martedì 27 dicembre 2016

Adriana Pedicini, "Il fiume di Eraclito". Poesie


Adriana Pedicini
Il fiume di Eraclito
Poesie
Editore Mnamon, 2015

Ho letto questa bella raccolta di poesie di Adriana Pedicini. Nella prefazione l’autrice scrive: “il fil rouge delle liriche che compongono la raccolta è il Weltshmertz (il soffrire universale) già cantato dei romantici senza patetismo ma con  intensa commozione (p. 7).
Già in queste  pagine del prologo si sente la presenza  nobile e antica dei classici greci e latini: altri temi anticipati sono “il mistero che ci circonda”, l’angoscia che proviene “da tale buio”, “il tempo impietoso” che “non concede tregua” e l’abisso che “alla fine ci attende” e non possiamo evitare. A questo proposito la Pedicini cita i versi conclusivi della seconda strofe del primo stasimo dell’Antigone di Sofocle.

Traduco qui l’intera strofe siccome prefigura alcuni contenuti e significati di questa raccolta.
L'uomo ha imparato a organizzarsi e a difendersi da tanti  nemici, sia interni sia esterni, ma non ha mai trovato  un rimedio risolutivo contro la morte .
“E la parola, e pari al vento il
pensiero, e a regolare gli istinti con le leggi
della città ha imparato, e a fuggire
degli inabitabili geli gli strali a cielo scoperto
e gli scrosci delle piogge terribili
con ogni risorsa; senza risorse per niente va
verso il futuro; da Ade soltanto
non potrà procurarsi lo scampo;
eppure da malattie immedicabili ha escogitato
vie di uscita" (Antigone, vv 353-364).

Dunque è dissennato mancare di rispetto alla vita, commenta Adriana,   in quanto è “l’unico bene che possiamo saggiamente amministrare, senza esserne peraltro possessori” (p. 8).
Viene in mente Epitteto che scrive: “ricorda che sei attore di un dramma (mevmnhso o{ti upokrith;ς ei\ dravmatoς ),  ma il regista è un altro, e il tuo compito è recitare bne (uJpokrivnasqai kalw'ς) il ruolo che ti è stato assegnato (to; doqe;n provswpon) [1].
L’individuo però è spesso fuorviato dalla tracotanza (u{briς) “in alcuni casi  correlata a una radice di male più profonda e lontana, frutto di una eredità di colpe che risalgono a un passato precedente la sua esistenza: la catena delle “maledizioni” risale allora alle origini remote della stirpe” (p. 8).
E’ quanto si legge, per esempio, nei Sette a Tebe di Eschilo  dove il protagonista Eteocle non è personalmente colpevole ma deve pagare per  "la trasgressione antica
dalla rapida pena
che rimane fino alla terza generazione:
quando Laio faceva violenza
ad Apollo che diceva tre volte,
negli oracoli Pitici dell'ombelico
del mondo, di salvare la città
morendo senza prole;
ma quello vinto dalla sua dissennatezza
generò il destino per sé,
Edipo parricida
 che osò seminare
il sacro solco della madre, dal quale nacque
radice insanguinata,
e fu la pazzia a unire
gli sposi dementi"(vv.742-757).

Quindi la Pedicini menziona  opportunamente un altro aspetto cruciale, decisivo di non poche tragedie: il tw'/ pavqei mavqoς, la comprensione attraverso il dolore “l’unico veicolo possibile della conoscenza” (p. 8).

 Il tw'/ pavqei mavqo~ dell’Agamennone (v. 177) di Eschilo  ritorna in altre forme e in altri autori, antichi e moderni
Faccio solo un esempio:   nell'Alcesti  di Euripide. Admeto, sentendo e soffrendo il peso della  solitudine dopo che ha chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw", condurrò una vita penosa: ora comprendo (v.940). In seguito a questa resipiscenza, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.

Ora vediamo una poesia di Adriana, quella che spiega la scelta del titolo dell’intera raccolta

Panta rei (p. 83)
Un giorno trascina l’altro e sono tanti
inutile dividerli in ieri oggi domani.
Il fiume va sempre al mare
dal cielo sempre la stessa pioggia,
sempre uguale.
Passano nell’aere le nuvole del tempo.
Il nastro rosa celeste della vita
s’intreccia al nero viola della morte.
La memoria non contiene tutto
si ferma al particolare
e lo fa eterno.

Questi versi raccolgono in una sintesi densa e mirabile ciò che in questo mondo  si squaderna davanti ai nostri occhi mortali: il tempo, il cielo, il mare, la terra.
Leggendo questa e altre poesie del volume, si vedono davvero eternati alcuni aspetti  di questo nostro rapido esistere, notati con un’attenzione precisa, filologica, eppure  piena di meraviglia devota e commossa davanti al mistero di una natura che è piena di dèi e induce la persona sensibile a sentirsene parte vivente. 

Leggiamo anche la poesia Resurrexit (p. 39)
Ho camminato su sentieri innevati
dove l’aria profumava di fresco
e il passo morbido non ledeva
le genziane nate da poco.
Le zolle brune e i pascoli mansueti
occhieggiavano sulle bianche macchie
dove il ragno spandeva il suo calore.
Sottili dai boschi colavano
rivoli d’acqua e la cascata bucava
con vorace scroscio la roccia.
In rapido corteo le nuvole
giocavano a rincorrersi
dispettose l’azzurro nascondendo,
il vento rapendole al cielo
in lunghi veli le sfrangiava
di angeli dalle ampie ali.
Dalle piume
come da piccole canne
di organo nascosto
saliva la melodia
del Resurrexit.
E l’eco lontana
nell’azzurro errabonda
al cuore giungeva
a placare le onde inquiete
di mille domande.

Il passo che “non ledeva le genziane nate da poco”  ci dice il sacro rispetto davanti a questa natura creata dal più bravo degli artisti come afferma Platone nel Timeo[2].
Anche il ragno in questa opera d’arte ha la sua funzione positiva per la vita. Molto bella, plasticamente bella l’immagine della cascata che “bucava con vorace scroscio la roccia”. Le nuvole dispettose che nascondono l’azzurro fanno pensare a ragazzine capricciose, e le ampie ali degli angeli dalle piume sonore evocano il canto delle Moire sull’armonia delle sirene nel mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone. Questa poesia mostra che tutta la natura è imparentata con se stessa[3], tutto scorre e interferisce insieme, e tale visione placa “le onde inquiete” del cuore.


giovanni ghiselli  





[1] Egceirivdion 17
[2] Dove si legge che Dio, creatore di un cosmo bellissimo,  è il migliore degli autori. Se il cosmo è bello (eij me;n dh;  kalovς ejstin o{de oJ kovsmoς) l’artefice è buono (o Jdhmiourgo;ς ajgaqovς).  Il demiurgo,  (a[ristoς tw̃n aijtivwn), ha guardato al modello eterno (pro;ς to; ajivdion e[blepen). Sicché il cosmo è la più bella tra le cose nate (kavllistoς tw̃n gegonovtwn 29a).
[3] Cfr. Platone,  Menone,  82d th'" fuvsew" ajpavsh" suggenou'" ou[sh" ,)

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