lunedì 12 ottobre 2015

Ulisse nella letteratura europea, I parte

Giovanni Domenico Tiepolo
Processione del Cavallo di Troia
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Ulisse in alcuni autori classici (Pindaro, Sofocle, Euripide, Virgilio, Stazio, Cicerone, Apuleio, Seneca) e in altri moderni: Tennyson, Boitani, Cesare Pavese, Costantinos Kavafis, Guido Gozzano, Dante, Pascoli, T. Mann, Bertold Brecht, Kafka e il silenzio delle Sirene, Italo Calvino, l’Ulisse di James Joyce. Ulisse di Dante, Ulixes dei latini e Ὀδύσσευς. Omero, Dante, Sofocle, Platone, Virgilio, Ovidio, Seneca, Stazio, Apuleio. Agostino. Ancora Dante e l’apostolo Paolo.



Pindaro nell’Istmica IV denuncia l’oscurità del destino (v. 31), che fece cadere Aiace, puvrgo~[1] la torre, con gli artifici di chi valeva meno di lui, ma Omero gli ha reso onore tra gli uomini (all j { Omhrov~ toi tetivmaken di j ajnqrwvpwn (v. 37). 
Nella Nemea VIII il poeta tebano ricorda il torto subito da Aiace a[glwsso~ (v. 24), privo di eloquenza: sicché l’invidia poté mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso ingannevole di Odisseo.
Tuttavia alla fine Aiace ebbe giustizia: “a’generosi/giusta di glorie dispensiera è morte; /né senno astuto, né favor di regi/all’Itaco le spoglie ardue serbava, /ché alla poppa raminga le ritolse/l’onda incitata dagl’inferni Dei”[2]

Nel Filottete di Sofocle, Neottolemo lamenta di essere stato espropriato dei suoi beni, ossia delle armi del padre dal peggiore di tutti, nato da malvagi[3], Odisseo.

Nella parodo dell’Ecuba di Euripide il coro delle prigioniere troiane presenta Odisseo come «lo scaltro (oJ poikilovfrwn) furfante dal dolce eloquio, adulatore del popolo» (vv. 131 - 132) che convince l'esercito a mettere a morte Polissena.
 In questa tragedia il figlio di Laerte è un freddo politico per cui vale solo la ragion di Stato che calpesta tante vite innocenti.
Nel primo episodio la vecchia regina esautorata, la madre dolente, scaglia un’invettiva contro la genìa dannata dei demagoghi:
«Razza di ingrati è la vostra, di quanti cercate il favore popolare: non voglio che vi facciate conoscere da me: non vi curate di danneggiare gli amici, pur di dire qualche cosa per piacere alla folla. Ma quale trovata pensano di avere fatto con il votare la morte di questa ragazza? Forse il dovere li spinse a immolare un essere umano presso una tomba, dove sarebbe più giusto ammazzare un bue?» (Ecuba, vv. 254 - 261).
Poco più avanti Ecuba supplica Odisseo di non ammazzare la figlia con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita: "mhde; ktavnhte: tw'n teqnhkovtwn a{li" " (v. 278), non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti.

Nelle Troiane di Euripide, Ecuba si lamenta tra l’altro di essere stata assegnata come schiava a Odisseo, poiché le è toccato in sorte di servire l’Itacese, un uomo abominevole, fraudolento nemico di giustizia: μυσαρῷ δολίῳ λέλογχα φωτὶ δουλεύειν, / πολεμίῳ δίκας (vv. 283 - 284), una bestia feroce contraria alla legge (παρανόμῳ δάκει).
Più avanti Cassandra pre - vede le peripezie di Odisseo: Cariddi, il Ciclope wjmobrwv~ t j ojreibavth~ (Troiane, 436) che mangia la carne cruda e vaga per le montagne. Sono abitudini che Euripide attribuirà anche alle baccanti nella sua ultima tragedia.
Quindi la principessa troiana menziona Circe, hJ suw`n morfwvtria (che dà la forma - morfovw - do forma morfhv - di porci v. 437), i naufràgi, gli amori del loto, la droga che fa perdere l’identità, le vacche sacre del sole dalla carne parlante, amara voce per Odisseo pikra; n gh`run 440 - 441.
Infine l’evocazione dei morti e la lotta finale con i proci.
Sono i polla; a[lgea annunciati nel primo canto dell’Odissea (v. 4).

Quando rientra Taltibio, porta oujc eJkwvn (Troiane, 710), non volentieri, una notizia orrenda. E’prevalso il parere di Odisseo di ammazzare Astianatte. L’araldo consiglia la madre di non ribellarsi se vuole che il bambino venga almeno seppellito.
Andromaca nota che il mondo va a rovescio: è proprio la nobiltà del padre che lo ucciderà: hJ tou` patro; ~ dev s j eujgevnei j (a) ajpoktenei` (v. 742), quella nobiltà che per altri è stata la salvezza.
 E’l’acta retro cuncta dell’Oedipus (367).
Ecuba accusa anche Elena qeostughv~ (1213), odiosa agli dèi.
Lo scudo di Ettore, dice poi Ecuba, dovrebbe essere onorato più delle armi di Odisseo sofou` kakou` (astuto malvagio, smontatura del sofov~ Troiane, 1224 - 1225).
E’questa una tragedia con la quale Euripide denuncia il razzismo e l’imperialismo degli ateniesi che poco tempo prima della rappresentazione (primavera del 415) avevano perpetrato il vergognoso genocidio dell’isola di Melo.

Nel dramma satiresco Ciclope, di Euripide, quando Odisseo entra in scena definendosi Itacese, signore dei Cefalleni, Sileno replica: “oi\d j a[ndra, krovtalon drimuv, Sisuvfou gevno~” (vv. 103 - 104), conosco quel tipo, un sonaglio petulante, razza di Sisifo[4].
Nell'Ippia minore di Platone, il sofista eponimo del dialogo sostiene che mentre Achille è veritiero e semplice ("ajlhqhvv" te kai; aJplou'"", 365b) Odisseo è invece "poluvtropov" te kai; yeudhv"", versatile e menzognero.

Sono i luoghi comuni della letterarura successiva a Omero la quale contrappone spesso lo schietto Pelide al subdolo Odisseo: Achille nell’Ifigenia in Aulide di Euripide chiarisce a Clitennestra che lo educò Chirone: “perché non imparasse gli usi degli uomini malvagi[5].
Più avanti il figlio di Peleo riconosce tale capacità paideutica all'uomo piissimo che l'ha allevato dal quale: ", ha imparato ad avere semplici i costumi[6]. L’antitesi del semplice, onesto Achille in questa tragedia, e non solo, è Odisseo del quale Agamennone dice: “, è molteplice per natura e sempre dalla parte della massa[7]. Cioè un demagogo. Oggi si direbbe un “populista”.

Torniamo Ippia minore.
Nel dialogo Platonico, Ippia riceve una confutazione da Socrate.
 Il sofista ricava la distinzione tra i due capi achei dal IX libro dell'Iliade dove Fenice Aiace e Odisseo vanno in ambasceria da Achille che irato non combatteva ma faceva l'aedo, ossia cantava glorie di eroi accompagnandosi con la cetra ("fovrmiggi.. a[eide kleva ajndrw'n", vv. 186 e189). Dopo l'accoglienza cordiale, il cibo e la bevanda, Odisseo parlò ("Aiace - nota Jaeger - personifica piuttosto l'azione, Odisseo la parola"[8]) scongiurando Achille di tornare in battaglia e promettendogli donne mari e monti da parte di Agamennone. Ebbene Achille risponde che gli è odioso come le porte dell'Ade chi una cosa tiene nascosta e un'altra ne dice[9].
L’Ippia di Platone sostiene che non a caso Omero fa indirizzare queste parole a Odisseo
Socrate risponde opponendosi a questa opinione comune della schiettezza di Achille e affermando che il Pelide mente non meno di Odisseo, poiché ha detto all’Itacese che sarebbe partito[10], e invece ad Aiace che non si sarebbe mosso fino all’arrivo di Ettore davanti alla sua tenda[11]. Ippia sostiene che Achille non mente di proposito.
 Socrate invece afferma che Achille ha mentito deliberatamente a Odisseo per superarlo anche nell’arte del raggiro e aggiunge che coloro i quali danneggiano, gli altri, e commettono ingiustizia e mentono e ingannano ed errano volontariamente (eJkovnte~)[12] sono migliori di quelli che lo fanno involontariamente (a[konte~)[13].
 Infatti chi fa del male volontariamente, se vuole fa del bene, chi lo fa involontariamente non sa fare altro. E’molto peggio zoppicare per necessità che per gioco.
Socrate nei dialoghi platonici dà sempre scacco matto ai sofisti.
Infatti Leopardi lo considera il più sofista di tutti.
E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de’calamistri[14] e de’fuchi[15] e d'ogni ornamento ascitizio[16] e d'ogni affettazione, che altro era ne’suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).

Platone ricorda Odisseo anche nel mito di Er della Repubblica
Aiace Telamonio scelse la vita di un leone poiché rifuggiva dal nascere uomo in quando ricordava il giudizio delle armi (620b).
Agamennone, per avversione al genere umano, scelse la vita di un’aquila. Orfeo, scelse la vita di un cigno non volendo nascere da grembo di donna mivsei tou` gunaikeivou gevnou~, in odio del genere femminile per la morte sofferta dalle donne[17].
Il buffone Tersite scelse la natura di una scimmia.
L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e amante del quieto vivere ("bivon ajndro; " ijdiwvtou ajpravgmono"", Repubblica 620c).
La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che l’avrebbe presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.

Quindi Lachesi diede a ciascuno come custode (fuvlaka) il demone (daivmona, 620d) che si era scelto. Poi Cloto Atropo e Ananche confermavano le scelte e le rendevano immutabili.
In seguito le anime venivano portate attraverso una terribile calura e arsura fino al fiume Amelete perché ne bevessero l’acqua. Una certa misura era obbligatoria. I meno prudenti ne bevevano più della misura (plevon tou` mevtrou, 621) e mentre bevevano scordavano tutto. Infine si addormentavano, scoppiava un tuono e le anime venivano spinte a una nuova nascita cui si lanciavano come stelle cadenti.
 A Er era stato impedito di bere e non sapendo come, si era trovato il mattino sulla pira. Socrate commenta il mito con poche parole dicendo che per entrare nell’apertura e nella via che va in alto bisogna praticare sempre la giustizia in modo da essere cari a noi stessi e agli dèi qui in terra e dopo, nel viaggio millenario di cui si è detto (621d)

Nell’Eneide Ulisse è malfamato: sic notus Ulixes? (II, 44), così (male) conoscete Ulisse? Domanda Laocoonte retoricamente e ironicamente ai Troiani incerti se introdurre nella loro città il cavallo di legno, la fatalis machina … feta armis (II, 237 - 238), gravida d’armi.
Ulisse non compare, ma arriva un suo alter ego, Sinone, il quale, per convincere i creduli Teucri, denuncia la trama criminale architettata contro l’innocente Palamede morto invidia pellacis Ulixi (II, 90), per l’invidia del perfido Ulisse che definisce scelerum inventor (II, 164) ideatore di crimini.
Ma “il falso Sinòn greco da Troia”[18] era appunto pure lui un simulatore, quindi le sue parole mendaci depongono a sfavore di Ulisse solo per finta. Sentiamo allora che cosa dice di Ulisse il pius Aeneas “quel giusto/figliuol d’Anchise che venne da Troia, /poi che ‘l superbo Iliòn fu combusto”[19]. Nel III libro dell’Eneide, il figlio di Venere racconta a Didone il viaggio verso l’Italia dei Troiani scampati alla distruzione di Ilio: allontanatisi dalle Strofadi, i Teucri fuggiaschi passano vicino a Zacinto boscosa e altre isole, evitando con cura Itaca: Effugimus scopulos Itacae, Laërtia regna, / et terram altricem saevi exsecramur Ulixi (vv. 272 - 273), evitiamo gli scogli di Itaca, regno di Laerte, e malediciamo la terra nutrice del crudele Ulisse.
Nel VI libro l’ombra dello sconciato Deifobo, raccontando la propria orrenda fine, definisce Ulisse l’Eolide[20], hortator scelerum (v. 529), istigatore di scelleratezze.
Nel IX canto Remulo, cognato di Turno, ricorda Ulisse come fandi fictor (602), artefice di un parlare ingannevole.

Ovidio Metamorfosi XIII. La contesa per le armi di Achille tra Ulisse e Aiace
Il poeta Peligno presenta un duello oratorio tra Aiace e Ulisse. Questo torneo oratorio il dibattito giudiziario tra Elena ed Ecuba nelle Troiane di Euripide.
Aiace si presenta come legittimo erede delle armi di Achille il quale, tanto per cominciare, era suo cugino. Peleo e Telamone, i loro padri infatti erano fratelli e per giunta nipoti di Giove in quanto figli di Eaco nato da Giove, appunto, e da Egina.
Ulisse invece è, di fatto, figlio di Sisifo furtisque et fraude simillimus illi (v. 32) del tutto simile a lui per frode e per furti.
Quindi il Telamonio ricorda una delle frodi di Ulisse: prese le armi per ultimo: cercò di rifiutare la milizia furore…ficto (vv. 36 - 37), fingendosi pazzo
Qui si possono ricordare gli ossimori viventi, come Bruto, Amleto e altri.
“Il falso stolto deve anche farne, di sciocchezze, oltre che dirne. Odisseo a Itaca, davanti a Menelao e Agamennone, aggioga all'aratro un bue e un cavallo e se ne va in giro con in capo il berretto (pileus) dello stolto[21]. Peccato che non possiamo più vedere un celebre dipinto di Eufranore che stava a Efeso, forse nel santuario di Artemide. Plinio lo descriveva così: "Ulisse, fintosi pazzo, aggioga un bue insieme con un cavallo: vi sono anche uomini pensosi vestiti col pallio, e un comandante che rinfodera la spada"[22].
 Ma Palamede, che aveva inventato 11 lettere dell’alfabeto, scoprì l’astuzia e mal gliene incolse.
“Egli prese il figlio di Ulisse, Telemaco, dalla culla e lo pose davanti all’aratro, dicendo: “Lascia questa commedia e unisciti agli alleati”[23].
Ulisse si vendicò nascondendo dell’oro sotto la tenda di Palamede e facendo trovare ad Agamennone una lettera nella quale lui stesso aveva scritto che Priamo aveva promesso al figlio di Nauplio tanto oro quanto poi venne fatto trovare sotto terra.
Palamede in seguito a questa falsa accusa venne lapidato e Nauplio, suo padre, per vendetta fece naufragare le navi dei Greci sulle scogliere di Cafareo, un promontorio dell’Eubea con segnali di fuoco ingannevoli.

Ma torniamo al discorso di Aiace nelle Metamorfosi di Ovidio.
Magari fosse stato pazzo davvero, continua il Telamonio, o almeno creduto tale, e non fosse venuto a Troia questo hortator scelerum (v. 45)
Non avrebbe condannato Filottete alla solitudine e allo strazio[24].
Ora l’erede delle armi di Ercole velatur aliturque avibus (v. 53), si veste e si ciba di uccelli ed è consumato dal morbo e dalla fame.
Ma almeno vive poiché non ha seguito l’Itacese.
Mallet et infelix Palamedes esse relictus (v. 56), vorrebbe essere stato abbandonato anche l’infelice Palamede; viveret, sarebbe vivo o sarebbe morto senza infamia.
Così, con la morte o l’esilio, Ulisse inficiò le forze dei Greci.
Aiace ricorda pure che una volta egli stesso salvò la vita a Ulisse coprendolo con lo scudo (75 - 76). Come fu salvato, il vigliacco fuggì.
Aiace fu il più coraggioso nell’opporsi alla furia di Ettore
Gran vanto dell’Itacese è la spedizione notturna con l’uccisione dell’imbelle Dolone, e di Reso mentre dormiva[25].
Ma l’Itacese non fece mai niente di grande durante la luce del giorno, né senza Diomede. Ulisse è un uomo subdolo e vile che opera sempre di nascosto, senza armi, ingannando l’incauto nemico con frodi (qui clam, qui sempre inermis - rem gerit et furtis incautum decipit hostem, vv. 103 - 104). La sua vera arma è la lingua con la quale intreccia sofismi fallaci.
Le armi di Achille non sono adatte a un uomo tanto debole: l’elmo gli farà cadere la testa, l’asta il braccio, e lo scudo dove è raffigurata la terra[26] non è fatto timidae nataeque ad furta sinistrae (v. 111), a una sinistra codarda e nata per rubare.

Sentiamo la replica astuta di Ulisse
Parlò con grazia e facondia (Metamorfosi XIII, v. 127)
L’Itacese inizia il suo discorso simulando dolore per la morte di Achille con le parole e facendo nello stesso tempo il gesto di tergersi lacrime (manuque simul veluti lacrimantia tersit - lumina, vv. 131 - 132)[27] quindi ricorda che il legittimo erede e successore del Pelide è lui stesso che lo ha portato a combattere nel campo dei Greci.
Ulisse si riferisce al fatto che Tetide aveva mandato il figliolo travestito da ragazza nell’isola di Sciro, ospite del re Licomede. Qui Achille ebbe una relazione furtiva con Deidamia da cui nascerà Pirro, poi venne scoperto, invogliato a combattere e portato a Troia da Ulisse e Diomede.
Ulisse rivendica a sé il merito di avere portato Achille da Sciro a Troia: fortem ad fortia misi (XIII, 170). Dunque Ettore è stato ucciso grazie a me: per me iacet inclitus Hector! (178). Si vanta anche di avere convertito l’affetto paterno di Agamennone al bene comune quando lo convinse a sacrificare Ifigenia: “ego mite parentis ingenium verbis ad publica comoda verti ” (187 - 188). Fu l’utilitas populi a richiedere quel sacrificio (cfr. “Caiphas cum esset pontifex anni illius dixit eis: expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo et non tota gens pereat!, Giovanni, 11, 50).
Poi l’Itacese ricorda di essere andato con Menelao come audax orator nella curia di Troia superba rischiando la vita. Dunque egli fece molte cose consilioque manuque, con il senno e con la mano (XIII, 205, cfr. Gerusalemme Liberata I, 1, 3). Ulisse ricorda quando fu lui a fermare l’esercito in fuga dopo il sogno di Agamennone) cfr. Iliade, II) quando et ipse fugit (XIII, 223) lo stesso Aiace fuggiva.
Io fermai i fuggiaschi con rampogne quando dolor ipse disertum fecerat, lo stesso dolore mi aveva reso eloquente (228). Tersite fu per me haud impune protervus (233)
Ricordai vulnera pulchra le ferite onorevoli ricevute e mostra le cicatrici (264) come fece Mario per farsi eleggere console
Ammette che Aiace difese la flotta e duellò con Ettore, ma non gli inflisse ferite Hector abit violatus vulnere nullo (279), mentre Patroclo venne ucciso da Ettore e Achille lo uccise.
Le armi di Achille non furono ottenute da Tetide perché le indossasse un rudis et sine pectore miles (290). Sono armi preziose che Aiace non intende: quae non intellegit arma (295)
Lui arrivò tardi come Achille. “Me pia detinuit coniunx, pia mater Achillem” 301). E Achille fu scoperto dal mio grande ingegno, non io da Aiace, Palamede non seppe difendersi poicé la sua colpa era palese. Filottete aveva bisogno di riposo e dopo tutto è ancora vivo. Ora la suapresenzaè necessaria: provate a mandare lo stolidus Aiace a placare con la sua facondia la rabbia di quell’eroe. Sarò io a riportarlo sebbene mi odi. Lo porterò qua con la forza.
Gli altri eroi greci hanno ceduto le armi davanti al mio senno.
Tu vires sine mente geris, mihi cura futuri (363).
Quindi chiede le armi. Allora si svelò nei fatti quanto può la forza della parola: quid facondia posset, - re patuit, fortisque viri tulit arma disertus (382 - 383). Allora invictum virum vicit dolor (386)
Aiace quindi si uccise e dalla terra arrossata nacque un fiore vermiglio come da Giacinto. Si vede che la forza suprema è quella della parola. Una forza però a doppio taglio.
Sentiamo Gorgia: "lovgo" dunavsth" mevga" ejstivn, o{" smikrotavtw/ swvmati kai; ajfanestavtw/ qeiovtata e[rga ajpotelei’"[28], la parola è un gran signore che, con un corpo piccolissimo e invisibile, compie opere assolutamente sovrumane.
Queste opere possono essere divine ma anche diaboliche.
L'apostolo Giacomo mette in rilievo la parte direttiva del parlare come aveva fatto l'Odisseo del Filottete: " se uno non inciampa nel parlare, questo è un uomo perfetto (tevleio" ajnhvr), capace di guidare tutto il corpo. La lingua dunque è un piccolo membro e si vanta di grandi cose (mikro; n mevlo" kai; megavvla aujcei'). Eppure essa è un fuoco, è il mondo dell'iniquità (oJ kovsmo" th'" ajdikiva") e contamina tutto il corpo e incendia la ruota della nascita e trae la sua fiamma dalla Gehenna (kai; flogizomevnh uJpo; th'" geevnnh") … Ogni specie di fiere e di uccelli e rettili e animali marini si doma ed è stata domata dalla razza umana, ma la lingua nessuno degli uomini può domarla, è un male inquieto, pieno di veleno mortifero (Epistola di Giacomo, 3, 2 - 8). La mancanza della lingua è un grave handicap, ma la lingua ingannevole produce il male e la morte.
Lo scita Anacarsi che andò ad Atene nel 591 e fu ospite e amico di Solone, interrogato che cosa fosse insieme bene e male per gli uomini, rispose “la lingua”[29].

La pessima reputazione di Ulisse è rinnovata da Seneca.
Nelle Troiane, Andromaca annuncia l’arrivo di Ulisse con queste parole: Adest Ulixes, et quidem dubio gradu / vultuque: nectit pectore astus callido (vv. 521 - 522), ecco qua Ulisse e certamente con un incedere e un’espressione equivoca: intreccia astuzie nel petto scaltro. Più avanti la vedova di Ettore e mater dolorosa di Astianatte apostrofa l’Itacese in questo modo: O machinator fraudis et scelerum artifex, / virtute cuius bellica nemo occĭdit, / dolis et astu maleficae mentis iacent / etiam Pelasgi, vatem et insontes deos / praetendis? Hoc est pectoris facinus tui (vv. 750 - 754), o tessitore di frodi e artefice di crimini, per il cui valore di guerriero nessuno è morto, mentre per i tuoi inganni e l’astuzia della mente malefica giacciono cadaveri anche i Pelasgi, ora metti avanti l’indovino e gli dèi incolpevoli? Questo è un delitto dell’animo tuo.
Ulisse per ottenere la nefanda uccisione del piccolo Astianatte, ha attribuito a Calcante la previsione dei lutti che il bambino procurerebbe alle madri greche se il bambino non venisse ucciso e diventasse grande e forte come suo padre. Le tragedie di Seneca come poi quelle di Shakespeare, si sa, sono scritte in bloody lines[30].

E ancora: nella I delle Heroides[31] di Ovidio, Penelope scrive al marito che anni dopo la vittoria non è ancora tornato, e per giunta non ha mandato notizie a casa: victor abes nec scire mihi, quae causa morandi, / aut in quo lateas, ferreus, orbe licet (vv. 57 - 58), vittorioso rimani lontano e io non posso sapere qual è la causa del tuo ritardo o in quale contrada ti nascondi, crudele.
Ulisse dunque è ferreus, insensibile, crudele, spietato.

Quindi la desolata Penelope immagina che il marito peregrino captus amore (76), preso dall’amore per una straniera, forse le racconti quanto sia rozza la propria consorte, che sa soltanto cardare la lana. Forsitan et narres quam sit tibi rustica coniunx, / quae tantum lanas non sinat esse rudes (77 - 78).

Stazio nell’Achilleide racconta come il Pelide, fatto imboscare dalla madre presso il re Licomede nell’isola di Sciro camuffato da magna virgo (II, 69 - 70), fanciulla robusta, venne smascherato dall’astuzia di Ulisse, il providus heros (698), l’eroe prudente, l’uomo sollers (110) accorto. Achille, infatti, è simplex nimiumque rudis (172), ingenuo e troppo inesperto, qui callida dona / Graiorumque dolos variumque ignoret Ulixen (846 - 847) tale che ignora i doni scaltri e gli inganni dei Greci e il versatile Ulisse. Questo varius ricorda il πολύτροπος di Omero, il versutus di Livio Andronico e la consumata volpe di Sofocle[32]. Poco più avanti il Laerziade è qualificato come acer Ulixes (866), acuto e pure duro.
Massimo de Rigo
Ulisse e la Montagna del Purgatorio
In questo poema incompiuto[33] della fine del I secolo d. C., dunque, il Laerziade è astuto e subdolo ma non malefico, sebbene il disvelamento del vero Achille comporti lì per lì il dolore di Deidamia che amava il giovane già scoperto quale maschio da lei e per giunta aspettava un bambino[34] da lui, cui si era unita furtivamente; poi costerà la vita allo stesso Pelide morto ante diem sotto le mura di Troia. 

                                                                                                             
Ma veniamo a Dante che diffida dell’intelligenza troppo libera.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio / Quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi / E più lo ingegno affreno ch’i’non soglio, / perché non corra che virtù nol guidi.
Sono i versi (Inferno XXVI[35], 19 - 22) di preludio all’episodio di Ulisse, il πολύτροπος, πολύμητις, πολυμήχανος dell’Odissea, l’uomo che se la cava sempre in questo mondo poiché è complice con la realtà delle cose[36].
Omero però, come dicevo, è ben lontano dal condannare Odisseo: nell’Iliade il Laerziade è un uomo non bello[37] ma capace di parlare e di sedare un tumulto dell’esercito[38] che invece Agamennone, il capo della spedizione, non sa controllare. L’Itacese, infatti, possiede l’arte politica che “consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio”[39].
Paura dell’intelligenza dunque in Dante, elogio dell’intelligenza come forza suprema dell’uomo nei poemi omerici, soprattutto nell’Odissea che è un grande campo di battaglia degli intelligenti contro la brutalità primordiale, oppure contro la stupidità civilizzata. Da una parte stanno Odisseo, Penelope (περίφρον[40] molto saggia), Telemaco (πεπνυμένος[41] ispirato) ; dall’altra i Ciclopi, i vari mostri primordiali, i giganti, gli eterni nemici della cultura, e i Proci oziosi, capaci solo di gozzovigliare dalla mattina alla sera.



continua



[1] Cfr. Odissea, XI, 556.
[2] Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 221 - 225.
[3] pro; ~ tou’kakivstou kajk kakw'n jOdusseuv~ (384)
[4] Secondo una leggenda Anticlea, la madre di Odisseo, prima delle nozze con Laerte, avrebbe avuto una tresca con Sisifo, famoso per i suoi inganni, e da questa relazione sarebbe nato Odisseo
[5] i{n j h[qh mh; mavqoi kakw'n brotw'n” (v. 709),
[6] ejgw; d j, ejn ajndro; " eujsebestavtou trafei; " - Ceivrwno", e[maqon tou; " trovpou" aJplou'" e[cein" (vv. 926 - 927)
[7] Poikivlo~ ajei; pevfuke tou’t j o[clou mevta” (v. 526)
[8]Padeia 1, p. 69.
[9] o{" c j e{teron me; n keuvqh/ ejni; fresivn, a[llo de; ei[ph/", Iliade IX, v. 313.
[10] Iliade IX, 682 - 683
[11] Iliade, IX, 650 - 655.
[12] Si pensi alla rivendicazione di Prometeo nei confronti della propria tasgressione: “eJkw; n eJkw; n h{marton, oujk ajrnhvsomai
 (Prometeo incatenato, 266) di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò.
 Queste parole del Titano ribelle forniscono una legittimazione all'ira di Zeus e argomenti a Nietzsche in La nascita della tragedia per nobilitare "la concezione ariana" del peccato attivo: " La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la dignità conferita al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo come vera virtù prometeica" F. Nietzsche. La nascita della tragedia, p. 69.
[13] Ippia minore, 372 d
[14] Da calamistrum, “ferro per arricciare i capelli” (ndr).
[15] Da fucus, “tintura rossa” (ndr).
[16] Da ascisco, “annetto” (ndr).
[17] Cfr. Virgilio, Georgica IV: spretae Ciconum quo munere matres - inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi - discerptum latos iuvenem sparsere per agros” (vv. 520 - 522) spregiate da questa fedeltà (a Euridice) le donne dei Ciconi fra riti religiosi e le orge di Bacco notturno, sparsero per i vasti campi il giovane fatto a pezzi.
[18] Dante, Inferno, XXX, 98. Sinone si trova nella X bolgia dell’ottavo cerchio, tra i falsari, con la moglie di Putifarre “la falsa ch’accusò Giuseppo” (v. 97) e altri.
[19] Dante, Inferno, I, 73 - 74.
[20]Qui, come annota Servio, si segue la leggenda secondo cui Anticlea, la madre di Odisseo, prima delle nozze con Laerte, avrebbe giaciuto con Sisifo, figlio di Eolo, e ‘vasel d’ogni froda’, dal quale avrebbe avuto Odisseo” (E. Paratore, a cura di, Virgilio, Eneide, vol. III, libri V - VI, p. 292).
[21] Igino, Fabulae, 95.
[22] Plinio, Naturalis historia, 35, 129.
[23] Igino, Fabulae, 95.
[24] Cfr. la tragedia Filottete di Sofocle.
[25] Raccontata nel X libro dell’Iliade.
[26] Cfr. Iliade XVIII, 478 ss.
[27] cfr. Giovenale a proposito di tutti i Greci - graeculi: natio comoeda est Satire, III, 100.
[28] Gorgia, Encomio di Elena, fr. B11 Diels - Kranz.
[29] Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 8.
[30] Shakespeare, Tito Andronico, V, 2.
[31] Penelope Ulixi.
[32] Nel Filottete di Sofocle, Odisseo, la consumata volpe, chiarisce al giovane Neottolemo il percorso che l’ha portato a prediligere la γλῶσσα rispetto agli ἔργα: ἐσθλοῦ πατρὸς παῖ, καὐτὸς ὢν νέος ποτὲ / γλῶσσαν μὲν ἀργόν, χεῖρα δ᾽ εἶχον ἐργάτιν: / νῦν δ᾽ εἰς ἔλεγχον ἐξιὼν ὁρῶ βροτοῖς / τὴν γλῶσσαν, οὐχὶ τἄργα, πάνθ᾽ ἡγουμένην (vv. 96 - 99), figlio di nobile padre, anche io da giovane un tempo, avevo la lingua incapace di agire, la mano invece operosa; ora però, giunto alla prova, vedo che per gli uomini la lingua ha la supremazia su tutto, non le azioni. Il Laerziade quindi suggerisce la frode al giovane figlio di Achille cui giustamente ripugna τa; ψευδῆ λέγειν (v. 108), dire le menzogne. La parola, infatti, è un’arma potentissima, dal doppio taglio come si è visto.
[33] Stazio morì nel 96, poco prima di Domiziano che lo proteggeva.
[34] Che sarà chiamato Neottolemo.
[35] Cerchio VIII, bolgia VIII consiglieri fraudolenti.
[36] Ulisse è l’eroe polùmetis (scaltro), polùtropos (versatile) e poluméchanos nel senso che non manca mai di espedienti, di pòroi, per trarsi d’impaccio in ogni genere di difficoltà, aporìa ecc.. La varietà, il cambiamento della metis, sottolineano la sua parentela con il mondo multiplo, diviso, ondeggiante, dove essa è immersa per esercitare la sua azione. È questa complicità con il reale che assicura la sua efficacia. Cfr. M. Detienne - J. P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, p. 3 e sgg..
[37] Nell’Iliade si trova anche qualche indicazione sull’aspetto fisico di Odisseo. Nel terzo canto Priamo chiede a Elena di identificare i capi dei guerrieri Achei visibili dalla torre presso le porte Scee; uno gli parve μείων μὲν κεφαλῇ Ἀγαμέμνονος Ἀτρεΐδαο, / εὐρύτερος δ᾽ ὤμοισιν ἰδὲ στέρνοισιν ἰδέσθαι (vv. 193 - 194), più piccolo della testa di Agamennone Atride, ma più largo di spalle e di petto a vedersi. La maliarda rispose che quello era Odisseo esperto di ogni sorta d’inganni e di fitti pensieri (v. 202). Antenore aggiunge che l’aveva visto una volta a Troia, in ambasciata con Menelao, e quando i due erano seduti, era più maestoso Odisseo, ma quando stavano in piedi, Menelao lo sovrastava delle larghe spalle: στάντων μὲν Μενέλαος ὑπείρεχεν εὐρέας ὤμους (v. 210). Ulisse, in piedi, se non parlava, sembrava un uomo ignorante o addirittura uno furente e pazzo, ma, quando parlava, dal petto mandava fuori parole simili a fiocchi di neve d’inverno (v. 222), ossia manifestava la potenza della natura, e allora non si provava più meraviglia per l’aspetto. Plinio il Giovane dà una spiegazione di questo stile oratorio affermando di preferire fra tutte illam orationem similem nivibus hibernis, id est, crebram et assiduam, sed et largam, postremo divinam et caelestem (Ep. I, 20), quell’eloquenza simile alle nevi invernali, cioè densa e serrata, ma anche copiosa, dopo tutto divina e scesa dal cielo. Probabilmente Ovidio aveva in mente questi versi dell’Iliade scrivendo: Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas (Ars Amatoria, II, 123 - 124). Bello non era ma bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d’amore le dee del mare. S. Kierkegaard cita questi versi nel Diario del seduttore, p. 75.
[38] Nel secondo canto del poema più antico, Odisseo, simile a Zeus per intelligenza (Διὶ μῆτιν ἀτάλαντον, v. 169) riceve da Atena il compito di trattenere la fuga dell’esercito acheo da Troia con blande parole (ἀγανοῖς ἐπέεσσιν, v. 180). La dea per rivolgersi all’eroe utilizza un epiteto formulare (πολυμήχανος, v. 173, ricco di risorse) il quale lo caratterizza come uomo intelligente e capace.
[39] J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, p. 48.
[40] Odissea, XVI, 435.
[41] Odissea, I, 367; III, 21. 

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