domenica 25 ottobre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", IV parte

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Capitolo VII  (pp. 50-56)
L’origine della tragedia

La tragedia è sorta dal coro tragico. Lo scrive Aristotele nella Poetica.
Tragedia e commedia nacquero da un principio di improvvisazione (ajp j ajrch'~ aujtoscediastikh'~, Poetica, 1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo:"ajpo; tw'n ejxarcovntwn to;n diquvrambon[1], mentre la commedia da quelli che dirigevano i canti fallici i quali rimangono ancora oggi in uso in molte città"(Poetica , 1449a, 12).
Nietzsche condivide questa ipotesi mentre rifiuta le frasi retoriche correnti : che il coro era lo spettatore ideale o che doveva rappresentare il popolo di fronte alla regione regale della scena, come se il coro rappresentasse l’immutabile legge morale dei democratici ateniesi. Ma da quelle origini puramente religiose e umane va esclusa la contrapposizione tra popolo e re e in genere qualsiasi sfera politico sociale.
Non sono d’accordo: le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide hanno contenuti schiettamente e fortemente politici (cfr. p. e. i Persiani (472) e l’Orestea (458) di Eschilo, l’Edipo a Colono (rappresentata postuma nel 401) di Sofocle,  le Supplici (422) e le Fenicie (411) di Euripide.
Bestemmia è parlare di un presentimento della rappresentanza costituzionale del popolo che non era conosciuta in praxi nemmeno dalle costituzioni statali.
A.W. Schlegel[2] ci raccomanda di considerare il coro “lo spettatore ideale”, come fosse il compendio e l’estratto della folla degli spettatori.
“insomma il Coro era lo spettatore ideale; egli moderava le impressioni eccessivamente violente o dolorose di un’azione talvolta troppo vicino alla reatà, e offrendo al vero spettatore il riflesso delle sue proprie commozioni, gliele tramandava addolcite dalla vaghezza di un’espressione lirica e armoniosa, e lo immergeva nella regione più tranquilla della contemplazione” ( Corso di letteratura drammatica,  trad. di Giovanni Gherardini[3], il Melangolo, p. 61)
 Un’affermazione rozza e non scientifica ma brillante. Ha avuto fortuna grazie al pregiudizio germanico favorevole a tutto ciò che è chiamato ideale  e grazie al nostri stupore momentaneo. Il pubblico  è consapevole di assistere a un spettacolo e prova un godimento estetico, mentre il coro delle Oceanine del Prometeo, p. e. crede di vedere davanti a sé Prometeo e ritiene reale anche se stesso. Tanto più che il coro, la forma primitiva della tragedia, era senza scena, senza spettacolo e senza spettatori.

Più pregevole Schiller nella prefazione alla Sposa di Messina (1803) che “considerava il coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica (…) L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte...Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro della tragedia originaria; è un terreno  molto al di sopra del sentiero reale dei mortali... La tragedia si è sviluppata su questo fondamento e certo già per questo è stata fin dal principio dispensata da una penosa riproduzione della realtà…Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto ...il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo,  che Stato e la società, e in genere gli abissi  fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura.  La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia-lo dico fin d’ora- per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze,  indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi  "[4].

Insomma l'uomo moderno "non è se non un centauro storpio e mutilato il quale ricostituisce il mito primitivo riconnettendo indissolubilmente il suo genio all'energia atroce della natura"[5].
Né è falso quanto afferma Bernardin De Saint-Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente piena di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[6].
Quanto alla “consolazione metafisica”, la cui scomparsa Nietzsche in La nascita della tragedia, attribuisce a Euripide[7], quale colpa, nel Tentativo di autocritica aggiunto nel 1886 a quest’opera giovanile , essa verrà ripudiata come un errore dovuto alla prolissità della giovinezza appunto, all’influenza del romanticismo e del cristianesimo: “metafisicamente consolati, insomma come finiscono i romantici, cristianamente…No! Dovreste prima imparare l’arte della consolazione dell’al di qua”.
Ma torniamo alle pagine e alla consolazione metafisica della stesura del 1872
“Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé la vita…In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini [8]. La conoscenza uccide l'azione, per agire occorre essere avvolti nell'illusione"[9].
L'arte però ci salva dalla negazione della volontà:"Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime come repressione artistica dell’atrocità e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo, ecco l'azione salvatrice dell'arte greca "[10].   
 Il coro "può essere inteso soltanto come causa  della tragedia e del tragico in genere"[11].


Capitolo VIII  (pp. 56-63)

Procediamo con questa “stravaganza geniale” come Ritschl , il maestro di Nietzsche definì La nascita della tragedia.
Il Greco vede nel Satiro la natura non ancora indebolita dalla civiltà e  ne ha nostalgia; l’uomo moderno per questa stessa nostalgia si trastulla però con la carezzevole immagine di un pastore tenero, effeminato, che suona il flauto.
Il satiro per il Greco significa l’uomo primigenio nelle sue espressioni più alte e più forti; il satiro è il simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura.
Il pastore falso e agghindato avrebbe offeso l’uomo dionisiaco. Davanti al satiro barbuto l’uomo civile si raggrinziva in una bugiarda caricatura.
Dunque Schiller ha ragione: il Coro è un muro vivo contro l’assalto della realtà perché il Coro dei satiri riflette l’esistenza in nodo più verace reale e completo rispetto all’uomo civile.
La poesia butta via da sé l’ornamento menzognero della presunta realtà dell’uomo civile. La tragedia con la sua consolazione metafisica indica la vita eterna, il greco dionisiaco vuole la natura e la verità nella loro forza massima. Il pubblico poteva identificarsi con i coreuti. Il pubblico vede i Satiri nel coro e il coro vede Dioniso nell’attore. La forma del teatro greco ricorda una valle di montagna. Il poeta è poeta solo in quanto si vede attorniato da figure che vivono e agiscono davanti a lui. Per il poeta la metafora non è una figura retorica ma un’immagine che sostituisce un concetto. Per lui un carattere è una figura insistentemente viva davanti ai suoi occhi. Omero descrive con maggiore evidenza perché intuisce di più. Il fenomeno estetico è semplice: sta nel vivere attorniati da schiere di spiriti: se possiamo parlare immedesimati in altre persone, siamo drammaturghi (p. 59)- Proprio per questo motivo Leopardi non amava il genere drammatico.
Il rapsodo non si fonde con le sue immagini, ma, come il pittore, le vede fuori di sé; il drammaturgo si annulla per entrare in una natura estranea.
Leopardi dunque svaluta il dramma.
Il Recanatese  sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella  epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua… Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235-4236).
Ancora: “Essa[12] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica.
 Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (Zibaldone, 4357). 
E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).
La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è il genere più impolitico.
Ma sentiamo ancora Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. gr. Fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[13].

Dunque “Il coro ditirambico è un coro di trasformati : dimenticano il loro passato civile e la posizione sociale. (p. 60)
In questo incantesimo chi é esaltato da Dioniso vede se stesso come satiro e come satiro guarda il dio e questa visione è il completamento apollineo del dramma.
Dunque il coro dionisiaco si scarica in un mondo apollineo di immagini (p. 61)
Le parti corali allora sono la matrice del dialogo. Il dramma è la rappresentazione apollinea di moti dionisiaci. E’ il coro che produce la visione e se è servile verso il dio, siccome è partecipe della sua sofferenza, è anche il saggio che annuncia la verità dal cuore del mondo. Il coro ditirambico deve eccitare dionisiacamente gli spettatori in modo che quando entra in scena l’attore grottescamente mascherato questi vedano il dio partorito dalla loro stessa estasi. Come Admeto che vede la donna velata, lo spettatore entra nell’inquietudine. Poi trasferisce nella figura mascherata l’immagine del dio che magicamente trema davanti alla sua anima. Così viene dissolta la realtà dell’attore.
Questo è lo stato apollineo del sogno. Le apparenze apollinèe in cui si vede Dioniso non sono più un mare eterno, un mutevole agitarsi, una vita ardente come la musica del coro, ora parla la chiarezza e la saldezza della raffigurazione epica, ora Dioniso parla come eroe epico, quasi con il linguaggio di Omero


continua



[1] Definito da Archiloco :"il bel canto di Dioniso signore" fr. 120 West.
[2] A. W. Schlegel,  Corso di letteratura drammatica, (1808) Lezione X
[3] che nel 1817, su incitamento di V. Monti, suo caro amico, volse in italiano e commentò il Corso di letteratura drammatica di A.W. Schlegel, confutando, da buon classicista e conoscitore dell'arte drammatica italiana, i severi giudizi di quel teorico del romanticismo sul Metastasio, sull'Alfieri e sul Goldoni nel 1817 compose il libretto La gazza ladra, derivato dal melodramma francese di T.-B. d'Aubigny e L.-Ch. Caignez, La pie voleuse (1815), e musicato da G. Rossini) 
[4]La nascita della tragedia , pp. 52 sgg.
[5] G. D'Annunzio, Faville del maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[6] Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[7] Con Euripide "Al posto della consolazione metafisica è subentrato il deus ex machina ...ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli" (La nascita della tragedia , p. 117 e p. 118.)
[8] "The time is out of joint" (Amleto, I, 5)., il tempo si è disarticolato, dice il principe di Danimarca dopo avere visto e sentito lo spettro del padre che chiede vendetta del turpe e snaturato assassinio Così pure il mondo del Thyestes di Seneca è uscito dai cardini. Il retrocedere del sole suggerisce  queste parole al quarto coro atterrito:"Nos e tanto visi populo/digni, premeret quos everso/cardine mundus;/in nos aetas ultima venit./O nos dura sorte creatos,/seu perdidimus solem miseri,/sive expulimus!" (vv. 876-882), noi tra tanta gente siamo sembrati degni di essere schiacciati dal mondo dopo il rovescio dei cardini; l'ultima era è arrivata su di noi. O creati con dura sorte, sia che abbiamo perduto il sole, disgraziati, sia che l'abbiamo cacciato (ndr). 
[9] La nascita della tragedia, p. 55.
[10] La nascita della tragedia, p. 56.
[11]La nascita della tragedia , p. 96.
[12] La poesia drammatica.
[13] Zibaldone, p. 4389.

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