Epigrafe: “Quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat.”
La mattina seguente volgemmo i manubri, timoni e prue delle bici, di nuovo verso occidente per arrivare a San Nicolas dove avremmo preso il traghetto del ritorno a Egion. Il vento soffiava ancora da ovest e ostacolava il nostro procedere. Non sarebbe stato un problema serio, ma Ifigenia lo rendeva addirittura tragico. Colei, lo ribadisco, quando incontrava ostacoli (problhvmata appunto), anche sormontabili con poca pena, non cercava un aiuto nella propria forza mentale ma si lasciava travolgere da un sentimento confuso, ottuso, cattivo e diventava aggressiva, furiosa, odiosa per me.
Finalmente giungemmo a San Nicolas: era circa il meriggio. Aspettammo il traghetto seduti sulla riva del mare.
Ricordai la prima volta che giunsi in quel luogo ameno con Fulvio e la mia costola incrinata dolorante nel petto, a sinistra. L’amico mi rallegrò dicendo. “questo è il paradiso!”.
Ifigenia invece disse che in quel posto c’era un caldo da bolgia infernale. Probus l’amico celeste, improba l’amante nemica di se stessa e di me.
“L’inferno ce l’hai dentro”-pensai-hic Acherusia fit stultorum denique vita” [1].
Traghettati nel Peloponneso e sbarcati sul molo del porto di Egion, andammo di nuovo a sederci sulla riva marina. Appariva bianca di piccoli sassi che però, sotto la nostra pur leggera pressione, affondavano nella rena ungendosi di un liquido denso e scuro.
Poco dopo ci accorgemmo di avere i calzoncini, le gambe, le mani appiccicose, nere e imbrattate di sugna, tenace poco meno del masticione usato per la camera d’aria bucata, una pasta rossa e tenace che mi aveva impiastricciato le mani e la faccia nel ’78, quando giravo la Grecia da solo e non me la passavo peggio tutto sommato. Ci alzammo e camminammo un poco sulla riva sconcia. Ifigenia con tristezza e paura disse di avere un ritardo mestruale di tre settimane.
Cercai di parlarne ma la presunta pregnante non volle aggiungere altro. Eravamo afflitti. Dalla strada un kou`ro", un ragazzo, facendo gesti nervosi gridò: “Pollution! Don’t sit there! Don’t touch water!”
Ci allontanammo da quel luogo inameno senza provarne sollievo: sentivamo che c’era del marcio anche dentro di noi. Mi vennero in mente le cerimonie inquinate, i grandi adulteri e gli scogli sporchi di stragi delle Historiae di Tacito.
“Pollutae caerimoniae, magna adulteria, infecti caedibus scopuli” [2]ripetei queste parole tra me e ora le ricordo a te, dotto lettore.
Anche il nostro che era stato per lo meno vigoroso e vitale, era ormai diventato un rapporto fiacco e corrotto: un’adulterazione della grande passione iniziale. Non c’era equilibrio, né chiarezza, né fiducia, tra noi: la libidine grande, continua, dei festosi tripudi remoti si avviava alla fine con piccoli passi strascicati, senili, zoppicanti appoggiati a un bastone come l’Oedipus di Seneca.
Bologna 3 febbraio 2025 ore 17 e 6 giovanni ghiselli.
Entra ancora il sole ne mio studio. Oggi è il vero febbraio che pone termine all’inverno. Un mese benedetto da sempre. Anche più di giugno che pure ci ristora di luce e di calore. Ma dopo il 20, di fatto inizia a decrescere la luce e già comincio a presoffrire l’autunno. Quando arriva novembre ho già scontato il dolore del buio. Così ora a 60 anni suonati non mi dispiaccio troppo della mia decadenza: ho presofferto molto per tempo anche questa quando ancora danzavo e tripudiavo con le mie compagne dell’età più bella ancora prima di Ifigenia che è stata il 21 giugno nel campo amoroso.
"Quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat.” (Seneca, Agamennone, vv. 101-102), tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, lo solleva per atterrarlo.
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