sabato 15 marzo 2025

La storia di Päivi. 18 Il Budaörsi kollegium di Budapest, monumento del nostro amore. Bella ciao.

 

Nel 1974, dopo il mese di Debrecen, il corso estivo ebbe un’appendice di qualche giorno a Budapest. Di lì facemmo una gita a Visegrád, situata su un’ansa del Danubio, dove il grande fiume divide l’Ungheria dalla Slovacchia. A Buda eravamo alloggiati nell’enorme Budaörsi kollegium dove potemmo avere una camera tutta per noi: la 717 del settimo piano. Il collegio era tutt’altro che ameno; non era per niente vicino alle strade del centro dove la città sfoggia gli edifici belli, come fa una donna vanitosa con i vestiti eleganti, i monili raffinati e le pietre preziose.

Eravamo dunque lontani da luoghi piacenti, da posti  gradevoli e da ogni bellezza costruita, scolpita o dipinta. Eravamo comunque felici. Ricordo un pomeriggio. Affacciati all’alta finestra, senza avere niente da fare, né compagni da frequentare siccome molti erano già partiti, né i nostri libri da leggere, aspettavamo la pioggia da una nuvola inquieta che prima aveva trasformato il sole splendente in un’ombra arancione, poi l’aveva cancellato del tutto, quindi  si era allungata in un cono nero e vorticoso fino alla collina del Gellert, risucchiando con il suo turbinare le foglie già cadute da tempo e diventate secche nella polvere della lunga canicola già prossima al termine. La vacanza era quasi finita, finiva l’estate, probabilmente anche l’amore nostro era vicino all’ultimo giorno, e stavamo là senza far niente. Eppure tra noi non c’era angoscia né noia. La pena non c’era perché sentivamo che i doni reciproci sarebbero comunque rimasti a nutrire e arricchire per sempre gli spiriti nostri. Il tedio nemmeno, siccome tra noi lo scambio di idee e sentimenti dettati dalla simpatia e dalla curiosità dell’uno per l’altra era ancora vivace e frequente.

Gioivamo di ogni istante spremendolo in bocca, con i denti, la lingua e il palato, come se quei minuti fossero un alimento prezioso che ci avrebbe nutrito per anni. A questo punto della parabola ne sono passati quasi cinquanta. E ancora quel sapore di vita, di vita felice rimane e consola.

Le nostre parole, sebbene non dette nella lingua madre, sapevano di lavoro, di umanità, donne bambini e uomini, di fatti reali o progettati. Insomma il nostro parlare non era mai un ciarlare ozioso. Vedevamo ogni cosa come problema, un ostacolo che ci faceva saltare e salire sempre più in alto.

Dopo quei brevi giorni felici vissuti al Budaörsi, se passo davanti a quel mausoleo dove riposano i nostri ricordi, situato come un guardiano alla porta occidentale di Budapest, a sinistra per chi proviene dall’Italia e dal Balaton, mi fermo a osservare l’alta facciata grigia, individuo la camera nostra, la 717 del settimo piano, la contemplo a lungo, ricordo la sera nuvolosa che segnò la fine dell’estate del 1974, e mi chiedo quando troverò di nuovo una donna dalla mente così lucida, dallo stile tanto elevato, e capace di non annoiarmi mai con la sua presenza, di non prosciugare né intorbidare le mie energie mentali, di non farmi sciupare il tempo prezioso, il tempo pur troppo breve di questa vita mortale che scorre a precipizio sulla nostra magnifica madre terra.

Il tempo è  l’unico bene che considero veramente mio: “omnia ()  aliena sunt, tempus tantum nostrum est”1. Tanta roba mi hanno rubato, ma il tempo non me lo sono mai lasciato portare via da nessuno.

Il tempo odierno, che del resto già si era già annunciato allora da quasi un anno con l’assassinio di Allende, è quello del ritorno dell’invasore. C’è l’ invasione della prepotenza associata con l’ignoranza. “Bella ciao” era  cantata allora. Oggi la canto  da solo cominciando così : “questa mattina mi son svegliato e ho ritrovato l’invasor”.

La nostra bambina non è venuta al mondo perché una figliola mia non poteva e non voleva nascere in un modo tanto sconciato.

 

Nota

[1] Seneca, Epistulae, I, 3.


 Bologna 15 marzo 2025- ore 19, 43  giovanni ghiselli

 

 

 

 

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