giovedì 15 ottobre 2015

Ulisse nella letteratura europea, IV parte

Nietzsche ventenne
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Nietzsche su Odisseo
“Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa - benedicendola, più che restandone innamorati"[1].
“Prima di Euripide, si aveva a che fare con uomini eroicamente stilizzati, dei quali subito si riconosceva l’origine dagli dèi e dai semidei della tragedia più antica…Con Euripide balza sulla scena lo spettatore, l’uomo nella realtà della vita di ogni giorno. Lo specchio, che in precedenza aveva riflesso solo i caratteri grandi e nobili, si fece più realistico e perciò più volgare…Quella figura assolutamente tipica dell’uomo greco, la figura di Odisseo, Eschilo l’aveva innalzata al livello d’un Prometeo magnanimo, astuto e nobile; tra le mani dei nuovi poeti decadde al ruolo dello schiavo domestico bonario e scaltro che così spesso sta al centro del dramma come grande intrigante. Ciò che Euripide nelle Rane di Aristofane si attribuisce a merito, cioè d’aver svuotato l’arte tragica e la sua gravità attraverso una cura termale, vale anzitutto per la figura degli eroi; in sostanza, lo spettatore, sulla scena euripidea vedeva e ascoltava il suo doppio, sia pur coperto dell’abbigliamento sfarzoso della rteorica”[2].
“Anch’io sono stato agli inferi, come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte, e non solo montoni ho sacrificato per poter parlare con i morti; bensì non ho risparmiato il mio stesso sangue”. Nietzsche menziona 4 coppie: Epicuro e Montaigne, Goethe e Spinoza, Platone e Rousseau, Pascal e Schopenhauer. “Vogliano i vivi perdonarmi se essi talvolta mi sembrano delle ombre.. Ma è l’eterna vitalità che conta!”[3].
Omero liberò i Greci dalla pompa asiatica; ma nei Greci incombe sempre il pericolo di una ricaduta nell'asianismo che ogni tanto si abbatte su di loro con un fiume di emozioni mistiche. Noi li vediamo sommergersi, vediamo l'Europa come spazzata via, inondata, ma essi tornano sempre alla luce, da buoni nuotatori e tuffatori quali sono, essi, il popolo di Odisseo. [4]
Ideale greco. Che cosa ammiravano i Greci in Odisseo? Innanzitutto la capacità di mentire e quella della scaltra e terribile rappresaglia; il suo essere all’altezza delle circostanze; l’apparire - all’occorrenza - più nobile dei nobilissimi; il poter essere quel che si vuole; l’eroica perseveranza[5]; il procurarsi la disponibilità di ogni mezzo; l’avere spirito - il suo spirito riscuote l’ammirazione degli dèi, essi sorridono nel pensarci: tutto questo è l’ideale greco!”[6].


Appendice
Il mito di Er nella Repubblica di Platone. (Il giudizio delle anime nel Gorgia). La scelta del destino.
Voglio rivedere e illustrare estesamente questo mito che mi sta molto a cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al nostro carattere una volta che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie possibilità.
Er, Panfilio di stirpe, era morto in guerra, ma al dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira, tornò in vita e raccontò quello che aveva visto nell’aldilà (Platone, Repubblica, 614b).
Er disse che l’anima, quando esce dal corpo, si incammina, con molte altre, verso un luogo soprannaturale eij~ tovpon tina; daimovnion, un prato, dove ci sono due voragini (cavsmata. 614c) contigue, nella terra, e altre due nel cielo di fronte, in alto.
In mezzo a queste aperture siedono dei giudici i quali ordinano ai giusti di procedere in alto a destra attraverso il cielo (eij~ dexiavn te kai; a[nw dia; tou` oujranou`) e agli ingiusti di precipitare in basso a sinistra.
A Er i giudici dissero che doveva osservare e divenire nunzio agli uomini delle cose dell’aldilà (a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai tw`n ejkei`, 614d).
Er dunque vedeva parte delle anime giudicate che salivano verso il cielo per una delle due voragini volte in alto, parte scendevano nella terra attraverso la voragine aperta verso il basso, mentre dalle altre due aperture contigue scendevano dall’alto anime pure, e salivano dal basso anime piene di lordura e di polvere (ejk th`~ gh`~ mesta; ~ aujcmou` te kai; kovnew~).

Le anime giunte sul prato (eij~ to; n leimw`na, 614e) vi si attendavano come per un consesso festoso e si salutavano, quante si conoscevano.
Quelle che venivano da sotto terra rievocavano piangendo il loro viaggio ipogeo di mille anni (ei\nai de; th; n poreivan cilievth, 615).
Quelle che venivano dal cielo invece facevano un racconto di delizie e di spettacoli straordinari per la bellezza (eujpaqeiva~ dihgei`sqai kai; qeva~ ajmhcavnou~ to; kavllo~).
I puniti raccontavano che di ogni ingiustizia avevano pagato il fio dieci volte tanto, ossia avevano subito dolori dieci volte maggiori di quelli inflitti, e i premiati corrispettivamente ricordavano che pure i benefici erano stati ricompensati in misura dieci volte maggiore.
Più grandi erano le retribuzioni per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per le uccisioni di propria mano.

Il giudizio delle anime nel Gorgia di Platone
Nel Gorgia c’è il racconto del giudizio delle anime. In questo dialogo Socrate dice a Callicle, il sofista fautore del diritto del più forte, che al tempo di Crono e all’inizio del regno di Zeus, c’erano giudici viventi che giudicavano uomini ancora vivi, emettendo sentenze nel giorno in cui era destino che i giudicati morissero. Ma i giudizi erano errati (kakw`~ ou\n aiJ divkai ejkrivnonto, 523b). Così succedeva che nel carcere del Tartaro finissero i giusti e nelle isole dei beati i malvagi. Zeus comprese che gli errori giudiziari dipendevano dal fatto che i giudici vivi emettevano sentenze su dei vivi, e questi potevano trarre in inganno poiché le anime malvagie erano rivestite con corpi attraenti, autorizzate da stirpi illustri, coperte da ricchezze, e aiutate da molti testimoni che davano false testimonianze (523c).
 I giudici ne restavano impressionati e condizionati.
Allora Zeus disse che gli uomini non dovevano conoscere in anticipo il giorno della loro morte. Inoltre sarebbero stati giudicati del tutto privi di orpelli, cioè da morti. Anche il giudice doveva essere nudo e morto, così da penetrare direttamente con lo sguardo nell’anima di ciascun giudicato. E veniva vietato il seguito di parenti.
 Zeus designò quali giudici tre figli suoi: Minosse[7] e Radamanto[8] per i provenienti dall’Asia, Eaco[9] dall’Europa. Il giudizio doveva avere luogo nel prato di asfodeli, ejn th`// triovdw/ ejx h|~ fevreton tw; oJdwv (524a) nel triodo dal quale si dipartono due vie: una porta all’isola dei beati, l’altra al Tartaro[10].
Socrate prosegue il racconto ricordando a Callicle che i cadaveri conservano segni della vita vissuta. Se uno da vivo aveva le membra rotte o contorte (kateagovta mevlh h] diestrammevna, 524c), tali deformità sono evidenti anche nel cadavere. Ebbene, questo avviene anche per l’anima che prende delle segnature secondo il modo di comportarsi degli uomini.
Quando il Gran Re d’Asia, per esempio, o un altro sovrano si presenta davanti a Radamanto, questo vede che l’anima di molti dinasti è piena di piaghe (oujlw`n mesthvn) causate da spergiuri e ingiustizia (uJpo; ejpiorkiw`n kai; ajdikiva~, 525a) che marchiano l’anima.
Tutto è distorto dalla menzogna e dalla impostura e non c’è nulla di retto poiché l’anima è cresciuta lontana dalla verità (pavnta skolia; uJpo; yeuvdou~ kai; ajlazoneiva~ kai; oujde; n eujqu; dia; to; a[neu ajlhqeiva~ teqravfqai).
Radamanto vedendo l’anima piena di disordine e bruttura (ajsummetriva~ te kai; aijscrovthto~ gevmousan), la caccia direttamente e con ignominia nel carcere dell’Ade, dove subirà i giusti patimenti.
Le anime curabili, qui nella terra e nell’Ade, traggono giovamento dalle sofferenze e dai dolori. E’il tw`/ pavqei mavqo~ di Eschilo[11].
Ma ci sono anche quelli che hanno coomesso ingiustizie estreme e per queste sono diventati incurabili (ajnivatoi525c), ebbene questi restano sospesi nel carcere dell’Ade a fare da esempi negativi: la visione delle loro pene diventa un monito per quelli che li vedono. La maggior parte di questi esempi negativi sono tiranni, re, dinasti e politico.
Omero ha voluto significare questo collocando tra i tormenti dell’Ade Tantalo, Sisifo e Tizio[12]. Tersite e altri che furono malvagi da privati cittadini, non subiscono pene eterne. Socrate ne deduce che i più malvagi appartengono al numero dei potenti, anche se non è detto che tutti i potenti siano dei farabutti. Alcuni sono delle eccezioni alla regola della loro casta e sono da ammirare poiché è meritorio vivere da persone giuste avendo la possibilità di fare del male.
Del re di Persia in precedenza Socrate aveva detto a Polo che ignorava se fosse felice in quanto non sapeva come stesse a educazione e a giustizia (ouj ga; r oi\da paideiva~ o{pw~ e[cei kai; dikaiosuvnh~, 470e). Sono questi i criteri di giudizio della felicità.
Fine dell’excursus sul Gorgia.

Torniamo alla Repubblica platonica e al mito di Er.
Un esempio negativo molto evidente di cui Er aveva sentito dire era quello del grande criminale Ardieo (jArdiai`o~ oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di quelli così inguaribilmente malvagi (ti~ tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si avvicinavano alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to)
Allora intervenivano uomini a[grioi, diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che afferravano tali delinquenti e li portavano via. I pessimi come Ardieo, venivano legati mani, piedi e testa, buttati a terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e gettati nel Tartaro.

Dopo sette giorni passati nel prato dunque, le anime destinate a tornare sulla terra dovevano viaggiare per quattro giorni finché giungevano in un luogo da dove vedevano dall’alto una luce diritta (fw`~ euquv) distesa per tutto il cielo e la terra (dia; panto; ~ tou` oujranou` kai; gh`~) come una colonna (oi|on kivona, 616c), molto simile all’arcobaleno, ma più fulgida e pura. Questa è l’anima del mondo.
Le anime degli umani camminavano un altro giorno e, arrivati a metà della luce, vedevano teso dalle due estremità il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon jAnavgkh~ a[trakton), l’asse dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti circolari. Il fuso aveva otto fusaioli (ojktw; ga; r ei\nai tou; ~ xuvmpanta~ sfonduvlou~, 616d), i contrappesi del fuso, racchiusi gli uni negli altri.
Questi fusaioli rappresentano il cielo delle stelle fisse e i sette pianeti. Partendo dall’esterno: Stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna. Così nel Timeo. E’l’ordine pitagorico.
 Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananche.
Su ognuno dei fusaioli circolari che rotavano lentamente incedeva in alto una Sirena sumperiferomevnhn (617b) tratta anch’essa nel moto circolare mentre emetteva una voce in armonia con quella delle altre sette.

Le anime adunate dunque vedevano l’asse dell’universo.
Le Moire
Sedevano in trono tre persone diverse dalla folla: le figlie di Ananche, le Moire vestite di bianco e con dei serti (stevmmata, 617c) sul capo.
Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo che cantavano sull’armonia delle sirene.
 Lachesi cantava ta; gegonovta, il passato, Cloto ta; o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.
Le tre Moire[13] accompagnavano con la mano i moti del fuso.
Le anime dovettero presentarsi a Lachesi, quella che dà le sorti.
Quindi un portavoce (profhvth~) dispose in fila la folla, poi prese delle sorti, dei modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi.
Infine il profhvth~, salito su un’alta tribuna, diede voce al pensiero di Lachesi, la vergine figlia di Ananche (jAnagkh" qugatro; " kovrh" Lacevsew" lovgo~).
 Disse: “Questo è l’inizio di un altro ciclo di mortalità della razza mortale, e non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi sceglierete il demone  (“oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617 e).
Chi è sorteggiato a scegliere per primo (prw`to~ d j oJ lacw; n prw`to~ aiJreivsqw bivon, non senza contraddizione), prenda per primo la vita cui sarà congiunto”.
 La parola di Lachesi aggiunge che la virtù è senza padrone (ajreth; de; ajdevspoton, 617e) e ciascuno ne avrà di più o di meno, a seconda che la apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta[14], non la divinità” (aijtiva eJlomevnou: qeo; ~ ajnaivtio~ (617 e).

Riferite queste parole, il portavoce di Lachesi gettò le sorti (tou; ~ klhvrou~) - sono quelle del turno della scelta - e ognuno tirò su quella che aveva vicino to; de; par j auJtovn -.
 Er non poté farlo. Questa “scelta” dunque è condizionata.
Quindi il prfhvth~ mise in terra davanti a loro svariati modelli di vite: umane e di animali.
C’erano vite di tutti i tipi, e anche mescolanze di tipi.
Il profhvth~ aggiunse che anche chi sceglieva per primo non doveva essere negligente e l’ultimo non doveva scoraggiarsi ma scegliere con senno: mhvte oJ a[rcwn aiJrevsew~ ajmeleivtw mhvte oJ teleutw`n ajqumeivtw (619b).

 Socrate che fa questo racconto a Glaucone, fratello di Platone, gli dice che bisogna studiare soprattutto come scegliere la migliore tra le vite possibili.
Buona è la vita che tende alla giustizia, cattiva quella che va verso l’ingiustizia. Bisogna essere refrattari a lasciarsi colpire dalle ricchezze e da simili malanni come la tirannide. Bisogna fuggire tutti gli eccessi in entrambi i sensi (feuvgein ta; ujperbavllonta eJkatevrwse, 619).

Er raccontò che il primo scelse la tirannide senza accorgersi che questa racchiude il destino di mangiare i propri figli e altre sciagure. Poi se ne avvide e si mise a piangere. Quest’uomo veniva dall’apertura nel cielo poiché aveva vissuto la vita precedente in uno Stato bene ordinato praticando la virtù, per abitudine, senza filosofia (e[qei a[neu filosofiva~, 619d).
Era più facile che scegliessero precipitosamente e sbagliassero quelli scesi dal luogo beato, in quanto inesperti di travagli (a{te povnwn ajgumnavstou~), mentre quelli che venivano dalla terra, siccome erano tribolati e avevano visto altri soffrire, non facevano la scelta ejx ejpidromh`~ in modo affrettato.
Di nuovo il tw`/ pavqei mavqo~.
Così c’era una permuta di beni e di mali.
Ma se uno in vita filosofa, poi la sua scelta non cade tra le ultime, è facile che quest’uomo abbia due buone vite di seguito.
Comunque, dice Er, lo spettacolo era degno di essere visto, uno spettacolo pietoso, ridicolo e meraviglioso (qevan ajxivan ijdei`n kai; geloivan kai; qaumasivan, 620).
Vediamo però che la scelta non è del tutto libera siccome è condizionata dalle quantità di sorti rimaste disponibili quando tocca scegliere a ciascuno secondo il numero d’ordine raccolto in precedenza. Inoltre le anime erano condizionate dalle esperienza fatte nella vita precedente.

Vediamo come ripetendo, forse non inutilmente, quanto scritto sopra.
Aiace Telamonio scelse la vita di un leone poiché rifuggiva dal nascere uomo in quando ricordava il giudizio delle armi (620b).
Agamennone, per avversione al genere umano, scelse la vita di un’aquila. Orfeo, scelse la vita di un cigno non volendo nascere da grembo di donna mivsei tou` gunaikeivou gevnou~, in odio del genere femminile per la morte sofferta dalle donne[15].
Il buffone Tersite scelse la natura di una scimmia.
L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e amante del quieto vivere ("bivon ajndro; " ijdiwvtou ajpravgmono"", Repubblica 620c).
La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che l’avrebbe presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.

Quindi Lachesi diede a ciascuno come custode (fuvlaka) il demone (daivmona, 620d) che si era scelto. Poi Cloto Atropo e Ananche confermavano le scelte e le rendevano immutabili.
In seguito le anime venivano portate attraverso una terribile calura e arsura fino al fiume Amelete perché ne bevessero l’acqua. Una certa misura era obbligatoria. I meno prudenti ne bevevano più della misura (plevon tou` mevtrou, 621) e mentre bevevano scordavano tutto. Infine si addormentavano, scoppiava un tuono e le anime venivano spinte a una nuova nascita. filando come stelle cadenti.
A Er era stato impedito di bere e non sapendo come, si era trovato il mattino sulla pira. Socrate commenta il mito con poche parole dicendo che per entrare nell’apertura e nella via che va in alto bisogna praticare sempre la giustizia in modo da essere cari a noi stessi e agli dèi qui in terra e dopo, nel viaggio millenario di cui si è detto (621d)

Questo mito è un’immagine concentrata del nostro destino di mortali. A me piace molto, e pur essendo una fantasia, credo che la sua bellezza contenga anche una verità: che noi dobbiamo vivere in sintonia con il nostro daivmwn che è il destino ed è pure il carattere.
Eraclito con il suo stile lapidario insegna che l’uomo e il suo destino coincidono: “ h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[16]”.
Se davvero noi abbiamo scelto sia pure con delle limitazioni, il verso di questa vita prima di nascere, non lo so. So però che ciascuno di noi eredita delle predisposizioni e che sta in ciascuno di noi assecondarle o contrastarle secondo la direzione (trovpo~) che intendiamo dare alla nostra vita. Voglio fare notare che la parola greca trovpo~ significa tanto “verso”, “direzione”, quanto carattere.
Il nucleo dell’infelicità è tradire il proprio destino. Se veniamo rinnegati dal nostro demone, non c’è scampo all’infelicità.

"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità… Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[17].
"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[18].
“Nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell’uomo che è sfuggito al suo genio”[19].
Sconcio in greco si dice ajeikhv~, ossia non eijkov~ che è la cosa neutra che non assomiglia, è l’uomo oggetto non somigliante a se stesso.
Ognuno deve individuare il proprio destino, o ricordarlo secondo il mito di Er, quindi amarlo poiché ciascuno è il proprio destino e l’uomo, se vuole realizzarsi, deve diventare quello che è.
Lo prescrive la somma del pensiero educativo di Pindaro: “gevnoio oi|o~ ejssiv” (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.

Sentiamo anche Nietzsche
Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist meine innerste Natur[20].
 “L’individuo è un frammento di fato da cima a fondo”[21].
"Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[22].

Inoltre: "La nostra origine è nei miti: tutti i miti sono di origine"[23].
Può trattarsi dell’origine di un’usanza, di un nome, di un culto, di una città, come spesso nella poesia ellenistica, ma può riguardare anche la nostra genesi di persone.
Il mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone ci ricorda che prima di venire sulla terra ci siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità è, etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn. Se non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva eJlomevnou: qeo; ~ ajnaivtio~” (Repubblica, 617e), responsabile è chi ha fatto la scelta, il dio non lo è. E’quello del resto che afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea: “ Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il destino (uJpe; r movron) " (vv. 32 - 34).
 Durante la vita terrena "ci resta accanto un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell'anima…Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[24].
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[25].

A Odisseo si può attribuire la duplicità che Curi assegna ai Labdacidi.
Egli è segno di contraddizione, come abbiano visto. Curi interpreta Edipo come oida - pous e oidos –pous. Oi\da (so) e oi\do~ gonfiore. Ne fa una verace icona della duplicità, un endiadi, uno in due: e{n dia; duoi`n. La stirpe di Edipo è “fin dalle origini marchiata col segno di una ineliminabile duplicità” (Umberto Curi Endiadi Figure della duplicità Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, p. 24)
Nel XIX canto dell’Odissea, si trova un'etimologia del nome di Odisseo: Autolico chiede alla figlia Anticlea e al genero Laerte di chiamare il loro figliolo neonato jOduseuv" (v. 409) poiché dal Parnaso “vengo qui provando odio per molti, uomini e donne sulla terra nutrice”: "polloi'sin ga; r ejgwv ge ojdussavmeno" tovd j iJkavnw, - ajndravsin hjde; gunaixi; n ajna; cqovna polubovteiran" (vv. 407 - 408). Questa l'etimologia non ha valore scientifico; eppure ne ha uno educativo: questo bambino nato sotto l'insegna dell'odio, cresciuto con un nome che contiene l'odio, diviene un atleta in difesa della vita. Almeno nell’Odissea.


Giovanni Ghiselli
g. ghiselli@tin.it>
5 ottobre 2015




[1]Di là dal bene e dal male, Aforismi e interludi.
[2] Nietzsche, Socrate e la tragedia (conferenza del 1870), in Verità e menzogna, p. 52.
[3] Umano, troppo umano II, p. 120.
[4] Cfr. Umano troppo umano II, p. 78.
[5] Cfr, poluvtla~ (Odissea, 5, 354)
[6] Nietzsche, Aurora, p. 185.
[7] Cfr. Odissea, XI, 568 - 571, Virgilio, Eneide, VI, 432 e Dante Inferno, V, 34 e sgg.
[8] Cfr. Odissea, IV, 563 - 565
[9] Cfr. Pindaro, Istmica VIII, 26
[10] Cfr. Virgilio, Eneide VI: hic locus est, partis ubi se via findit in ambas,
Questo è il luogo dove la via si divide in due parti.
E continua:
la destra che tende sotto le mura del grande Dite,
per di qua la nostra via verso l’Elisio; ma la sinistra dei malvagi
mette in atto le pene e all’empio Tartaro invia”.
[11] Agamennone, v. 177.
[12] Cfr. Odissea, XI, 576 - 600.
[13] Cfr. per Lachesi lagcavnw “ricevo in sorte” e, causativo, “concedo”, “sorteggio”; per Cloto klwvqw, “filo”; per Atropo trevpw “volgo” preceduto da aj - privativo, quindi l’inflessibile. Cfr. La vita rustica di Parini /1758) : “ Perché turbarmi l’anima, - O d’oro o d’onor brame, - Se del mio viver Atropo - Presso è a troncar lo stame, - E già per me si piega - Sul remo il nocchier brun - Colà donde si nega - Che ci ritorni alcun?” (vv. 1 - 8)
[14] E’l’afferrmazione della responsabilità degli uomini, già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea: "Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi! Da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino (uJpe; r movron). Così anche ora Egisto oltre il destino (uJpe; r movron) si prese la moglie legittima dell’Atride, e lo ammazzò appena tornato. Si può dunque andare contro il destino. Cosa impossibile nella tragedia.
pur sapendo della morte scoscesa, poiché gliela predicemmo noi,
mandando Ermes, l’Argifonte dalla vista acuta,
di non ammazzarlo e di non corteggiarne la sposa:
infatti da Oreste ci sarà la vendetta dell’Atride,
quando sia adulto e desideri la sua terra.
Così diceva Ermes, ma non persuadeva la mente
Di Egisto, pur pensando al suo bene; e ora tutto insieme ha pagato” (vv. 32 - 43). 
[15] Cfr. Virgilio, Georgica IV: spretae Ciconum quo munere matres - inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi - discerptum latos iuvenem sparsere per agros” (vv. 520 - 522) spregiate da questa fedeltà (a Euridice) le donne dei Ciconi fra riti religiosi e le orge di Bacco notturno, sparsero per i vasti campi il giovane fatto a pezzi.
[16] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo
[17] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.
[18] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.
[19] Nietzsche, Schopenhauer come educatore, III inattuale (1874), p. 166.
[20] F. Nietzsche, Ecce homo (del 1888), Il caso Wagner, p. 92.
[21] Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Morale contronatura 6.
[22]Nietzsche, Umano troppo umano, II Il viandante e la sua ombra, pp.. 155 - 156. Uscito nel 1878. “Fu concepito come una quinta “considerazione inattuale”, intitolata Il vomere,, ma poi fu trasformato nel libro di aforismi che conosciamo” (S. Giametta, Introduzione a Nietzsche, p. 236).
[23] J. Hillman, Il piacere di pensare, p. 52.
[24] James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53 - 54.
[25] J. Hillman, Il codice dell'anima, p. 112. 

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