nai (238d)
 
Critiche alla democrazia ateniese
 
L’oligarca della Costituzione degli Ateniesi associa la democrazia alla potenza della flotta e al potere di chi la fa andare “ad Atene la canaglia ha preso il potere perché è il popolo che fa andare le navi: “oJ ejlauvnwn ta;ς naũς”
 

Senofonte indica invece l’esemplarità della Costituzione spartana: Licurgo non ha imitato altre costituzioni ma ha scelto l’opposto rispetto alla maggior parte di esse (Costituzione degli Spartani, I).
Polibio individua la prima Costituzione mista (mikth; politeiva) nella rJhvtra di Licurgo (VI, 3, 8). C’erano i re, la gerousiva, l’Apella e gli Efori che sindacavano l’operato dei potenti.
Isocrate nell’Areopagitico, il principale scritto di politica interna, del 356,  scrive che la Costituzione non è altro che l’anima dello Stato (e[sti ga;r yuch; povlewς oujde; e{tereon h} politeiva (14).

Il liberal- conservatore Tocqueville voleva ridurre al minimo le scuole classiche in quanto c’è il rischio che producano giacobini e rivoluzionari (La democrazia in America, 1840). Il comunista Gramsci invece sosteneva che il latino e il greco sono il più efficace strumento di disciplina intellettuale.

Democrazia  contiene la parola kravtoς che secondo i critici di questo regime può significare “strapotere dei non possidenti”, come ricorda Canfora
“E’ nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa, a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[30]


Aristofane, in forma comica, poi Platone e Aristotele denunciano la demagogia, il disordine e la corruzione di questo sistema.

Cfr. Le Vespe di Aristofane  del 422, dove il commediografo mette in rilievo la parzialità dell’Eliea che in origine era una corte d’appello istituita da Solone, poi ampliata nei poteri e nel numero fino a seimila giudici.
Il figlio di Filocleone esorta il “babbino”(pappivdion, 655) a calcolare qual è il tributo (to;n fovron) che Atene  riceve dalle città alleate poi tutte le altre rendite (tevlh, imposte, miniere, mevtall j, mercati, porti, confische 649).
Sono duemila talenti
 Gli stipendi dei 6000 eliasti arrivano a 150 talenti (un talento equivalgono a 6000 dracme a 36 mila oboli. Una dracma=6 oboli)
Il vecchio ci rimane male: nemmeno la decima parte?
E gli altri quattrini?
Il figlio risponde che vanno ai demagoghi che adulano  la folla e prendono cinquanta talenti alla volta dagli alleatti terrorizzandoli prima, poi facendosi corrompere
Tu ti accontenti di rosicchiare i rimasugli del  potere (672) dice Bdelicleone al suo babbino.
 

Platone nell'VIII libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo.
E' una costituzione populista, piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa, 558c).
Un'uguaglianza divaricata dalla giustizia dunque se  è vero quanto dice Don Milani: "Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali"[31]
Io credo che sia più ingiusto fare parti troppo diverse tra persone che sono sostanzialmente uguali come siamo noi uomini.
I demagoghi furono Cleone, Iperbolo e Cleofonte, ma Platone ( nel Gorgia) non salva nemmeno Pericle.

 
Ma torniamo al lovgoς ejpitavfioς.
ejleuqevrwςpoliteuvomen, liberamente viviamo da cittadini (II, 37, 2)
Parte importante di questa libertà nella cultura logocentrica, e parlata, dei Greci è la parrhsiva, come si legge nello Ione e nelle Fenicie di Euripide,

"La parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell'Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura europea vi trovano fondamento"[32].
Nello Ione[33] di Euripide il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai[34] koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
 Analogo concetto si trova nelle Fenicie[35] quando  Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa.

Anche la nostra Costituzione conferisce somma importanza alla libertà di parola: "Articolo 19: "Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Articolo 21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".

Pericle poi ricorda ouj paranomoũmen (II, 37, 3) , non trasgrediamo le leggi per paura e soprattutto obbediamo a quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia (o{soi te ejp j wjfeliva/ tw̃n ajdikoumevnwn), e anche se non sono scritte (o{soi a[grafoi o[nteς) portano un disonore riconosciuto da tutti (aijscuvnhn oJmologoumevnhn fevrousin).

Pelasgo nelle Supplici di Eschilo dice che il popolo ama accusare il potere (ajrch̃ς ga;r filaivtioς lewvς, 485). Gli Argivi provano compassione per le Danaidi e odiano il maschio stuolo. Infatti ognuno ha simpatia toĩς h{ssosin, per i perdenti.

Il dibattito leggi scritte o no si fa a distanza, tra le opere di Sofocle (Antigone, Edipo re), Euripide (Supplici), Antifonte sofista (Della verità la legge danneggia la vita), Isocrate (Archidamo), Alcidamante (Messeniaco), Platone (il personaggio Callicle del Gorgia: le leggi sono vincoli para; fuvsin, mentre kata; fuvsin è il diritto del più forte di prevalere 483e) e chissà quanto se ne parlava.
Cfr. per questo don Abbondio che dice a Renzo: "Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione: si tratta di forza" I promessi sposi, cap. II.
Tacito: corruptissima re publica plurimae leges, Annales, III, 27).
Per questa problematica cfr. la mia Antigone, lo scita Anacarsi in Plutarco, Vita di Solone e I Promessi sposi di Manzoni dove l'Azzeccagarbugli dice a Renzo:"Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci (…) perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente" (cap. III)   

Passiamo a II, 38, 1 del logvoς ejpitavfioς
Essere cittadino impegnato non significa non avere svaghi. Ad Atene vige una festività agonistica: abbiamo procurato pleivstaς ajnapauvlaς th̃/ gnwvmh/ moltissimi sollievi allo spirito, ajgw̃si mevn ge qusivaiς diethvsioς con agoni e feste sacre che durano  tutto l’anno  (Grandi Dionisie in primavera, Dionisie rurali e Lenee d’inverno) e anche con eleganti arredi privati il cui piacere quotidiano  scaccia il dolore.
Viene data una visione dell'Atena classica non molto diversa dall'idea dell'imperatore Giuliano di Ibsen:"Esiste un mondo splendido che voi galilei non vedete; un mondo dove la vita è una festa solenne fra belle statue e inni nei templi, con calici colmi di vino e rose fra i capelli. Ponti vertiginosi vengono gettati fra spirito e spirito"(Cesare e Galileo 1,L'apostasia di Cesare , atto primo, 1873 ).
Insomma non circenses, ma teatro quale festa e quale rito che pone l’uomo e dio, e la polis e la politica come problemi.
 
Nietzsche: “ La festa è paganesimo per eccellenza” (Frammenti potumi,autunno 1887, 268).
E’ dal dolore che si è sviluppato il desiderio di bellezza, di feste, di divertimenti. Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre (Nietzsche, Tentativo di un’autocritica, 4).
 
 
La città riceve ogni cosa da tutta la terra per la sua potenza. La fruizione dei beni quindi non è solo quella di prodotti locali (Tucidide, Storie, II, 38, 2)
 
L’accoglienza degli stranieri
 
Offriamo la nostra città come bene comune (th;n te ga;r povlin koinh;n parevcomen) per chi vuole imparare o assistere ai nostri spettacoli. Non pratichiamo xenhlasiva  (xenhlatevw, xevnoς- ejlauvnw) il bando degli stranieri  non  escludiamo alcuno dall’imparare o dal vedere (kai; oujk ajpeivrgomevn tina h} maqhvmatoς h} qeavmatoς (II, 39, 1), anche se il nemico se ne può avvantaggiare.
 

Il mito di Stato
La tragedia elabora il mito di Stato e mette in rilievo anche l’accoglienza dei supplici da parte della polis ateniese.
Per esempio negli Eraclidi (427?) Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, accoglie i supplici perseguitati da Euristeo. Nella parodo, il coro dice che è empio per una città trascurare la supplice preghiera di stranieri (107-108)
La terra ateniese da sempre vuole contribuire con la giustizia ad aiutare chi è privo di risorse: “ajei; poq j h{de gaĩa toĩς ajmhcavnoiς su;n tw̃/ dikaivw/ bouvletai proswfeleĩn” (329-330).

Arriano (95-175d. C.)  fa dire a Callistene che un fuggitivo poteva salvarsi presso gli Ateniesi che avevano combattuto Euristeo il quale perseguitava gli Eraclidi e allora tiranneggiava la Grecia: “turrannoũnta ejn tw̃/ tovte th̃ς  JEllavdoς (Anabasi di Alessandro, 4, 10, 4).

Nelle Supplici di Euripide (del 422),  Etra, la madre di Teseo incoraggia il figlio ad aiutare le donne argive le quali pregano Atene di soccorrere le madri: tu non lasci spazio all’ingiustizia e proteggi i disgraziati (vv.  379-380).

 Nell’ Edipo a Colono (rappresentata postuma, nel 401) il protagonista
dice che Atene è la città più pia, la sola capace di aiutare lo straniero maltrattato (266-267)

Quindi Isocrate nel Panegirico  (380) fa un caldo elogio di Atene, e, tra l’altro e ricorda che prima della guerra di Troia andarono nella città di Pallade gli Eraclidi e Adrasto re di Argo

Nella Tebaide di Stazio (45-96), Giunone si muove verso le mura di Atene per convincere Pallade, poi aprire Atene che è bendisposta verso i supplici pii (supplicibusque piis faciles aperiret Athenas (XII, 294)

L’articolo 10 della nostra Costituzione dice: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi politici”.
 
La capacità di improvvisare. L’educazione dei giovani ateniesi e spartani
Noi confidiamo più nel nostro coraggio verso l’azione (ejς ta; e[rga eujyuvcw/)  che nei preparativi e negli stratagemmi. E da giovani viviamo senza costrizioni hJmeĩς de; ajneimevnwς[36] diaitwvmenoi, mentre altri perseguono il valore ejpipovnw/ ajskhvsei, con faticoso esercizio (II, 39, 1).
 
Cfr. affermazioni opposte Esiodo: “davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
 Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
 Nei Memorabili[37] di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
 
Anche Spartani e Spartane del resto erano fieri della propria educazione. Gorgò, la moglie di Leonida, a una straniera che le aveva detto: solo voi donne spartane comandate sugli uomini, Gorgò rispose: “movnai ga;r tivktomen a[ndraς (Plutarco, Vita di Licurgo, 14), infatti solo noi partoriamo degli uomini.
Gorgò da bambina diede ordini perfino al padre, il re Cleomene. Lo dissuase dall’ accettare il denaro (50 talenti) che Aristagora di Mileto gli offriva in cambio di un aiuto militare (Erodoto, V, 52, 2). 
Senofonte nella Costituzione degli Spartani mette in rilievo il fatto che per quel popolo to; peivqesqai, l’obbedire nell’esercito e in casa è il bene più grande  (VIII, 2).
La disciplina dura forma  caratteri forti: il re spartano Archidamo nelle Storie  di Tucidide sostiene  gli uomini, i quali non sono poi  tanto differenti tra loro, vengono distinti dalla severa disciplina che rende più forte chi è stato educato nelle massime difficoltà:"poluv te diafevrein ouj dei' nomivzein a[nqrwpon ajnqrwvpou, kravtiston de; ei\nai o{sti~ ejn toi'" ajnagkaiotavtoi" paideuvetai"(I, 84, 4).
 
Concorda con questa affermazione del re spartano quanto scrive Nietzsche nell' Epistolario in data 14 aprile 1887:" Non c'è nulla infatti che irriti tanto le persone quanto il lasciare scorgere che noi seguiamo inesorabilmente una rigida disciplina di cui loro non si senton capaci
 
Tucidide II, 39, 2. Pericle mette in rilievo la facilità con cui gli Ateniesi vincono le battaglie (ouj calepw̃ς macovmenoi kratoũmen) quando attaccano i vicini.
 
Lo stratego non nega l’imperialismo. Cleone sarà ancora più esplicito: “turannivda e[cete th;n ajrchvn , III, 37, 2), avete un impero che è una tirannide
 
II, 39, 3. Nessun nemico ha ancora affrontato l’intera potenza ateniese per la nostra cura della flotta (dia; th;n toũ nautikoũ ejpimevleian) e per il fatto che l’esercito viene mandato in varie direzioni.
 
 II, 39, 4.
Noi Ateniesi vogliamo affrontare i rischi (ejqevlomen kinduneuveincon noncuranza (rJaqumiva/ ) piuttosto che con allenamento alle fatiche (mãllon h} povnwn melevth/) e più con l’energia dei caratteri che con le leggi.
 
 
La noncuranza
 
Dunque gli Ateniesi hanno la sovrana noncuranza del genio, la sprezzatura che è la virtù opposta all’affettazione “asperissimo scoglio” (Castiglione, Il Cortegiano).
 
Sulla noncuranza del genio scrive anche l’Anonimo autore Sul sublime che la chiama ajmevleia e la attribuisce agli scrittori  sublimi appunto come Sofocle, Pindaro, Demostene, Platone. Le loro opere contengono errori che sono in realtà sviste (paroravmata) dovute a casuale noncuranza (di j ajmevleian eijkh̃/).
 
Nel prologo dell’Andria,  Terenzio scrive che preferisce cercare di emulare la negligenza di Nevio, Plauto, Ennio, che l’oscura diligenza del malevolo vecchio poeta Luscio Lanuvino (vv. 20-21).
 
Leopardi ribadisce questa idea e approva “quella negligente e sicura e non curante  e dirò pure ignorante franchezza che è necessaria nelle somme opere d’arte” quali quelle di Omero, Dante, Ariosto.
Invece “il Parini e il Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun difetto” Zibaldone 9-10).
 
Pericle dunque esalta  negli Ateniesi la capacità di improvvisare.
 
Esiste del resto anche il tovpoς contrario che celebra la fatica (Esiodo, Alessandro Magno in Arriano etc.).  Cfr. la mia Metodologia
 
Tucidide II, 40, 1
Amiamo il bello con semplicità (Filokaloũmen met j eujteleiaς) e amiamo la sapienza (filosofoũmen) senza mollezza. La sofiva non è  il neutro sofovn , la fredda erudizione (cfr. Euripide, Baccanti, 395): sofiva è femminile, è la cultura che produce e incrementa la vita.
eujtevleia  è il basso prezzo (cfr. eu\ -tevloς) che costano le cose belle, naturali e necessarie che sono a portata di mano, come dirà Epicuro[38].
Filokaloũmen: l’amore del bello è una delle componenti principali della cultura di questo popolo di esteti. A una vita senza bellezza l’Aiace di Sofocle preferisce la morte ( Aiace, vv. 479-480). Altrettanto Antigone di Sofocle e Polissena nell’Ecuba di Euripide (v. 378).
C’è un tw̃/ pavqei mavqoς e un tw̃/ pavqei kavlloς.
 
Articolo 9 della Costituzione italiana: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
 Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione.
 
a[neu malakivaς  Pericle del resto rifiuta quella  mollis  educatio criticata da Quintiliano che pure è favorevole alle pause[39]  e al gioco[40] dei fanciulli.  "Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit"[41] quella molle educazione che chiamiamo indulgenza, spezza tutte le forze della mente e del corpo.
L’improvvisazione di cui si diceva prima può riuscire bene dopo una pausa successiva ad anni di lavoro.
 
 
Di nuovo  Tucidide  II, 40, 1: ci serviamo della ricchezza (plouvtw/crwvmeqa)  più come occasione per l’azione (e[rgou mãllon kairw̃/) che  come vanteria di parole[42] (h} lovgou kovmpw/). Non è vergogna ammettere di essere poveri (to; pevnesqai) ma è molto vergognoso non  cercare di fuggire la povertà
 
 
 
 
Tucidide II, 40, 2
 
 Il cittadino-polivthς, non può non partecipare alla vita della povliς.
 
Solo noi consideriamo (nomivzomen) non tranquillo ( oujk ajpravgmona) ma inutile (ajll j ajcreĩon) chi non prende parte alla vita politica[43] (tov te mhde;n tw̃nde metevconta).
 
Plutarco ricorda che tra le leggi di Solone era sorprendente quella che sanciva l’ajtimiva, la privazione dei diritti civili per chi in caso di sedizione non si fosse schierato da nessuna parte (Vita di Solone, 20, 1).
 
Alla direttiva del mevtecein gli oligarchici contrapposero l’esaltazione della vita privata con il ta; eJautoũ pravttein
 I professori  fascisti, ancora nel dopoguerra, dicevano: “ a scuola non si deve fare politica”.
 
 Euripide polemizza contro questa tendenza all’astensionismo politico. Il Ciclope del dramma satiresco afferma che il suo dio è la pancia e biasima i legislatori che con le leggi hanno complicato la vita umana ( oiJ de; tou;ς novmouς- e[qento poikivllonteς ajnqrwvpwn bivon, Ciclope, 338-339)-
Omero scrive che i Ciclopi non hanno assemblee deliberanti, non leggi: vivono sule cime dei monti in grotte profonde, ciascuno governa su moglie e i figli e non si curano l’uno dell’altro (qemisteuvei de; e[kastoς-paivdwn hjd j ajlovcwn, oujd j ajllhvlwn ajlevgousi,  Odissea, IX, 114-155)
Un’esistenza precivile è quella del Ciclope. Una vita disumana, dato che l’uomo è animale politico[44].
 
II, 40, 2
Non riteniamo i discorsi un danno per le azioni (ouj tou;ς lovgouς toĩς e[rgoiς blavbhn), ma è piuttosto un danno non essere informati con la parola prima di agire.
 
 II, 40, 3
Calcoliamo i rischi in maniera molto precisa, eppure osiamo . Anche in questo ci distinguiamo dagli altri (diaferovntwς kai; tovde e[comen).
 
Platone scrive: “kalo;ς ga;r oJ kivndunoς” (Fedone, 114d), bello è infatti il rischio. Il rischio di cui parla Socrate è quello di credere nei miti relativi alla sorte delle anime, dato che è chiaro che l’anima è immortale..
I miti sull’aldilà-dice il maestro di Platone- non si addicono a un uomo che abbia senno (ouj prevpei noũn e[conti ajndriv) ma, siccome è chiaro che l’anima è immortale, si addice pensare che le cose relative all’anima vadano così o in maniera simile con il giudizio dei morti e tutto il resto.
Fedone racconta a Echecrate le ultime ore di Socrate
 
Nel discorso di Pericle c’è l’orgoglio della propria diversità.
 
 
“Ma ecco, non bisogna essere come gli altri”. suggerisce Alioscia Karamazov allo studente Kolia[45]. “Continuate, dunque, a essere diverso dagli altri;  anche se doveste rimanere solo, continuate lo stesso”[46].

"Della nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una casualità priva di pensiero…E' così provinciale obbligarsi a delle opinioni che, qualche centinaio di metri più in là già cessano di obbligare…Al mondo vi è un'unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare, seguila"[47].
 
 
II, 40, 3
 Conosciamo lucidamente gli aspetti terribili e quelli piacevoli della vita, e non per questo ci tiriamo indietro dai pericoli ta; te deina; kai; hJdeva safevstata gignwvskonteς kai; dia; taũta mh; ajpotrepovmenoi ejk tw̃n kinduvnwn”.
 
Viene in mente il dionisiaco e pure l’apollineo di Nietzsche
"Con il termine "dionisiaco" si esprime: un impulso verso l'unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà, come abisso dell'oblio…un'estatica accettazione del carattere totale della vita…la grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita (…)
Con il termine apollineo si esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte (…) Lo sviluppo ulteriore dell'arte è legato all'antagonismo di queste due forze artistiche della natura così necessariamente come lo sviluppo ulteriore dell'umanità è legato all'antagonismo dei sessi. La pienezza della potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa: l'apollinismo della volontà ellenica"[48].
 
Tucidide II, 40, 4
Siamo  il contrario dei più anche per quanto riguarda l’ajrethv: infatti  ci procuriamo gli amici non ricevendo il bene, ma facendolo ( ouj ga;r pavsconteς eu\ , ajlla; drw̃nteς).
Chi fa del bene conserva cavrin, gratitudine, mentre chi lo riceve è lento a contraccambiare e teme di non potere farlo.
 
 Cfr. Edipo l’eroe della passività e Prometeo dell’attività (Nietzsche in La nascita della tragedia)
 
La cavriς è un valore molto forte della cultura greca (cfr. Teognide e l’Eracle di Euripide dove Teseo dice “cavrin de; ghravskousan ejcqaivrw fivlwn” 1223.
Oppure il Giulio Cesare di Shakespeare: “ ingratitude more strong than traitor’s arms/quite vanquished him: then …great Caesar fell” (III, 2)
O il Tito Andronico dove Tamora ex regina dei Goti dice a Saturnino di prendere tempo prima di annientare Tito che lo ha aiutato nell’ascesa al trono: rischierebbe troppo: “for ingratitude/which Rome reputes to be a heinous sin (I, 1), un peccato odioso.
 
II, 40, 5
Noi siamo i soli che portiamo aiuto a uno  senza timore (ajdew̃ς tina; wjfeloũmen) non più per il calcolo dell’utile (ouj toũ xumfevrontoς mãllon logismw̃̃/) che  per fiducia nella libertà h} th'" ejleuqeriva" pistw'/
 
II, 41, 1
Riassumendo dico che l’intera città è scuola dell’Ellade (xunelwvn te levgw thvn te pãsan povlin th̃ς j Ellavdoς paivdeusin ei\nai), una città dove ciascuno  può conservare la propria persona indipendente  a (to; swvma au[tarkeς, una specie di habeas corpus) con la massima eleganza (meta; carivtwn malist j) e con versatilità (eujtrapevlwς) aperta a molti generi di formazione.
 
 
 
II, 42, 2
Questo non è un vanto di parole (ouJ lovgwn kovmpoς) ma verità di fatti (e[rgwn ajlhvqeia). Lo dimostra la potenza stessa della città (aujth; hJ duvnamiς povlewς shmaivnei).
 
La ajlhvqeia,  “non latenza” (lanqavnw, “rimango nascosto”) e la “non dimenticanza” (lanqavnomai, “dimentico”) dei fatti è la potenza della città.
 
II, 41, 3
La nostra è l’unica città che arriva alla prova più forte della fama –ajkoh̃ς kreivsswn- e non viene biasimata né dai nemici né dai sudditi poiché non è mai indegna del suo ruolo.
Un ruolo di comando.
 
 
Il ruolo del capo
 
Caratteristiche e doveri di chi comanda
Senofonte nella Ciropedia (I, 3, 1) sostiene che il capo di buona natura si distingue per la rapidità nell’apprendere e per l’eleganza e il coraggio con cui agisce.
Anche comandare è un fatto che dipende dalla ejpisthvmh: nella Ciropedia Senofonte nota che gli uomini congiurano contro quelli di cui si accorgono che cercano di sottometterli: “ejpi; touvtou~ ou}~ a]n ai[sqwntai a[rcein auJtw'n ejpiceirou'nta~” (I, 1, 3). Eppure a Ciro il Vecchio obbedirono molti popoli  anche distantissimi dalla sua persona. Dunque non è impossibile né difficile comandare sugli uomini “h[n ti~ ejpistamevnw~ tou'to pravtth/”, se uno  lo fa in maniera accorta.
 
 
 Platone nella Repubblica  fa dire a  Socrate che un capo vero e genuino ("tw'/ o[nti ajlhqino;" a[rcwn", 347d)  deve cercare non il proprio utile, bensì quello dei governati.

Nel Politico, Platone fa dire allo straniero di Elea che l’arte politica regia è solo quella di prendersi cura dell’intera comunità umana (ejpimevleia dev ge ajnqrwpivnh~ sumpavsh~ koinwniva~, 276b).
Guidare gli uomini come fanno i pastori con gli animali, dobbiamo invece chiamarla qreptikh;n  tevcnhn, tecnica dell’allevamento, non basilikh;n kai; politikhvn tevcnhn (276c), non arte regia e arte politica.
Infatti il re e l’uomo politico è quello che si prende cura (ejpimevleian)  di uomini bipedi che liberamente l’accettano (eJkousivwn dipovdwn, 276d ).


  Manzoni ne I Promessi Sposi  afferma la persuasione "di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio ( XXII cap.).
 Così in effetti aveva insegnato un discepolo di Zenone ad Antigono Gonata re di Macedonia (276-239) cui "il regnare apparve un "onorevole servire", e[ndoxo" douleiva (Eliano, Var. hist.  II 20)"[49].
Seneca nel De Clementia  sostiene che la tanto celebrata felicità del principe consiste nel dare salvezza a molti, nel richiamare la vita dalla morte stessa e nel meritare la corona civica con la clemenza:"Felicitas illa multis salutem dare et vitam ab ipsa morte revocare et mereri clementia civicam "(III, 24, 5). 
Tra i moderni, in E. Fromm troviamo una posizione simile a quella, già indicata, di Manzoni:"Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe viltà"[50].

Non proprio questo però era il ruolo di Atene nei confronti dei sudditi.

II, 41, 4. Siamo e saremo ammirati dai posteri senza avere bisogno né di un Omero elogiatore (oujde;n prosdeovmenoi ou[te   JOmhvrou ejpainevtou) né di chiunque altro  che diletterà con i versi sul momento ( ou[te o{stiς e[pesi me;n to; aujtivka tevryei).
 Cfr. cto; mh; muqw'de" di I, 22, 4" e la  mancanza del favoloso di questi fatti , verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto".-) e, subito dopo, “infatti  come un possesso per l'eternità più che come declamazione da udire  per il momento di una gara, essa è composta”.


Alessandro invece avrebbe voluto essere cantato da Omero: “cum in Sigeo ad Achillis tumulum adstitisset, “o fortunate, inquit, adulescens, qui tuae virtutis Homerum praeconem inveneris! (Cicerone, Pro Archia, 24)


Oggi il politico ha bisogno non di un Omero che lo celebri, ma della televisione che gli dia visibilità.

La verità metterà nudo quanto è solo presunto e noi saremo ammirati per avere reso tutto il mare e la terra accessibile (ejsbatovn) alla nostra audacia (th̃/ hjmetevra/ tolmh/)) avendo edificato ovunque (II, 41, 4)

  Il secondo coro (vv. 301-379)[51] della Medea di Seneca, viceversa,  maledice la navigazione come attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit auris/ dubioque secans aequora cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter vitae mortisque vias/nimium gracili limite ducto"  (vv. 301-308), audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti/ e fendendo gli spazi marini con rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole guidato sul confine troppo sottile tra le vie della vita e della morte
 Il primo a violare il mare è stato Giasone la cui audacia  ha trovato degni antagonisti nei  freta perfida.
Audax nimium (v. 301) è ripreso da avidus nimium navita (v. 326), il marinaio che, troppo avido, vuole ormai tutti i venti. "L'avverbio è segnale esplicito e 'tecnico' del motivo della hybris dell'uomo che 'forza' la natura"[52].


II, 41, 5
Per una tale città dunque, perché non venisse loro tolta, i nostri concittadini morirono combattendo nobilmente gennaivwς .
 
II, 42,1
Mi sono dilungato per insegnarvi –didaskalivan te  poiouvmenoς- che il nostro agone per una tale città non è lo stesso che hanno altri.
Componente didascalica e agonistica.

Nietzsche scrive:"Indizi di una natura aristocratica: non degradare mai i propri doveri, pensando che siano i doveri di tutti; non voler rinunciare mai alla propria responsabilità e non volere dividerla con nessuno"[53].

II, 42, 2
Il valore dei morti ha reso belle le mie parole. Il discorso corrisponde ai fatti.

II, 42, 3
Quei morti possono avere compiuto anche azioni meno belle ma hanno fatto sparire il male con il bene e recarono pubblico vantaggio-koinw̃ς wjfevlhsan-più di quanto abbiano danneggiato con i loro vizi privati
Il privato conta meno del koinovn. Noto l’eleganza di schivare il luogo comune del de mortuis nihil nisi bonum.

II, 42, 4
Nessuno di loro si rammollì (ejmalakivsqh) godendo della ricchezza, né rimandò il pericolo, ma stimò questo cimento il più nobile dei rischi (kinduvnon kavlliston) .
Preferirono soffrire (paqeĩn) che salvarsi cedendo (h] to; ejndovnteς sw/vzesqai) e nella brevissima occasione offerta dal destino se ne andarono al colmo della gloria.

Vediamo qui l’ideale eroico del non cedere (Achille nell’Iliade, Callino e Tirteo (VII secolo).
Il guerriero piantato in prima fila è xuno;n ejsqlovn, un bene comune per la città e il popolo. Muore combattendo in prima fila con i piedi ben fissati al suolo e mordendo il labbro con i denti ceĩloς ojdoũsi dakwvn (Tirteo, fr. 10 W. 32)
Pindaro nell’Olimpica I scrive oJ mevgaς de; kivndunoς a[nalkin ouj fw̃ta lambavnei (vv. 82-83)
L’Achilleide di Stazio racconta l’educazione del Pelide da parte di Chirone che spingeva il ragazzo a battere nella corsa i cervi veloci e i cavalli dei Lapiti  (II, 111-113)
L’eroe non cede (Achille in Iliade XIX, 423 ouj lhvxw, non cederò) e Pericle nel terzo discorso della fine estate del 430 dice che Atene ha grandissima rinomanza tra gli uomini dia; to; taĩς xumforaĩς mh; ei[kein,  (II, 64, 3) per il fatto che non cede alle disgrazie.
Platone nel Fedro dice che hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche quelli che fanno prevalere la parte migliore dell’anima: l’auriga aiutata dal cavallo bianco. I due non devono cedere al cavallo nero.

Ma Leopardi nello Zibaldone sostiene che “l’eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto” (471). Enea è meno bello di Achille che dà in escandescenze.

II, 43, 1
Questi caduti furono tali da convenire alla città (proshkovntwς th̃/ povlei ejgevnonto)
Le hanno dato un vantaggio. Il sumfevron vale quanto il kalovn. I vivi devono seguire il loro esempio

II, 43, 2
Dando la loro vita per il bene comune hanno ricevuto una lode che non invecchia (ajghvrwn e[painon ejlavmbanon) e una tomba dove la gloria rimane indimenticabile, ma hanno quel sepolcro in cui la loro fama rimane memorabile in ogni occasione che si presenta di parlare e di agire. Infatti degli uomini illustri la terra intera è sepolcro (ajndrw'n ga;r ejpifanw'n pa'sa gh' tavfo~). 
 

Simonide  elogia Leonida e  i suoi   opliti morti per ritardare l'avanzata di Serse (fr.5 D.):
"dei morti alle Termopili
gloriosa è la sorte, bello il destino,
un altare è il sepolcro (bwmo;~ d j o tavfo~), e invece dei lamenti c'è il ricordo, e il compianto è un encomio (oi\kto~ e[paino~)
Un sudario del genere né ruggine
né il tempo che tutto doma (oJ pandamavtwr crovno~[54]) oscurerà.
Questo recinto sacro di uomini prodi si prese
come custode la gloria dell'Ellade: lo testimonia anche Leonida
re di Sparta che ha lasciato un grande ornamento
di valore, e fama perenne.

In  tempi moderni, oltre Leopardi che traduce letteralmente bwmo;~ d j o tavfo~ con "la vostra tomba è un'ara" (All'Italia , v.125), l'episodio torna diverse volte nella poesia.

  In quella ottocentesca italiana di spirito patriottico-risorgimentale: prima di Leopardi,  Foscolo nel carme Dei Sepolcri  (98) ricorda che le tombe erano "are a' figli".


Nell’Eracle di Euripide,  il Coro dei vecchi Tebani dice: il valore delle imprese nobili è l’ornamento dei morti (“gennaivwn d j ajretai; povnwn toĩς qanoũsin a[galma” (357-358).


II, 43, 3
Ogni terra è tomba degli uomini insigni il cui ricordo aleggia ovunque.

II, 43, 4
Considerate felicità la  libertà e la libertà coraggio e non abbiate paura della guerra.

Felicità invero è la coincidenza tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. L’infelicità è lo squilibrio tra la potenza e l’atto.

II, 43, 5-6
Più dolorosa della morte è la sventura con la debolezza morale.

II 44, 1
Morire può coincidere con essere felici. Quei morti hanno compiuto la vita felicemente.

 Cfr. La sapienza silenica

II, 44, 2-3-4
I genitori dei morti devono consolarsi pensando alla gloria. I più giovani possono avere la speranza di altri figli. La gloria non invecchia ed essere onorati è il guadagno più grande

II 45, 1-2
I morti hanno lasciato un grande esempio e una grande gara ai figli e ai fratelli (oJrw̃ mevgan to;n ajgw̃na). Cfr. La mentalità agonistica dei Greci.
Il vanto delle donne sarà non essere inferiori alla loro natura,  e buona sarà la reputazione di quella la cui rinomanza in lode o biasimo sarà minima tra gli uomini.

II, 46, 1-2
I sepolti sono stati onorati e i loro figli saranno mantenuti a spese pubbliche. Ora che avete pianto abbastanza, andate a casa.

II, 47, 1
Tale discorso cadde nell’inverno (431-430) e, passato questo, finiva il primo anno di guerra.
 
 
Ultimo discorso di Pericle (II. 60-64) e giudizio di Tucidide sull’uomo
 
Nel 430 ci fu la seconda invasione (deutevra ejsbolhv, 2, 59) dell’Attica da parte di Archidamo, quindi la peste (hJ novso") che infuriava. Gli Ateniesi volevano venire a patti con i Lacedemoni e accusavano Pericle di averli persuasi a fare la guerra.
Pericle dice che si aspettava la loro collera (ojrghv) e per questo ha convocato l’assemblea (kai; ejkklhsivan touvtou e{neka xunhvgagon, 2, 60). Dice che non è corretto prendersela con lui.

Pericle ricorda di essere filovpoliς te kai; crhmavtwn kreivsswn (II, 60,  5) amante della città e superiore al denaro. La guerra è stata decisa da tutti.
La guerra era necessaria per non cedere.
“ Io sono sempre il medesimo, dice, e non cambio “kai; ejgw; me;n oJ aujtov" eijmi kai; oujk ejxivstamai”,  ha un’identità sicura,  che non muta, mentre talora varua quella volubile del popolo. Ora voi siete inficiati da debolezza di pensiero (ejn tw'/ uJmetevrw/ ajsqenei' th'" gnwvmh"): vedete i mali presenti e non i vantaggi lontani. La vostra mente è meschina (tapeinh; uJmw'n hJ diavnoia)  e non ha la forza di tener duro (ejgkarterei'n) nelle decisioni.  Dovete pensare alla salvezza comune consolandovi dei lutti privati. Atene ha il dominio assoluto del mare e nessuno puà ostacolarlo. La terra devastata in confronto a tele dominio marittimo è come un giardinetto khpivon o un oggetto ornamentale (ejgkallwvpisma, 2, 62, 3) fornitoci dalla nostra ricchezza. Se saremo sudditi di altri, ne verrà limitata la libertà, se invece la salveremo, ricostruiremo ciò che abbiamo perduto. Non dobbiamo apparire inferiori ai nostri padri (patevrwn ceivrou")  e andare contro i nemici non solo con sicurezza ma con disprezzo (mh; fronhvmati movnon, ajlla; kai; katafronhvmati). La iattanza, la vanagloria (au[chma) può esserci anche in un vile, ma il disprezzo katafrovnhsi" solo in chi ha fiducia nella propria superiorità di cui ha la piena coscienza (hJ xuvnesi"). 
Allora è giusto che non evitiate le fatiche necessarie agli onori (povnoi-timaiv cfr. l’Iliade). Non potete tirarvi indietro dall’impero (ajrch'" ejksth'nai, 2, 63). wJ" turannivda ga;r h[dh e[cete aujthvn, oramai l’avete come una tirannide, e averlo preso può sembare ingiusto, ma lasciarlo sarebbe pericoloso. L’inerzia infatti non salva-to; ga;r a[pragmon ouj swv/zetai se non è schierata con l’attività e non conviene in una città che comanda ma in una che è suddita.
Gli attacchi dei nemici erano previsti, la pestilenza no.
Bisogna sopportare come necessità (ajnagkaivw") quello che viene dagli dei e virilmente (ajndreivw") quanto viene dagli uomini, Questo è nell’ e[qo", nell’abitudine della nostra città che ha una grandissima rinomanza tra gli uomini proprio perché non cede alle sventure (dia; to; tai'ς xumforaĩς mh; ei[kein 64, 2) e perché ha speso in guerra vite umane e fatiche. Per questo è diventata ricchissima e grandissima. Saremo oggetto di biasimo dagli accidiosi, di emulazione e invidia dalle persone attive. I più forti non si abbattono nelle difficoltà e resistono con energia.
Il popolo non mandò più ambascerie a Sparta ma multarono Pericle. Tuttavia lo rielessero stratego. Morì due anni e sei mesi dopo lo scoppio della guerra, alla fine del 429,

Tucidide  apprezza Pericle: la sua provnoia, gli faceva prevedere che bisognava curarsi della flotta e non correre rischi (II, 65, 6-7).
Nella veduta tucididea la politica è l’arte della previsione.
Temistocle è l'eroe di questa intelligenza laica: egli che "oijkeiva/ xunevsei" appunto, con la sua facoltà di capire, era "tw'n te paracrh'ma di j ejlacivsth" boulh'" kravtisto" gnwvmwn", ottimo giudice della situazione presente attraverso un rapidissimo esame" e "tw'n mellovntwn ejpi; plei'ston tou' genhsomevnou a[risto" eijkasthv"" (I, 138, 3), e ottimo a congetturare il futuro per ampio raggio in quello che sarebbe accaduto. Prevedeva benissimo i danni o i vantaggi quando erano ancora avvolti nell’oscurità: “tov te a[meinon h] cei'ron ejn tw/' ajfanei' e[ti proewvra malista”.
 "Per questo più che lo stesso Pericle,  è Temistocle il politico per eccellenza, il modello e insieme l'ideale: colui nel quale l' eijkavzein , il ricavare per indizi dall'esperienza del passato l'orientamento per l'azione, è dote naturale (oijkeiva xuvnesi"), come Tucidide si esprime nel memorabile elogio che gli dedica al termine del racconto della sua vicenda estrema"[55].

Dopo la sua morte, gli Ateniesi vennero fuorviati dai demagoghi
Tucidide fa l'elogio finale di Pericle dicendo che lo statista, per il fatto di essere chiaramente e assolutamente incorruttibile dal denaro (crhmavtwn te diafanw'~ ajdwrovtato~[56] genovmeno~ , II, 65, 8) , teneva in pugno la massa lasciandola libera ("katei'ce to; plh'qo" ejleuqevrw"").
 
plh`qo~ sono i cittadini che formano la massa dell’assemblea popolare, la parte più “democratica” del popolo, in contrapposizione con correnti più conservatrici o anche oligarchiche”[57].
 
Pericle era dunque superiore al denaro. Plutarco scrive che rese la città da grande grandissima e superò in potere molti re e tiranni, ma non accrebbe di una sola dracma il suo patrimonio privato, quello ricevuto in eredità dal padre: “miã/ dracmh̃/ meivzona th;n oujsivan oujk ejpoivhsen” ( Vita, 15, 3)
 
Confronto tra Pericle e Alcibiade che non realizzò i piani del suo predecessore.
Verso la fine delle Storie di Tucidide si legge che Alcibiade, quando (nel 411) la flotta di Samo si accingeva a navigare contro Atene, fermò i marinai nel momento in cui nessun altro sarebbe stato capace di trattenere la folla:"kai; ejn tw'/ tovte a[llo" me;n oujd  j  a]n   ei\~ iJkano;" ejgevneto katascei'n to;n o[clon"(VIII, 86, 5); egli però fu responsabile dell'impresa fallimentare di Sicilia che, a giudizio di Tucidide, fu "peggio di qualsiasi delitto; fu un errore politico o meglio una serie d'errori"[58].
Sulla vita privata non irreprensibile di Alcibiade, Tucidide afferma che aveva desideri troppo grandi rispetto alle sue ricchezze, sia per l'allevamento di cavalli sia per le altre spese:" ejpiqumivai" meivzosin h] kata; th;n uJpavrcousan oujsivan ejcrh'to e[" te ta;" iJppotrofiva" kai; ta;" a[lla" dapavna""(VI 15, 3); e, per questo essendo criticabile, non poteva permettersi a lungo l'arroganza con cui diceva:"Kai; proshvkei moi ma'llon eJtevrwn, w\    jAqhnai'oi, a[rcein"(VI 16, 1), spetta a me Ateniesi, più che ad altri comandare.
Pericle  poteva contrastare il dh'mo" fino a spingerlo all'ira (kai; pro;" ojrghvn, II, 65, 8) poiché era inattaccabile nelle questioni di denaro:"ciò gli dava l'autorità di dire al popolo la verità, anziché piaggiarlo. Egli ebbe sempre le redini in pugno: se la moltitudine voleva romper la cavezza, egli sapeva imporlesi e intimidirla; se era abbattuta, sapeva rianimarla. Così Atene sotto di lui, "non era più una democrazia che di nome, ma in realtà era l'imperio del primo uomo"[59].
Tucidide usa un'espressione ( " ejgivgnetov te lovgw/ me;n dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou' prwvtou ajndro;" ajrchv", II, 65, 9) per la quale Jaeger nota che "la teoria filosofica posteriore, della costituzione mista quale ottima forma di Stato, è qui anticipata da Tucidide. La "democrazia" ateniese non è per lui la realizzazione di quell'esteriore eguaglianza meccanica che gli uni esaltano quale apice della giustizia, gli altri condannano quale suo opposto"[60].
La democrazia ateniese del tempo di Pericle, nel discorso epitafico di Aspasia riferito da Socrate nel Menesseno  di Platone è un’aristocrazia con il consenso della massa: “met j eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa” (238d).
Costituzione mista fu per Tucidide quella del governo dei 5000 del 411. La definisce infatti metriva xuvgkrasiς, misurata mescolanza di oligarchia e democrazia (VIII, 97, 2)
 Canfora scrive di “ Il meccanismo della circolarità masse-capi….Il demo crede di imporre il proprio volere ma è il capo che lo pilota, anche attraverso i “retori minori”…Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”[61].
Alexis De Tocqueville nota che “Atene, con il suo suffragio universale, non era dunque, dopotutto, che una repubblica aistocratica in cui tutti i nobili avevano eguale diritto di governo”[62]. Era insomma una aristocrazia democratica, e, per certi versi, socialista.  
 
“Pericle è considerato in particolare come colui che “reggeva saldamente la folla, pur nella libertà, e la guidava più di quanto non fosse da essa guidato” (II 65, 8), colui che aveva trasformato, quasi insensibilmente e senza pregiudizio alcuno per i cittadini, la democrazia vigente ad Atene in una sorta di regime personale: “a parole si trattava dunque di una democrazia, ma in realtà del governo del primo cittadino” (II 65, 9). Approvare in pieno e con entusiasmo la politica periclea, per un ateniese del tempo di Tucidide, significava sostanzialmente accettare le due realtà che ne costituivano le emanazioni più dirette: il regime democratico e l’impero. Qualche riserva, tuttavia, Tucidide esprime sia sulla politeia democratica, sia sul ruolo imperiale della città. Per quanto riguarda la democrazia, la questione è abbastanza semplice: lo storico manifesta con insistenza giudizi negativi e talvolta vero e proprio disprezzo nei confronti delle masse, che gli appaiono incompetenti, incostanti e volubili (cfr. II 65, 4; IV 28, 3; VIII 97, 2); di conseguenza, la sua adesione ad un regime che prevedeva e consentiva di fatto la partecipazione di tutti i cittadini al governo dello Stato era necessariamente subordinata alla esistenza di una qualche forma di controllo delle forze popolari. Uno dei grandi meriti di Pericle era stato appunto quello di avere esercitato una funzione di controllo sulla massa.
Il giudizio espresso a proposito del governo dei Cinquemila instaurato nel 411 a. C. costituisce un preciso riscontro a questa interpretazione della posizione politica di Tucidide: “allora per la prima volta, almeno per quanto riguarda i miei tempi, gli Ateniesi risultarono retti da un governo assai buono. Si ebbe, infatti, una moderata combinazione fra gli oligarchici e la massa e ciò contribuì più di ogni altra cosa a sollevare la città da una situazione che era diventata brutta” (VIII 97, 2).
Morto Pericle , vennero alla ribalta personaggi che non solo non erano in grado di esercitare alcuna funzione di controllo, ma subivano anche forti condizionamenti dalla massa ed erano più inclini a compiacerla per soddisfare le ambizioni personali che a contrastarla per salvaguardare i superiori e generali interessi dello Stato (II 65, 10).
 “Soltanto un regime di democrazia moderata o di oligarchia allargata, che comportava l’estromissione dalla vita politica di una parte consistente della cittadinanza sulla base dell’assenza della necessaria qualificazione censitaria, poteva incontrare l’approvazione e il plauso di Tucidide”[63].
 
 La guerra dunque fu persa per la mancanza di Pericle, il vero capo nell'antico senso solonico, mentre i suoi successori commisero una serie di sbagli, soprattutto quello di fare la spedizione in Sicilia:" hJmarthvqh kai; oJ ej" Sikelivan plou'""(II 65, 11) senza avere assegnato a chi partiva i mezzi sufficienti. Per giunta seguirono calunnie e discordie tra gli Ateniesi. Eppure, dopo la catastrofe siciliana, Atene resistette per dieci anni ai tanti nemici, a quelli di prima, e a quelli che si aggiunsero in seguito alla sconfitta, compreso il figlio del re di Persia, Ciro (il Giovane) :"  o}" parei'ce crhvmata Peloponnhsivoi" ej" to; nautikovn" (Tucidide, II 65, 12) il quale forniva ai Peloponnesiaci il denaro per la flotta, fatto che segnò la fine della guerra e, dal punto di vista della letteratura, che è il nostro, provocò la chiamata a raccolta di tutte le energie contro i Persiani da parte di Euripide nell'Ifigenia in Aulide  in particolare, quando la ragazza proclama la necessità della guerra santa contro i barbari di Oriente (vv. 1397-1401 che vedremo più avanti).
 
 
Isocrate: “e[sti ga;r yuch; povlewς oujde;n e{teron h] politeiva, tosauvthn e[cousa duvnamin o{shn per ejn swvmati frovnhsiς.
Au{th gavr ejstin hJ bouleuomevnh peri; aJpavntwn kai; ta; me;n ajgaqa; diafulavttousa, ta;ς de; sumfora;ς diafeuvgousa» (Areopagitico[64], 14), infatti la costituzione non è altro che l’anima della città, in quanto ha una potere tanto grande quanto la mente sul corpo. E’ lei infatti che decide su tutto, conserva i successi, evita le congiunture negative
giovanni ghiselli, Bologna 25 ottobre 2015
 
p. s. L’uomo è animale politico[65]:  l’uomo impolitico è animale tout court
Nel febbraio del 2013 ho aperto un blog
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Continua

Giovanni ghiselli


Esporrò questo percorso il 24 giugno alle 18, 30, in piazza Verdi a Bologna




 

 


 

  






 
[1] M.Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 30.
[2] Nel secondo canto del poema più antico, Odisseo, simile a Zeus per intelligenza (Διὶ μῆτιν ἀτάλαντον, v. 169) riceve da Atena il compito di trattenere la fuga dell’esercito acheo da Troia con blande parole (ἀγανοῖς ἐπέεσσιν, v. 180). La dea per rivolgersi all’eroe utilizza un epiteto formulare (πολυμήχανος, v. 173, ricco di risorse) il quale lo caratterizza come uomo intelligente e capace.
[3] J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, p. 48.
[4] Fu scoperto da Fedime, figlia di Otane. Ciro aveva fatto mozzare gli orecchi del Mago Smerdi per una grave colpa  (III, 69) e Fedime, che il falso Smerdi aveva ereditato come moglie da Cambise, una notte si accorse di questa mutilazione, quindi lo riferì al padre che le aveva ordinato di scoprirla.
Il vero Smerdi,  figlio di Ciro e fratello di Cambise, lo aveva ucciso Pressaspe per ordine dello stesso Cambise che aveva fatto un sogno ingannevole.  Cambise era morto dopo essersi ferito, involontariamente, da solo. Pressaspe dopo morte di Cambise si era ucciso, e il Mago Medo  Smerdi aveva usurpato il potere persiano
 
 I Sette nobili persiani conosciuta l’usurpazione, si riunirono per congiurare contro l’usurpatore (III, 70)- Dario è il più deciso dei Sette e vuole agire subito.
Otane vorrebbe prendere tempo ma Gobria appoggia  la proposta di Dario : siamo comandati da un Medo, dice kai; touvtou w\ta oujk e[contoς (III, 73) e uno senza orecchi. Per giunta Cambise morendo aveva lanciato una maledizione di sterilità se avessero lasciato che i Medi riprendessero il potere ( cfr. III, 65). Allora tutti approvarono Gobria. I Magi cercarono di far dichiarare a Pressaspe, il quale aveva ucciso il vero Smerdi per ordine di Cambise,  che la Persia era governata dal figlio di Ciro. Speravano che lo facesse perché Cambise aveva ucciso il figlio di Pressaspe con un colpo di freccia e quindi il padre doveva odiare gli Achemenidi. Ma Pressaspe disse la verità: che lui per ordine di Cambise aveva ucciso Smerdi e che i Magi avevano preso il regno. Poi si uccise. I Sette andarono alla reggia dove poterono entrare dato il loro rango. Poi ci fu una battaglia: Intafrene perse un occhio. Dario uccise il Mago.
[5] Otane, Intafrene, Gobria, Megabizo, Aspatine, Idarne, Dario
[6] Erodoto, Le Storie, libro III, La Persia, Fondazione Valla, Milano, 1990, p. 297.
[7] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 17.
[8] eu[quna, correzione; eujquvnw, raddrizzo, eujquvς, dritto.
[9] Il tiranno è invidioso. Infatti L'Invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
[10] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[11] Del 98 d. C.
[12]D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico., p. 47.
[13]De Catilinae coniuratione , 7.
[14] a[rcein.. xu;n  fovboisi (v. 585), già citato
[15]C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca  , p. 170.
[16] Il quale ridusse a unità il popolo dei Medi e lo governò. (Erodoto, Storie, I, 101). Venne scelto come re dotato di potere assoluto poiché era stato capace di porre termine alle ruberie e ai disordini con i suoi giudizi (Erodoto, I, 96 ss.) (ndr)
[17]Coefore  461:" [Arh"  [Arei xumbalei', Divka/ Divka".
[18]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , I, p. 175.
[19] Moses I. Finle, La democrazia degli antichi e ei moderni, p. 26.
[20] G. Orwell, 1984, p. 219.
[21] D. Musti, Storia greca, p. 447.
[22]Participio perfetto medio di keivrw.
[23]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.
[24] Temistocle a Salamina (480)
[25] Socrate nel Fedro afferma che probabilmente Pericle è stato il più perfetto nell’oratoria.
[26] Nel 427, Diodoto parlando contro Cleone, dice che i discorsi sono maestri dei fatti (lovgoi didavskaloi tw`n pragmavtwn Tucidide,  III, 42, 2)
[27] Svetonio ricava il famoso “il dado è tratto” da Asinio Pollione
[28] L’occasione è necessario acciuffarla poiché è “calva di dietro”.
[29] Ma l’aujtavrkeia assoluta non è possibile come capisce il Duvskoloς di Menandro  quando cade in un pozzo (“credevo di essere aujtavrkhς”, 713 ss.). Ha voluto pensarlo vedendo l’egoismo degli altri, l’attenzione che tutti rivolgono al profitto. Era regredito in una esistenza precivile da Ciclope
 
 
[30] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[31] Lettera a una professoressa, p. 55.
[32] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.
[33] Del 411 a. C.
[34] Forma poetica equivalente a kevkthtai.
[35]Rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.
[36] Cfr. ajnivhmi, “lascio ”, indica la sovrana negligenza del genio che non deve prepararsi con duro esercizio ma può improvvisare, o almeno sa dare questa impressione. Cfr. l’ajmevleia dell’Anonimo Sul sublime e la sui neglegentia di Petronio (Annales, XVI, 18)
[37] Scritto socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[38] Nell’ Epistola a Meneceo   Epicuro scrive che, tra i desideri (tw'n ejpiqumiw'n), alcuni sono naturali (fusikaiv), altri vani (kenaiv) e tra i naturali alcuni sono anche necessari (ajnagkai'ai, 127); ebbene tutto ciò che è  naturale è a portata di mano:"to; me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti” (130) . Ciò che è vano invece è difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston.
 
 
[39] E' comunque necessario concedere qualche intervallo a tutti:"Danda est tamen omnibus aliqua remissio" Inst., I, 3, 8.
.
[40] Dove i pueri manifestano più schiettamente le inclinazioni di ciascuno:"mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt " Quintiliano, Institutio oratoria., I, 3, 8.
 
[41] Quintiliano,  Inst., I, 2, 6.
[42] Cfr. l’ajpeirokaliva degli arricchiti come Trimalchione e quella di certi pezzenti televisivi o pure della vita quotidiana: quelli che vantano e spesso millantano millantano vacanze a Cortina e soggiorni in suite di alberghi prestigiosi. Io mi vanto delle mie notti negli ostelli di Olimpia e di Micene dove arrivo in bicicletta. 
[43] Cfr. la tradizione elegiaca latina dove l’amore sottrae il poeta ai negotia del civis e  del miles,  collocandolo nella nequitia, inettitudina, di chi si sottrae ai doveri politici e militari
 
[44] Celeberrima è la definizione aristotelica dell'uomo quale fuvsei politiko;n zw'/on, l'uomo per natura è animale politico e chi vive fuori dalla comunità, per natura e non per qualche caso, non vale nulla oppure è superiore all'umano ("fau'lov" ejstin h]  kreivttwn h] a[nqrwpo"", Politica , 1253 a).
 
[45] Quello che rifiutava i classici. Evidentemente glieli facevano male.
[46] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 668.  Cito spesso questo romanzo, tante volte quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in questa scelta l’amico Piero Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire di quell’anno 1’anno 1968…mi feci regalare da una coppia di amici l’Odissea greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora, naturalmente, con il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora, e per almeno dieci anni, ho riletto il poema, nell’originale e in traduzione italiana o inglese, ogni anno: insieme ai Fratelli Karamazov, era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 45).
[47] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III (1874), Schopenhauer come educatore, p  167.
[48] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888-14
[49]Pohlenz, La Stoa , p. 33.
[50]Psicanalisi Della Società Contemporanea , p. 299.
[51] In dimetri anapestici (quattro piedi anapestici). Sono monometri (due piedi anapestici) i versi 317, 328, 379.
[52] G. B. Conte, op. cit., p. 346.
[53]Di là dal bene e dal male , Che cosa è aristocratico, 272
[54] Nella prima scena di Love’s Labour’ s lost (del 1595) Ferdinando re di Navarra definisce il tempo “cormorant devouring Time” (I, 1), il cormorano che ci divora.
  In Pericle, principe di Tiro (1608) “Time ‘s the king of men;/He’s both their parent and he is their grave,/And gives them what he will, not what they crave” (II, 3), il Tempo è il re degli uomini, è insieme il loro padre e la loro tomba, e dà loro ciò che vuole, non quello che essi desiderano.
 
 
[55]Canfora ,Antologia Della Letteratura Greca , II vol., p. 459.
[56] Si pensi ai basilh'~ dwrofavgoi, i re divoratori di doni,  cui Esiodo chiede di raddrizzare i giudizi (Opere, 263-264).  
 
[57] Avezzù, Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 216.
[58]Jaeger, Paideia , I vol., p. 677.
[59] Jaeger, op. cit., p. 680.
[60]Op. cit. p. 684. La costituzione è un nutrimento di uomini (trofh; ajnqrwvpwn), di persone buone, se è buona, di individui malvagi se è cattiva.
Quella ateniese ha nutrito uomini di valore.
p. 198
Essa non esclude nessuno per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure preferisce alcuno per i motivi contrari. I medesimi pregi vengono attribuiti alla “sua” democrazia  dallo stesso Pericle nel discorso che gli attribuisce Tucidide in Storie II 35 sgg. quando lo stratego fa l’encomio dei caduti nel primo anno di guerra e l’elogio di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41)
 
[61] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59
[62] La democrazia in America, p. 479
[63] Mauro Moggi, Op. cit., p. 2303-2304.
[64] Il principale scritto di politica interna di Isocrate,  del 356 a. C. Propone di restituire all’Areopago i poteri di tutela sulla vita politica che aveva prima della riforma di Efialte (461 a. C.). Ne abbiamo una traduzione di Leopardi
[65] . Celeberrima è la definizione aristotelica dell'uomo quale fuvsei politiko;n zw'/on, l'uomo per natura è animale politico e chi vive fuori dalla comunità, per natura e non per qualche caso, non vale nulla, oppure è superiore all'umano ("fau'lov" ejstin h] kreivttwn h] a[nqrwpo"", Politica , 1253 a).


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