"Non cesserò mai di unire/le Grazie alle Muse,/dolcissimo connubio./Che io non viva senza la Poesia/ma sia sempre tra le corone./Ancora da vecchio l'aedo/ fa risuonare la Memoria"(Euripide, Eracle, vv. 673-679).
Prologo
Nell’estate del 1973 dovetti darmi parecchio da fare per favorire il trasferimento a Bologna. L’abilitazione a tutte le scuole superiori non bastava. Si doveva andare in Provveditorato a conoscere, a farsi conoscere, a perorare. Avevo un’amica nella città dove volevo tornare a vivere: una donna che mi ospitava in casa sua e perorava pure lei.
Dovevo impiegare anche il tempo delle vacanze estive adoperandomi pro reditu meo dall’esilio. Sicché dopo due o tre giorni passati a Debrecen fui costretto ripartire per non perdere un’occasione che avrebbe favorito il reditus nella città agognata. A Bologna non c’è il mare che mi manca molto però era la città che mi aveva offerto di più in termini di civiltà e lo è stata anche dopo il ritorno. Per giunta le zie mi avevano comprato una casa dove avrei smesso di essere inquilinus civis, praticamente un meteco come ero a Padova nonostante l’appartamento nella piazza centrale. Per giunta l’affitto me lo pagava la zia Giulia, altrimenti non mi sarebbero rimaste le lire per una vita pur trita e parca una volta pagato l’esoso locatore.
Volevo proprio tornare nella città che consideravo la più significativa e oblativa tra le altre della mia vita. Sapevo che poteva offrirmi in termini di rapporti umani, di cultura, con l’Università le biblioteche e il cinema, di vita politica partecipata da molti, di salite a ridosso della città con strade da scalare in bicicletta, ben più di Padova dove pure vivevo nella piazza centrale, e più di Pesaro ove avevo ancora la casa in zona mare, la mamma, la nonna e le zie. Il nonno era morto novantunenne nel 1969 in seguito a una caduta dalla bicicletta. Si era rotto il femore che all’epoca non veniva operato in un novantenne e gli avevano detto che non sarebbe più andato in bicicletta. Per lui fu una sentenza di morte: smise di mangiare. Credo che l’avrei fatto anche io.
La vita senza bici non è vita. Dal nonno materno ho avuto l’eredità più grande: il talento ciclistico e la volontà di coltivarlo con un amore grande quasi quanto quello per le donne. A Pesaro mi dicono ancora che assomiglio al babbo di mia mamma, Carlino il ciclista toscano. Ne sono fiero e contento.
Nel luglio del 1974, ottenuto il trasferimento a Bologna e concluso l’ultimo anno di insegnamento nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta, tornai a Debrecen dove la sera dell’Ismerkedési este[1] ebbi un’esperienza erotica che mi parve poco importante con Cornelia, una ragazza che cinque anni più tardi, nell’anno secondo di Ifigenia, mi avrebbe detto frasi [2], piene di educazione attiva, tanto da lasciarmi un segno più forte, profondo e positivo di quelli che ricevetti senza notarli nell’insulsa, precipitosa avventura di quell’estate già remota e strana nel 1979.
Le parole belle danno luce al pensiero e alla vita.
Nel 1976 Cornelia mi avrebbe pure ospitato a Berlino est in un appartamento a due passi dal Museo di Pergamo.
Sarebbero stati giorni
meravigliosi in una città mirabile ora calunniata da quasi tutti per come era
in quel tempo.
Ma torniamo ad temporum ordinem. Nell’estate
del ’74 dunque, due giorni dopo avere conosciuto questa ragazza tedesca, allora
studentessa di filosofia, pur carina e intelligente, conobbi una donna che mi
piaceva di più: mi apparve subito di aspetto attraente, poi la considerai
persona di grande formato mentale e con lei, per tutto il mese seguente, vissi
un amore grande, tra i più significativi, e denso di conseguenze nella mia vita
mortale, una relazione breve ma varia: molto gioiosa prima, poi pensosa e dubitosa, infine assai dolorosa,
comunque funzionale al reperimento della mia identità di studioso ancora non definita
bene.
Era già tempo: il 14 novembre seguente avrei compiuto trenta anni.
Dovevo evitare che a
questo decennio decisivo succedesse “l’età cupa dei vinti” (2 bis)
Era finnica pure lei: la terza molto importante della serie iperborea. Era la
persona di cui avevo bisogno per iniziare un lungo periodo di studio serio e di
pensieri miei. Chiacchiere ne avevo fatte abbastanza, fin troppe anzi, non
senza bevute e mangiate, sebbene quasi sempre smaltite con corse a piedi e
scalate di montagne in bicicletta.
Arrivato all’età virile, sentivo l’esigenza di iniziare un’altra vita, più impegnativa, più mia. L’estrema delle mie finniche, l’ultima tra queste donne arrivate dall’ultima Tule[3], da psicologa brava qual era, mi rese manifesto questo sentire latente. Se sono diventato una persona desiderosa e capace di apprendere, se ora sono in grado di dare qualcosa di utile e di bello a chi mi ascolta e a voi fortunati molti che mi leggete, lo devo in buona parte a quella donna. Oltre ai genitori che mi hanno dato la vita beninteso, a me stesso che ho saputo valorizzarla, e agli studenti che mi hanno ascoltato con attenzione.
L’estate del ’74 fu l’estrema e definitiva in cui amai una finnica a Debrecen,
dopo averla vista e riconosciuta come simile a me, o creduta tale, nel grande
cortile d’onore dell’Università. Con questa storia concludo dunque la trilogia
finlandese.
Come la vidi, mi parve che in ogni tratto del viso, del corpo e dei lunghi capelli rossi risplendesse un’anima nobile.
Le vicende però andarono maniera capovolta rispetto alla terza tragedia dell’Orestea di Eschilo: nel finale ci sarà una metamorfosi negativa e l’Eumenide prima benefica e buona, diventerà poi un’Erinni ostile, feroce. Una bipede leonessa dagli artigli spietati
Note
[1] Festa della conoscenza
[2] Le racconterò in un capitolo successivo, se Dio vorrà.
2 bis Cfr, Gozzano, I colloqui , 13
[3] Cfr. Virgilio Georgica I, 30
Bologna 13 marzo 2025 ore 17, 09 giovanni ghiselli
p. s.
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