venerdì 30 ottobre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", VI parte

Dioniso
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Capitolo X (pp. 71-75)

Le figure famose della scena greca come Edipo e Prometeo sono tutte maschere di Dioniso. L’unico Dioniso dunque appare in una molteplicità di personaggi  che hanno la maschera dell’eroe in lotta preso nella rete della volontà individuale. Dioniso dunque appare come un individuo che lotta e che soffre. Ma è il dio che soffre il dolore dell’individuazione che è la fonte e la causa prima di ogni sofferenza.
Dalle lacrime di Dioniso sono nati gli uomini, dal suo sorriso gli dèi olimpici. Egli fu fatto a pezzi dai Titani e in questo stato venne venerato come Zagreus.  E’ la versione orfica della nascita di Dioniso-Zagreus. (in Nonno di Panopoli IV-V sec., Dyon. 6. 165-176 e in frammenti orfici).
Le Dionisiache constano di 48 libri e più di 20 mila versi
In quanto dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvaggio e di un dominatore mite e dolce (p. 72).
Cfr. Iliade VI, 130-140 Diwvnuso~ fobhqeiv~ (135) duvseq  j aJlo;~ kata; ku`ma, le Baccanti di Euripide e le Rane di Aristofane.
Per i poeti il mito è come una parola contenuta in un dizionario: quando essa entra in un testo, mantiene soltanto uno dei suoi possibili significati.
Così avviene per Dioniso
Arriano ci fa sapere che gli Ateniesi venerano un altro Dioniso,  figlio di Zeus e di Core, e il canto Iacco dei misteri viene intonato a questo dio, non a quello tebano (Anabasi di Alessandro, 2, 16, 3).
Così forse si spiega la differenza tra il Dioniso feroce delle Baccanti e quello di Omero, un dio impaurito (Iliade, VI, 135 Diwvnuso" de; fobhqeiv" ) e infantile, che, minacciato da Licurgo, si getta in mare dove Tetide lo accolse in seno spaventato e tremante per le grida dell’uomo. Poi c’è  il Dioniso ridicolo delle Rane di Aristofane. In questa commedia il dio  fugge terrorizzato da Empusa tra le braccia del suo sacerdote (v. 297). Più avanti Dioniso si caca addosso dalla paura di Empusa (v. 479) e viene apostrofato dal servo Xantia  con:" oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uomini!"(v. 486). Empusa era un fantasma del corteggio di Ecate. Beveva (cfr. ejmpivnw) il sangue degli uomini.
Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “ Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc.” Sono personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni…che non perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”[1].
Woody Allen fa dire a un personaggio del film Crimini e misfatti (1989): “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più del tempo, nel senso che con il passare del tempo i fatti tragici possono diventare ridicoli. 
  Dioniso era comunque un altro modello per Alessandro Magno,  che talora manifestava crudeltà e ferocia, talora delicatezza d’animo, talora anche volgarità.
“Se, dunque, “i miti sono soggetti a mutamento sotto la pressione che su di loro esercita la storia”[2], mi sembra anche che la letteratura, prefigurandole, profetizzi le circostanze, che essa crei in ogni caso quell’ ‘immaginario’ il quale a sua volta condiziona le vicende del reale storico”[3].
Gli epopti, gli iniziati speravano nella rinascita di un terzo Dioniso come fine dell’individuazione. N. ricava forse ancora da Nonno che Demetra immersa in eterna tristezza si rallegra quando le si dice che può ancora una volta generare Dioniso.
La dottrina misterica della tragedia è la concezione dell’individuazine come causa prima del male. L’arte dà la lieta speranza che il dominio dell’individuazione possa essere spezzato, l’arte come presentimento di una ripristinata unità (p. 73).

"In nulla al mondo, infatti, io credo così profondamente, nessun'altra idea mi è più sacra di quella dell'unità, l'idea che l'intero cosmo è una divina unità e che tutto il dolore, tutto il male consistono solo nel fatto che noi, singoli, non ci sentiamo più come parti inscindibili del Tutto, che l'io dà troppa importanza a se stesso. Molto dolore avevo sofferto in vita mia"[4].

L’epos omerico, si diceva, è la poesia con cui la cultura olimpica intona il suo canto di vittoria sui terrori per la lotta dei Titani
Ma nella tragedia i miti omerici appaiono trasformati da una concezione ancora più profonda. Alla fine della trilogia prometeica, Zeus si allea con il Titano così la cultura titanica viene riportata dal Tartaro  alla luce.
"Il sereno mondo omerico è libero da fantasmi...il vivo è lasciato in pace dai morti"[5], o, se vogliamo ricordare Carducci, "Non paure di morti ed in congreghe/diavoli goffi con bizzarre streghe"[6].

I miti del mondo omerico con Eschilo devono accogliere la mitologia inferiore e la filosofia della natura selvaggia.

Fu la forza erculea della musica a liberare Prometeo dai suoi avvoltoi e a trasformare il mito in un veicolo di sapienza dionisiaca. Il mito correva il rischio di rattrappirsi nella ristrettezza di una pretesa realtà storica.

Le religioni si estinguono quando i presupposti mitici vengono sistematizzati come eventi storici e il mito pretende di avere una fondatezza storica. Allora il mito morente fu afferrato dal genio della musica dionisiaca e fiorì ancora una volta mandando un profumo  che suscitava il presentimento struggente di un mondo metafisico. Ma dopo questa rinascita il mito declina, le sue foglie appassiscono e i beffardi luciani dell’antichità cercano di ghermirne i fiori scoloriti e inariditi. La tragedia giunta al suo significato più profondo si solleva ancora una volta come un eroe  ferito e nell’occhio gli arde un ultimo potente bagliore.

L’empio Euripide il sacrilego Euripide cercò di costringere ancora una volta questo eroe a servirlo e il mito morì tra le sue braccia violente, Lo sostituì, nel dramma euripideo un mito mascherato che cercava di adornarsi con l’antica pompa come la scimmia di Ercole. 
Con Euripide moriva il mito e moriva anche il genio della musica. Euripide la saccheggiava a piene mani da tutte le parti ma giunse a una musica imitata e mascherata. Aveva abbandonato Dioniso e anche Apollo abbandonò Euripide. I discorsi dei suoi eroi sono scritti nel linguaggio di una dialettica sofistica  e hanno passioni imitate e mascherate


Capitolo XI  (pp. 75-82)

La tragedia greca morì suicida e alla sua morte si produsse un enorme vuoto. Per il mondo ellenico risuonò il lamento sulla morte della tragedia. Aristofane, nelle Rane del 405,  fa scendere Dioniso nell’Ade per riportare sulla terra uno dei tre grandi. Alla tragedia succedette la commedia attica nuova  che aveva i lineamenti della madre nel momento della sua lotta con la morte. La commedia di Filemone, Difilo e Menandro è la forma degenerata della tragedia. Gli autori di questa commedia veneravano Euripide al punto che Filemone (360-265) si sarebbe impiccato subito per poter visitare Euripide agli Inferi. Euripide insegnò a questi suoi epigoni a portare lo spettatore sulla scena, mostrare con realismo la maschera fedele della realtà. Euripide porta sulla scena l’uomo della vita quotidiana; lo specchio che prima mostrava solo i tratti grandi e arditi faceva ora vedere anche le linee non riuscite della natura. Odisseo, il tipico greco dell’arte antica, si abbassò nella figura del greculo che poi divenne nella commedia latina lo schiavo bonario e scaltro.
Leopardi nello Zibaldone  (pp. 41-42) indica, insieme con altri testi, un frammento di Filemone come esempio del fatto che "il ridicolo degli antichi comici...consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole...quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace...quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel Zeu;" ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i gr. e lat. inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone comico".
Leopardi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10-16 dello Stratiwvth", dove Filemone stabilisce un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli altri dopo avere arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo nel becco qualche cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene incalzata da un'altra che vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno". 

Euripide nelle Rane di Aristofane si ascrive a merito di avere liberato l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza.
Il personaggio Euripide battibecca con il personaggio Eschilo e dice di avere ricevuto da lui th;n tevcnhn l’arte tragica oijdou`san gonfiata dalle vanterie e da parole pesanti (uJpo; kompasmavtwn kai; rJhmavtwn ejpacqw`n, 940) e di averla snellita e di averle tolto il peso (i[scnana me;n prwvtiston aujth;n kai; to; bavro~ ajfei`lon, 941) con pargolette e discussioni (ejpullivoi~ kai; peripavtoi~, 941)
Inoltre Euripide si vanta di avere insegnato alla gente a chiacchierare (lalei`n ejdivdaxa, 954) poi rivendica l’introduzione di regole sottili leptw`n te kanovnwn eijsbolav~ e la rifinitura di parole (ejpw`n te gwniasmouv~. 956), poi ha insegnato a pensare (noei`n), vedere (oJra`n) capire (xunivenai) meditare (strevfein) amare (ejra`n),  ordire (tevcnazein), sospettare male (kavc j uJpotopei`sqai), considerare tutto (perinoei`n a[panta) 957-958
Insomma, continua Euripide, portavo sulla scena cose di casa (oijkei`a pravgmat j , quelle che usiano oi|~ crwvmeq j, 959).
Cicerone nelle Tusculanae Disputationes scrive che ab antiqua philosophia numeri motusque tractabantur,  e l’origine e la dissoluzione delle cose e grandezze, distanze, orbite delle stelle et cuncta caelestia,  tutti i fenomeni celesti. Questo usque ad Socratem.
  Socrates autem primus philosophiam devocavit e caelo et in urbibus collocavit et
in domus etiam introduxit et coegit de vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere
 (V, 4, 10).

Schlegel come Aristofane incolpa Euripide per questo realismo che considera corruttore. Gli sviamenti di Euripide sono analoghi a quelli del nostro secolo: le tragedie di Euripide”ammolliscono gli animi per via di  nozioni dolci e tenere in apparenza, ma in realtà corruttrici, e tendono in realtà a produrre degli increduli nel fatto della morale” (p. 100)
Schlegel pensa che Platone criticando i poeti formulasse accuse che devono applicarsi soprattutto a Euripide i cui versi “ abbandonano gli uomini all’impero delle passioni e li ammolliscono facendo prorompere gli eroi in lamenti smoderati” (p. 101 trad. it il Melangolo. Giovanni Gherardini)
“Egli volle gratificare i suoi contemporanei trasportando nei secoli eroici gli usi popolareschi più moderni (p. 104)…Si rese familiari i sofismi delle passioni, per mezzo dei quali si riesce a far comparire bella ogni cosa.
 Si è più volte citato questo verso di Euripide, in cui pare sia stata espressa la restrizione mentale (direzione dell’intenzione) de’ Gesuiti
Giurava il labro ma taceva il core” (p. 195). E’ Ippolito che dice alla nutrice di Fedra hj glw`ss j ojmwvmoc  j, hJ de; frh;n ajnwvmoto~ (Ippolito. 612)

Torniamo a Nietzsche.
“In sostanza lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena euripidea il suo sosia” (p. 77). Euripide, quale personaggio delle Rane, si compiace di avere insegnato allo spettatore a discutere “con le più furbe sofistificazioni”.
Con questo repentino capovolgimento del linguaggio pubblico egli rese possibile la commedia nuova.
Dalla scena parlava ora la mediocrità cittadina. L’aristofanesco Euripide arriva a vantarsene. Se tutta la massa filosofava era merito suo. Euripide era diventato il maestro e il regista della commedia nuova che è uno spettacolo di tipo scacchistico con il suo continuo trionfo della furberia e della scaltrezza (p. 78).

A proposito di “spettacolo di tipo scacchistico” cfr. A game of chess, la seconda  parte di The waste land di Eliot dove il canto dell’usignolo non evoca più il mito della metamorfosi di Filomela by the barbarous king-so rudely forced, e sebbene continui a risuonare, a riempire i deserti, il mondo sente solo jug jug con dirty ears (vv. 99-103).

I poeti tragici erano morti e con loro la tragedia.
Per la tarda antichità vale il noto epitaffio: “in vecchiaia frivolo e capriccioso”.
 Predomina ora il quinto stato: quello dello schiavo e la serenità greca è la serenità dello schiavo che non sa aspirare a nulla di grande. Al primo cristianesimo questo vile appagarsi del comodo godimento parve spregevole e sembrò il vero e proprio sentimento anticristiano.
 Questa serenità dell’ellenismo è una serenità da vecchi e da schiavi (cfr. la scelta di Odisseo nel mito di Er).
 Ma Euripide in vita non ebbe successo, diversamente da Eschilo e soprattutto da Sofocle. Euripide non rispettò il pubblico ateniese, a parte due spettatori quali giudici competenti e maestri di tutta la sua arte.
 Uno di questi due è Euripide stesso, Euripide quale pensatore , non come poeta. Egli come critico trovava in ogni verso di Eschilo qualcosa di incommensurabile, una infinità dello sfondo. Le figure avevano dietro di sé come una coda di cometa. Nel linguaggio eschilèo egli trovava troppa pompa per situazioni semplici, troppe metafore e forzature rispetto alla semplicità dei caratteri. Da spettatore confessò a se stesso di non capire i suoi grandi predecessori. Guardandosi intorno Euripide vide l’altro spettatore che non capiva la tragedia, Socrate, e in lega con costui iniziò l’immane opera contro l’arte di Eschilo e Sofocle.


continua



[1] Hegel, Estetica, p. 1618.
[2] H. Fisch, Un futuro ricordato, Bologna, 1988, p. 8.
[3] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 34.
[4]H. Hesse, La Cura (del 1925) , p. 77.
[5]Rhode, op. e p. citata sopra.
[6] Il comune rustico , vv. 10-11.
414 De Clementia ,  III, 1. 

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