mercoledì 14 ottobre 2015

Ulisse nella letteratura europea, III parte

James Joyce
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Nel dialogo, di Cesare Pavese, L'isola, le ultime parole di Odisseo a Calipso sono: "Quello che cerco l'ho nel cuore, come te"1. Lo stesso concetto si trova nel poeta neogreco2 Costantinos Kavafis: "In Ciclopi e Lestrigoni, no certo/né nell'irato Nettuno incapperai/se non li porti dentro/se l'anima non te li mette contro"3 (Itaca, vv. 9 - 12).

Guido Gozzano ridicolizza Ulisse parodiando Dante:
“Il re di Tempeste4 era un tale/che diede col vivere scempio/un ben deplorevole esempio/d’infedeltà maritale, /che visse a bordo d’un yacht/toccando tra liete brigate/le spiagge più frequentate/dalle famose cocottes…/ Già vecchio, rivolte le vele/al tetto un giorno lasciato, /fu accolto e fu perdonato/dalla consorte fedele…/Poteva trascorrere i suoi/ultimi giorni sereni, /contento degli ultimi beni/come si vive tra noi…/Ma né dolcezza di figlio, /né lagrime, né la pietà/del padre, né il debito amore/per la sua dolce metà/gli spensero dentro l’ardore/della speranza chimerica/e volse coi tardi compagni/cercando fortuna in America…/Non si può vivere senza/danari, molti danari…/Considerate, miei cari/compagni, la vostra semenza!” (L’ipotesi, vv. 11 - 138).
Nell’Ulisse del XXVI canto dell’Inferno di Dante ricorda “l’orazion picciola” (v. 122) che tenne ai compagni “vecchi e tardi” come lui (v. 106) per trasmettere loro “ l’ardore - ch’i’ebbi a divenir del mondo esperto, - e delli vizi umani e del valore” (vv. 97 - 99).

Il canto delle Sirene
E’lo stesso ardore che lo aveva spinto a rischiare la vita per ascoltare il canto delle Sirene nell’Odissea (XII).

Il canto delle Sirene ha suscitato diversi commenti.
Ne L'ultimo viaggio dei Poemi conviviali, Pascoli riprende alcuni episodi dell’Odissea: la XXI parte ricorda Le Sirene: “E gli sovvenne delle due Sirene. / C’era un prato di fiori in mezzo al mare. /Nella gran calma le ascoltò cantare/ - “Ferma la nave! Odi le due Sirene/ch’hanno la voce come è dolce il miele; /ché niuno passa su la nave nera/che non si fermi ad ascoltarci appena, / e non ci ascolta, che non goda al canto, /né se ne va senza saper più tanto: /ché noi sappiamo tutto quanto avviene/sopra la terra dove è tanta gente!” - /Gli sovveniva, e ripensò che Circe/gl’invidïasse ciò che solo è bello; /saper le cose”.

Quando tornarono nell’isola Eèa da Circe dopo l’evocazione dei morti, la figlia del Sole li accolse, tutta bella (Odissea, XII, 18), quindi offrì da mangiare e disse che mostrerà la via deivxw oJdovn e darà segni shmanevw (25, 26).
Dopo cena, prese Odisseo in disparte e gli disse che le Sirene ajnqrwvpou~ qevlgousin (40) ammaliano, con il canto armonioso, quanti uomini si avvicinano. Essi dimenticano la sposa e i figli. Stanno sedute su un prato h{menai ejn leimw`ni; intorno a loro c’è un mucchio di ossa di uomini putrefatti; sulle ossa si disfano le carni. Dunque Odisseo deve fuggire. Se vuole ascoltarle, si faccia legare e turi le orecchie ai compagni con la cera.

Nell’episodio Il Vero, XXIII di L’ultimo viaggio, Ulisse torna dalle Sirene per fermarsi. Le interroga e le provoca: “Sirene, io sono ancora quel mortale/che v’ascoltò, ma non poté sostare/più sempre avanti sospingea la nave. //E il vecchio vide che le due Sirene, /le ciglia alzate su le due pupille, /avanti sé miravano, nel sole, /fisse o in lui, nella sua nave nera/ E su la calma immobile del mare, /alta e sicura egli inalzò la voce. //’Son io! Son io, che torno per sapere!/Ché molto io vidi, come voi vedete/me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo, /mi riguardò; mi domandò: Chi sono? // E la corrente rapida e soave/più sempre avanti sospingea la nave. // E il vecchio vide un grande mucchio d’ossa/d’uomini, e pelli raggrinzate intorno, /presso le due Sirene, immobilmente/stese sul lido5, simili a due scogli. // Vedo. Sia pure. Questo duro ossame. /cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!/Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto, /prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!’//E la corrente rapida e soave/più sempre avanti sospingea la nave. /E s’ergean su la nave alte le fronti, /con gli occhi fissi, delle due Sirene. / “Solo mi resta un attimo. Vi prego!/Ditemi almeno chi sono io! Chi ero!”/E tra i due scogli si spezzò la nave”.

Sentiamo l’interpretazione che T. Mann dà della brama del conoscere e della solitudine cui questo desiderio smanioso ci condanna
"Allora, col martirio e l'orgoglio del conoscere, sopravvenne la solitudine, ché la vicinanza dei bonari, delle anime gaiamente ottenebrate, gli riusciva intollerabile, e il marchio sulla sua fronte turbava costoro. Ma sempre più dolce divenne per lui la gioia della parola e della forma"6.
Tale gioia del resto è contaminata dal dolore: "La letteratura non è affatto una professione o una vocazione; è una maledizione (ein Fluch) …perché lo sappiate. E quando principia a farsi sentire questa maledizione? Presto, terribilmente presto. A un'epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere d'amore e d'accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto d'essere in incomprensibile contrasto con gli altri, coi normali, con la gente ordinaria; sempre più fondo si scava l'abisso d'ironia, d'incredulità, d'opposizione, di lucidità, di sensibilità che lo separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c'è più possibilità d'intesa"7
Sentiamo ancora Boitani che cita e commenta Brecht: “Nel 1933 Bertold Brecht - torniamo così al riparo della mera letteratura - scrisse, nelle sue Rettifiche di miti antichi, un pezzo minuscolo su Ulisse e le Sirene. Il drammaturgo vi riporta la versione tradizionale, in cui l’eroe si fa legare all’albero maestro e poi tura gli orecchi dei rematori con la cera “così che… il suo godimento dell’arte possa rimanere senza brutte conseguenze”. Giunti dinanzi all’isola, i “servi” resi sordi vedono Ulisse contorcersi all’albero e le “seducenti femmine” gonfiare la gola. Tutto in ordine, dunque: secondo il programma. L’intera antichità credette che al volpone fosse riuscito il suo stratagemma. ” Ma Brecht mette in dubbio la veridicità della storia. Dopotutto, Ulisse è il mentitore per eccellenza.
Dovrei essere io il primo ad avanzare sospetti? Ebbene, io mi dico - D’accordo, ma chi, all’infuori di Ulisse, dice che le Sirene cantarono veramente davanti all’uomo legato? Queste femmine abili e potenti dovrebbero davvero aver sprecato la loro arte con gente che non possedeva alcuna libertà di movimento? Qui vorrei perciò supporre, invece, che le gole gonfie osservate dai rematori gridassero, con tutta la loro forza, insulti al maledetto e prudente provinciale, e che il nostro eroe eseguisse i suoi contorcimenti (anch’essi attestai), perché pure lui alla fine provava vergogna.

E dunque le Sirene, nonostante il “definitivo” silenzio di Kafka, riprendevano bellamente a cantare; la narrazione, e l’interpretazione, continuavano. La nota di Brecht al racconto proclama, in perfetto stile midrash8 ironico: “Per questa storia si trova una rettifica anche in Franz Kafka, ma nell’età moderna essa non appare più, davvero, credibile”.
“Le Sirene cantano, anzi urlano insulti: nei “tempi nuovi” l’arte un po’sfacciata non può che prendere a male parole il borghese autoritario e provinciale che vuole godersela senza brutte conseguenze. Un anno più tardi, nel 1934, era Walter Benjamin a rievocare Ulisse e le Sirene…Nello splendido saggio su Franz Kafka, Benjamin chiama l’ebreo praghese “novello Ulisse” perché egli non ha ceduto, dice, alle lusinghe del mito, che potrebbe offrire redenzione al mondo. In Kafka, scrive il critico, le Sirene tacciono “forse perché in lui la musica e il canto sono un’espressione, o almeno un pegno di salvezza”. L’esegesi sembrava ribadire la fine”9.

Il silenzio delle Sirene
Che cosa cantava Calipso, o Circe (X, 221, 227, 254), o la Sfinge dell'Edipo re10 è un quesito più legittimo e logico di quello che poneva Tiberio imperatore ai grammatici: "quid Sirenes cantare sint solitae? "11 che cosa cantassero abitualmente le sirene.
Kafka sostiene che quelle creature non cantavano: "le sirene hanno un'arma ancor più terribile del canto, ed è il loro silenzio. E’forse pensabile, sebbene non sia mai successo, che qualcuno possa salvarsi dal loro canto: sicuramente non dal loro ammutolire12... E davvero, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantavano... Ma Odisseo, se così si può dire, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e che lui soltanto fosse preservato dall'udirle"13.

T. Mann attribuisce il silenzio alla Sfinge egiziana; “Che cosa diceva quell’enigma? Non diceva assolutamente nulla. Consisteva nel silenzio, nel silenzio imperturbabile ed ebbro con cui quell’essere mostruoso …mirava con sguardo selvaggio e veggente lontano, oltre colui che interrogava e nello stesso tempo veniva interrogato…Era una Sfinge, cioè un enigma e un mistero; e precisamente un mistero selvaggio, con branche di leone, cupido di sangue giovane, pericoloso per il figlio di Dio…Su quel petto di roccia, tra le branche di quel drago femmina, non si sognavano sogni di promessa, e tutt’al più sogni ben miseri”14.

Kafka racconta che Ulisse si chiuse le orecchie con la cera e opera una "dislettura del mito originario, nel quale l'eroe tura invece le orecchie dei compagni"15 per affermare il loro silenzio e descrivere la loro mimica: "Esse però, mai così belle, si tesero e si torsero, lasciarono ondeggiare liberi nel vento i loro orridi capelli, aprirono, nudi, gli artigli sulle rocce; non volevano più sedurre, volevano soltanto afferrare, finché era possibile, il riflesso lucente degli occhi immensi di Odisseo". E’un'interpretazione inquietante: "da essa emerge per la prima volta nella letteratura occidentale il punto di vista delle Sirene. Ma, "più belle che mai", le Sirene (e siamo nel sesto paragrafo) allungarono il collo e si voltarono, lasciarono ondeggiare i loro capelli "raccapriccianti" nel vento e, dimenticando tutto, afferrarono le rocce con i loro artigli. Tornate mostruose dopo il passaggio dell'eroe, esse non avevano più alcun desiderio di sedurre: "volevano solamente trattenere il più a lungo possibile il riflesso luminoso che veniva dai grandi occhi di Odisseo". Le "legatrici" sono legate. E’l'uomo ormai ad ammaliare, ad essere specularmente divenuto una sirena"16.

In realtà Omero attribuisce sette esametri al canto armonioso delle Sirene: sono i versi 184 - 191 del XII canto dell’Odissea dove le misteriose creature promettono a Odisseo quello che desidera di più: l'accrescimento della conoscenza che rende felici: chi sente le loro voci dal suono di miele, riparte “teryavmeno~kai; pleivona eijdwv~” (v. 188), pieno di gioia e conoscendo più cose.
Noi infatti, concludono: “ i[dmen d j o{ssa gevnhtai ejpi; cqoni; pouluboteivrh/" (v. 191), sappiamo quanto avviene sulla terra nutrice.

Ulisse è spinto a partire ma anche a ritornare.
Se da una parte "il non domato spirito, /e della vita il doloroso amore"17 sospingono Ulisse, come il poeta triestino, “al largo”18, dall'altra il richiamo e il risucchio della patria ve lo fa tornare.
Nel IX canto del poema omerico Odisseo dichiara ad Alcinoo il proprio nome –Odisseo noto per tutte le astuzie - e quello della sua terra: “Itaca distinta (j Iqavkhn eujdeivleon, v. 21); dove c’è ben visibile il monte Nerĭto che scuote le foglie, ed è aspra, ma buona nutrice di giovani: “trhcei'‘j ajll j ajgaqh; kourotrovfo~”(v. 27).

Così pure l'Ulisse di Joyce, altro uomo che ha molto sofferto anche se di formato non eroico, dopo un lungo girovagare per Dublino torna a casa19 dalla moglie, sebbene adultera, da quella Molly che E. Pound interpreta come "Gea Tellus, simbolo della Terra... il suolo dal quale l'intelletto tenta di saltare via, e nel quale ricade in saecula saeculorum".
La donna di questo Ulisse in effetti è un personaggio universale come lo è egli stesso: "I dettagli della carta topografica sono locali ma Leopold Bloom (né Virág 20) è di tutti i luoghi"21.
Sul ritorno di Ulisse e il rischio di scordarlo ha scritto parole interessanti Calvino: "Il ritorno va individuato e pensato e ricordato: il pericolo è che possa essere scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime tappe del viaggio raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il rischio di perdere la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del loto. Che la prova della dimenticanza si presenti all'inizio dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine, può apparire strano. Se dopo aver superato tante prove, sopportato tante traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere, questa della smemoratezza è una minaccia che nei canti IX - XII si ripropone più volte: prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i farmaci di Circe, poi ancora col canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve guardarsene, se non vuole dimenticare all'istante... Dimenticare che cosa? La guerra di Troia? L'assedio? Il cavallo? No: la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del viaggio. L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il ritorno"22. Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi canta versi senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il verbo più negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi, cavallo di battaglia del loro repertorio"23.

Vediamo ora l’Ulisse di Joyce. E’Leopold Bloom, un ebreo ungherese. Il suo vero cognome è Virág che in lingua magiara significa fiore.
Si dice che Bloom è la controfigura dell’eroe omerico. Di fatto ha in comune con Odisseo la pazienza e la curiosità: gira per casa sua e per Dublino nella lunga giornata del 16 giugno 1904 osservando tutto e riflettendo su tutto. Sopporta con ironia e non senza dignità. A proposito della moglie che ha un amante, Boylan “l’eroe conquistatore”, Leopold Bloom “l’eroe inconquistato” pensa: “Lei voleva andare. Ecco perché. Donna. Tanto vale fermare il mare”24Nel XII episodio Il Ciclope - la taverna, Bloom viene aggredito da nazionalisti razzisti gaelici, antisemiti in un crescendo di insulti.
Questo nuovo Ulisse sopporta siccome è “papà prudenza” (p. 407) e oppone argomenti razionali all’irrazionalità dei razzisti, il cui corifeo è “il Cittadino” scortato da un cane ringhioso. Rinfacciano all’Ulisse ebreo la puzza semitica, le corna, e attribuiscono ogni male a chi non ha una nazione.
“Una nazione? ” replica Bloom. “Una nazione è la stessa gente che vive nello stesso posto…Qual è la sua nazione, se è lecito? Dice il cittadino - L’Irlanda”, risponde Bloom. “Sono nato qui. L’Irlanda”
Il cittadino non disse nulla, si schiarì appena in gola, e, perdiana, fece volare una patacca di scaracchio fin nell’angolo”
Bloom risponde proponendo di sostituire l’amore all’odio che è “il contrario di quel che è veramente la vita”
Poi il nostro Ulisse viene definito “un ebreo rinnegato…venuto da qualche parte dell’Ungheria…si chiamava Virag. Il nome del padre, quello che si avvelenò. Se l’è fatto cambiare ufficialmente, il padre…Virag d’Ungheria. Io lo chiamo Assuero. Maledetto da Dio…San Patrizio dovrebbe sbarcare un’altra volta a Ballykinlar e riconvertirci, dice il cittadino, dopo che abbiamo permesso a tipi simili di contaminare i nostri lidi.
Gli insulti agli Ebrei e a Bloom continuano, finché Leopold reagisce: “Mendelssohn era ebreo e anche Carlo Marx e Mercadante e Spinoza. E il Redentore era ebreo e suo padre era ebreo. Il vostro Dio…Il vostro Dio era ebreo. Cristo era ebreo come me”25.
Quindi Bloom scappa via inseguito dal lancio di una scatola di biscotti e dal cagnaccio aizzato dal padrone. L’episodio Il ciclope - La taverna finisce con varie reminiscenze delle Sacre Scritture, soprattutto 2 Re II, 11 dove si parla dell’ascesa al cielo di Elia
“E videro Lui nel carro, rivestito nella gloria di quello splendore, che aveva vestimento come del sole, bello come la luna e terribile sì che per tema non osarono levare gli occhi a lui”26.
Bloom dunque ha una sua dignità, anche se non ha l’eroismo di Odisseo né una Penelope fedele. La moglie Molly lo tradisce, ma dopo tutto rimane con lui. L’ultimo capitolo27 Il XVIII, Penelope - il letto si chiude con una serie di sì che la donna dice alla vita, alla sua vita con il suo Ulisse, a tutta la vita: “and first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my breasts all perfume yes and his heart was going like mad and yes I said yes I will yesSono le ultime parole del romanzo uscito nel 1922.


continua


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1C. Pavese, Dialoghi con Leucò , p. 136.
2 1863 - 1933.
3Costantinos Kavafis, Settantacinque poesie .
4 E’ una citazione parodica di D’Annunzio : « Odimi » io gridai/sul clamor dei cari compagni/ « odimi, o Re di tempeste !” (Maia, IV)
5 Cfr. Odissea XII, 45 h[menai ejn leimw`ni, sedute sul prato.
6 T. Mann, Tonio Kröger, cap.IV.
7 T. Mann, Tonio Kröger, cap. IV.
8 Esposizione ebraica del vecchio testamento (ndr).
9 P. Boitani, Sulle orme di Ulisse, pp. 134 - 135.
10 vv. 35 - 36: " ejxevlusa"... sklhra'" ajoidou' dasmo;n oJ;n pareivcomen", hai fatto cessare... il tributo della cantatrice dura che pagavamo, e v. 130 "hJ poikilw/do;" Sfi;gx", la Sfinge dal canto variopinto.
11Svetonio, Tiberii Vita , 70.
12 Cfr, il silenzio di Aiace nell’XI dell’Odissea e quello di Didone nel VI dell’Eneide.
13F. Kafka, Il silenzio delle sirene, scritti e frammenti postumi (1917 - 1924) p. 45.
14 T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, vol. III, Giuseppe in Egitto, p. 100.
15P. Boitani, L'ombra di Ulisse , p. 214.
16P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p.216.
17Umberto Saba, Ulisse , vv. 12 - 13.
18 Umberto Saba, Ulisse , v. 11.
19 Cfr. il XVII episodio: “Itaca” la casa
20Cognome che significa "fiore" nella lingua magiara e dunque indica l'origine ungherese di questo ebreo che vive a Dublino. Ulisse è greco ma pure cittadino del mondo.
21Ulysses , in Pound Opere Scelte , p. 1168
22 Novstou te laqevsqai, Odissea IX, 97 ndr.
23I. Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15 - 16.
24 XI episodio, Le Sirene, la mescita.
25 Joyce, Ulisse, p. 468.
26 Joyce, Ulisse, p. 468

27 Il XVIII, Penelope - il letto

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