mercoledì 18 dicembre 2013

La scuola corrotta nel paese guasto. I capitolo



Moena
La settimana bianca a Moena nel marzo del 1981. Le sciate riflessive sull'Alpe di Lusia e di Pampeago. Il rimpianto dell'estate del 1971 con Helena  Sarjantola.
La telefonata mancata e recuperata. La passeggiata alla malga Peniola e alla cappella della Vergine madre. L'incontro con Flavio"lo strullo". Altre sciate pensose. La camminata sotto le stelle amiche. Il giorno di sole. La telefonata tragica . Il caffé senza zucchero. La telefonata del rabberciamento.
Il primo marzo del 1981, mentre sciavo sulle nevi del Lusia, pensavo a Ifigenia. Quella ragazza, più di ogni donna, mi aveva spinto ad agire per diventare migliore secondo il corpo e secondo la mente.
Mi aveva indotto a scalare montagne impervie, a correre i 5000 metri in 18 minuti e venticinque secondi, mi aveva aiutato a vincere gare davvero olimpiche con gli altri e con me stesso, mi aveva invogliato a fare l'amore centinaia e centinaia e centinaia di volte.
Perciò dovevo scrollarmi di dosso la rovinosa educazione della pretaglia sedicente cristiana che già aveva distrutto Ludwig II di Baviera, trasformando il suo ardente desiderio di baci in deleterio senso di colpa; e dovevo fidarmi dell'amore di lei che negli ultimi giorni oltretutto mi aveva teso una mano. La crisi che stavo attraversando non era una cosa solo cattiva, poiché mi faceva riflettere; però oramai era tempo di uscirne per vivere meglio.
All'ora di cena le telefonai riferendo questi pensieri. Sembrava disposta bene anche lei.
Il due marzo andai sull' alpe di Pampeago, sopra Predazzo. Il sole non c'era e tirava un vento gelato. Avevo cambiato disposizione mentale, e non in meglio. Quando non abbiamo affetti sicuri, né un forte autocompiacimento, né un equilibrio saldo, il tempo atmosferico influisce assai sull'anima debole e vacillante.
Sul mezzogiorno, non potendone più dell'aria  fredda e scura, entrai in un rifugio di latta e di legno, riscaldato con una stufa.
Quando mi fui seduto con una bottiglia di birra, una radio diffuse il canto antico della Sarjantola biancovestita: "Summertime, when the living is easy "[1].

Rividi il suo volto ridente nella notte d'estate sotto gli alberi strani tra le cui foglie biancheggiava la luna e comparivano or sì or no le stelle,  vaghe e luminose come occhi di ragazze timide eppure
contente di un avvenire lieto, ricco di eventi meravigliosi. Dalla memoria, nel cuore
gocciava il ricordo di quei giorni lontani. Per converso pensai che
Ifigenia era stanca di me, io ero nauseato di lei, e il nostro
rapporto era marcio.
Con Helena Sarjantola era una gioia vederci, andare a zonzo ogni giorno, era
una scoperta parlare delle nostre vite e culture, lontane e diverse;
ed era anche possibile lasciarsi andare, sia pure con garbo: giocare
come bambini, senza sfiducia e sospetti. Poi era estate, i dì
scivolavano lisci, dolci, senza dolore, verso tramonti purpurei,
lunghe sere rosate, piene di voli ; eravamo in vacanza, tra amici, e
ci godevamo la vita. Negli ultimi mesi invece, dovevo misurare
ogni parola, siccome Ifigenia era pronta a criticarmi per sospetto che io volessi fare altrettanto con lei.
Confrontando le due situazioni distanti tra loro dieci anni nel
tempo e ancor più nel mio cuore, piansi di nostalgia e mi chiesi
quando sarebbe rinata una situazione ricca di affetti e di
eventi pieni di gioia. Pensavo alla guerra perenne che avevo dovuto
combattere contro  avversità dolorose spinto dal desiderio della
felicità che poteva essere solo una donna degna di me. Avevo
ottenuto qualche successo parziale, anche tre o quattro trionfi, ma
la vittoria definitiva mi era sfuggita sempre. Però non avevo fatto
del male a nessuno, e i progressi c'erano stati comunque. Perciò
non ero fallito del tutto, e non ero cattivo.
Finita l'antica canzone, uscii dal rifugio un poco ebbro di birra. Il
vento si era addolcito. Guardai il cielo che si rischiarava sopra le
montagne, umide per il disgelo e luccicanti nelle piante prossime a
germogliare. Rimasi fermo a osservare, finché provai un
sentimento di riconoscenza per la natura, per tutte le creature che
mi avevano accolto con simpatia, e per la vita stessa che non mi
aveva mai rinnegato del tutto.
Alle otto di sera, quando le telefonai, però Ifigenia non era in
casa. Il fratello disse che forse era andata alla scuola di recitazione
. Poiché la mia
chiamata era prestabilita e concordata, fui preso da un'angoscia
soffocante. Salivo a stento la scala di legno dell'albergo per
arrivare in camera, chiudermi dentro e buttarmi sul letto.
Barcollavo con il corpo e con lo spirito: come uno spastico non
riuscivo ad armonizzare i movimenti somatici né a dominare le
convulsioni continue della mente ferita.
Rimasi dieci minuti disteso a domandarmi perché quella ragazza
indefinibile mi avesse lasciato: doveva averne trovato uno che le
piaceva o conveniva di più; però in un caso del genere, dopo due
anni e mezzo che si sta con un uomo, si prende tempo, ci si pensa,
se ne parla con lui, prima di andare con un altro: non si butta via in
poche ore una relazione lunga e non del tutto immonda come la
nostra. In effetti sarebbe finita in tale maniera. Non era questo lo
schianto finale, ma lo prefigurava: la sera del due marzo,
presentivo e presoffrivo la notte compresa tra il dodici e il tredici
giugno.
Appena ebbi recuperate le forze, per evitare che mi scoppiasse la
testa, decisi di uscire e camminare sotto le stelle che vedono tutto.
Quando fui in fondo alle scale però, come dio volle, il portiere
disse che mi aveva cercato una signorina, Ifigenia, e aveva
lasciato detto di chiamarla a casa, appena fossi tornato. Corsi in
cabina con i venti gettoni che mi portavo in tasca sempre, come
quando ero rinchiuso in caserma e nell'ospedale militare.
Afferrai l'apparecchio, feci il numero con mano tremante. Rispose
lei.
"Ciao tesoro, scusa il ritardo, ma sono tornata a vedere Ludwig
per sentirmi in qualche maniera vicina a te. Dopo, ho fatto una
corsa bestiale per arrivare in tempo: l'autobus non arrivava mai.
Scusami".
"Prego, prego-risposi- prego, però mi sono preso paura che ti fosse
successo qualcosa".
"Mi è successo che senza di te la mia vita è incompleta, e io non
funziono bene. Io ti amo tanto".
"Anche io". Nonostante l'aria chiusa della cabina, il petto mi si era
aperto e riempito di salute, di forza, di gioia.
"Adesso vado a fare due passi e a pensarti con riconoscenza per
quanto mi hai detto: sono proprio felice".
Uscii nella notte illune, raggiante di felicità. Ringraziavo gli dei e
il mio destino di non avermi privato troppo per tempo di una
donna siffatta.
Il tre marzo sciai di mattina; nel pomeriggio, per variare le
interminabili ore di solitudine, camminai verso la Malga Panna.
Quando ci fui arrivato, continuai per il sentiero sdrucciolevole che
porta alla Malga Peniola. Era una giornata calda, quasi afosa: il
cielo appariva gonfio di nuvole giallognole e acquose; la neve,
corrosa da un vento dolciastro, si liquefaceva.
Procedevo guardando gli alberi madidi e la terra fangosa: cercavo
visioni belle e confortanti: invano. Nell'anima  gocciava
l'angoscia. L'ultima telefonata non era valsa ad ammazzare i tarli
del mio cervello: continuavo a pensare che di Ifigenia non
potevo fidarmi. Nessun ragionamento potente o sottile, diritto o
contorto, valeva a correggere un sentimento così negativo e
profondo.
Sbucato dal bosco in una radura, vidi la Malga e la piccola chiesa
contigua. Una volta, forse nel '54, mi ci avevano portato le zie. Mi
avvicinai alla cappella. L'uscio era chiavato, ma l'interno si poteva
vedere da una finestrina quadrata, chiusa soltanto da due sbarre di
ferro arrugginite e disposte a formare una croce: dentro il
minuscolo tempio, di fronte alla rugginosa inferriata, c'era
un'immagine della deipara vergine.
"La vergine madre – pensai – sempre la storia dell'imene. Mentre
siamo bambini indifesi e suggestionabili, i preti ci impongono una
schifezza del genere. La madre perfetta fa i figli senza fare
l'amore. Se li prendi sul serio, quelli ti inibiscono la gioia amorosa
o te la rovinano con il rimorso. Vogliono dire che mettere al
mondo un figliolo secondo natura è
debolezza e peccato.
Insozzano ogni venire alla luce. Me l'hanno inculcato quando ero
piccino. Hanno fatto di tutto perché odiassi l'amore, gettando una
gran confusione dentro di me".
A un tratto, dalla malga uscì un uomo di pelle e capelli rossicci;
mi osservava e sorrideva come si fa con un buon conoscente, poi
mi venne vicino e domandò se avessi bisogno di qualche cosa.
"No, guardo soltanto".
Continuava a sorridermi. Mi accorsi che lo conoscevo.
Venticinque anni prima era un bambino un po’ ritardato.
"Ciao Flavio – gli feci –, come stai? ti ricordi di me?"
"No, chi sei?"
"Sono Gianni di Pesaro; negli anni Cinquanta venivo a Moena in
agosto; abitavo in via Damiano Chiesa. Facevamo le corse intorno
alla fontana del Turco. Eravamo piccoli allora. Che strano
rivederci qui da adulti!"
Continuava a sorridere. Teneva le mani in tasca. La stessa
espressione, lo stesso atteggiamento di allora. Probabilmente
anche io: in quel tempo ero un bambino spaurito; sembravo
sempre in procinto di piangere, dicevano alle due zie.
"Ti posso offrire un bicchiere di vino, Gianni?"
"Sì grazie, volentieri." Entrammo nella malga deserta e ci
sedemmo. Mi mostrò una bottiglia: Terodelgo Rotaliano , vino del
concilio di Trento. Pensai alla pretaglia carnefice dei miei sensi
amorosi, ma dissi che andava bene, che mi piaceva molto. Riempì
due bicchieri.
"Raccontami qualcosa di te e degli altri che giocavano con noi in
via Damiano Chiesa. Tu che hai fatto in questi anni?"
Balbettando rispose che aveva servito come facchino in un paio di
alberghi e aveva visto molta gente, persone per bene. Anche da
ragazzino non diceva male mai di nessuno. Le zie lo definivano "
lo strullo" e mi consigliavano di non frequentarlo troppo. A me non
dispiaceva: mi insegnava qualcosa con quel suo perpetuo sorriso.
Rimasi là un paio di ore: mi raccontò alcune storie di ex bambini
moenesi, nostri compagni di giochi. Non sentii una parola
malevola. Gli dissi di me, del mio lavoro con gli allievi adolescenti che mi
curavano l'anima . Poi gli chiesi se potevo invitarlo a cena, non in
via Damiano Chiesa purtroppo, ché la casa non era più della zia Giulia.
Rispose che doveva restare lì: custodiva la malga Peniola e la
chiesa.
Camminando verso l'albergo mi domandavo se quello "strullo"
non fosse migliore e meno disgraziato di me.

Il quattro marzo era un giorno ventoso, e così freddo da scorticare
le capre. Era una pena salire con la seggiovia e scendere con gli
sci, sempre agghiacciato dal vento che soffiava vortici duri di gelo
sulla mia povera faccia e sui visi cagnazzi[2] degli altri sciatori,
lividi tutti come le pietre dei monti. Io mi sforzavo di cacciare i
pensieri cattivi, di ripararmi dalle loro trafitture impietose. Ma
quelli, sempre vivi , continuavano a pungermi, senza concedermi
un momento di tregua. Per contrastarli, mi domandavo: "Cosa
starà facendo adesso nel nostro liceo la  creatura bella e soave
amata mihi quantum amabitur nulla?[3] . Starà facendo lezione, starà
seduta sulla cattedra oppure appoggiata a una parete? Beate voi sedie
e pareti che reggete il peso soave di quella ragazza !"[4]

Mi sforzavo di evocare sentimenti amorosi attingendo espressioni
dal mio repertorio di frasi belle e già fatte. Ciò nonostante i
pensieri malvagi non cessavano di pullulare, non smettevano di
brulicare nel  cervello, quale sciame di insetti molesti o groviglio
di vermi schifosi. Mormoravo:" Ifigenia non è la mia donna
ideale: non è luce per me[5] , né io lo sono per lei. Di corpo è bella
assai, ma il volto è poco espressivo. Ed è proprio l'intensità dello
sguardo che mantiene vivo a lungo l'interesse erotico e umano!".
Il pungiglione velenoso di quelle bestie immonde superava la
resistenza delle parole di Catullo, di Shakespeare, di Omero, e
scendeva a fondo nella carne viva dell'anima, trapanandola senza
pietà.
Il pomeriggio si fece vedere il sole che colorì il cielo, la terra e la
mia faccia, dandomi pure conforto. Pensavo:" Ifigenia è viva e
composita come questa natura. L'una e l'altra sono fatte di
splendidissimo sole e di nuvole fosche, di vento aspro e di
sorridente bonaccia. Del resto la pena e la gioia circolano per tutti
gli uomini come i volubili giri dell'Orsa. Non rimangono fisse per i
mortali né la notte stellata, né la sorte cattiva, né la salute, ma
rapidamente fuggono via ".

La sera  le riferii soltanto il meglio di ciò che avevo pensato.
Disse:"Tu sei intelligente gianni. Io ti amo".
"Anche io" conclusi.
In quel momento ero sincero. Se era capace di apprezzare la mia
intelligenza, non poteva che amarmi.
Quella notte il cielo era tutto sereno e le stelle brillavano con
speciale vigore sopra la valle di Fassa. Uscii e scesi verso Moena.
Arrivato in paese, cominciai a risalire la china dall'altra parte del
fiume Avisio, lungo la via dalla quale il  pomeriggio del giorno prima
avevo osservato un cielo umido e sporco, quasi fangoso. Sotto il
firmamento pulito, la terra era diversa, e io mi sentivo un'altra
persona. Dopo il cimitero, il viottolo non era più illuminato da
lampadine, sicché, camminando, potevo contemplare le stelle
senza disturbo: erano splendidissime come la mia compagna
vivace.
Passato il paesino di Sorte, c'è un chilometro di buio solitario e
scosceso. Si udivano ululati cupi e rauchi ringhi. Altre volte,
percorrendo quel sentiero ripido e tetro, avevo pensato con orrore
ai miei fallimenti sentimentali, all'isolamento affettivo e sociale in
cui mi trovavo, all'ora terribile della mia morte senza conforto di
donna e di figli. E avevo avuto paura. In quel momento invece
nulla mi sbigottiva: né i latrati insistenti, né la mia solitudine
eterna.
Sentivo una forza lietificante dentro di me, una luce di amore e di
giustizia che mi consolava dei fallimenti parziali e mi rendeva
sicuro del bene che avrei fatto durante il resto della mia vita
mortale. La questione della verginità e della condizione economica
di Ifigenia, di qualsiasi donna, diventava ridicola e falsa.
Poteva riguardare i ministri perversi di una religione corrotta e
capovolta, non me, non Dio, né Gesù Cristo e sua madre.
Dovevo usare il metro dell'intelligenza e dei sensi per misurare la
mia compagna, non i luoghi comuni.
Queste erano le riflessioni giuste, poiché mi davano forza e
coraggio. Gli ululati, che pure si facevano più rumorosi e
frequenti, non mi impaurivano. Continuavo a guardare le fiaccole
vive del cielo dove vedevo riflessa l'anima della mia donna;
osservavo le montagne scure, slanciate e profumate come i capelli,
la figura, la pelle di lei. Anche in me c'era un'anima viva che si
sentiva in armonia con la santa natura.
Il giorno dopo, il cielo si mantenne sereno, sicché mi abbronzai e
divenni più bello. Quando il dio tramontò, alle cinque e tre quarti,
gli chiesi la forza di amare per sempre la mia compagna e la vita.
Ma quella sera stessa ci fu una telefonata tragica. La chiamai alla
solita ora. Mi sentivo in ottima forma: snellissimo e molto
abbronzato. Avevo anche studiato per un paio di ore.  Ero
contento. La solitudine di Moena era quasi finita: la sera seguente
sarebbe arrivata lei alla stazione di Trento. Sarei andato a
prenderla con la bianca Volkswagen. La sua presenza radiosa
avrebbe disperso la poca malinconia residua, come il sole, in una
mattina di marzo, a mano a mano che si alza nel cielo, dirada le
brume, scalda la terra, e celebra feste di luce.
Feci il numero. Rispose Ifigenia.
"Ciao amore, sono gianni. Allora tesoro, ci vediamo domani? Mi
manchi tanto".
"Anche tu mi manchi", ripeté. Senza il “tanto”, però. Prima trafittura.
 E subito dopo,
come se avesse deciso di darmi l'angoscia, oppure fosse costretta
da un demone avverso alla prosecuzione del nostro rapporto, un
fato contrario ai desideri consapevoli di tutti e due, un destino conscio magari
di scopi più alti, aggiunse:"Tra poco arriva da Brescia la terza
cugina. Così ci troviamo tutte a casa di Maddalena. Parleremo fino a
tardi. Domani andrò a pranzo da loro".
Sentii una stretta nel petto, mi irrigidii, e con voce turbata feci:"
Significa che non vieni più qui a Moena?"
"No gianni, non voglio dire questo", rispose allarmata, avendo
compreso o ricordato che non mi faceva bene sentire nominare
quelle sirene maligne.
"Allora che cosa vuoi dire? Perché cominci una telefonata che io
avevo iniziato pieno di ottima disposizione, parlandomi delle tue
parenti di cui a me, bene che vada, non importa un fico ?
Sarebbe come se io, tutto contento, ti avessi detto: -Oggi ho
incontrato lo scemo del paese che mi ha proposto di ubriacarmi e
di andare in tanta malora con lui".
Ifigenia cercò di rimediare l'errore con parole dolciastre e
compassionevoli che provocarono la crescita della mia ira.
"Dai, non fare così; non rovinare tutto! Io ho molta voglia di
vederti, di stare con te, di darti tantissimi baci! Hai capito tesoro?"
"Sì ho sentito e ho capito che lasci a malincuore quelle tue
meravigliose parenti, e che quando sarai qua, mi rinfaccerai
l'eroica rinuncia al piacere di andare in discoteca con loro, come
hai fatto la notte di Capodanno tra i monti di Bratto. Questa volta
però pensaci bene: se devi venire quassù a farmi il muso, a
rimpiangere Bologna, restaci!
Ti richiamo tra un'ora per domandarti se davvero vuoi venire da
me, o preferisci restare là dove sei".
A questo punto Ifigenia si offese a sua volta e passò al
contrattacco.
"Ho capito - disse - ci penso. E tu telefona pure. Ma non qui a casa
mia, perché adesso esco. Vado dalle mie cugine. Se vuoi ti do il
numero".
"D'accordo, dammelo. Ti richiamo più tardi". Guardai l'orologio:
erano le otto e mezzo. "Verso le dieci".
Ci salutammo con rancore. Uscii per cercare conforto nel cielo
stellato. Ma sembrava gremito di faci maligne, accese dal re
dell'inferno. Avevo di nuovo l'inferno nel cuore.
"Possibile che quella enorme, eterna cretina non sappia dire una
parola senza darmi l'angoscia? Anche oggi che ero riuscito ad
armonizzare discretamente gli scombinati pezzi dell'anima mia, la
disgraziata ha voluto spezzare e confondere tutto di nuovo".
Ancora una volta facevo il cammino dagli ultimi alberi del bosco
orientale, ai primi della grande foresta che sale sul Latemar
orlando e coprendo di nero la parete occidentale della valle di
Fassa.
Rabbrividivo al gorgogliare dell'acqua che scorre in mezzo al
paese; mi spaventava il fruscio leggero di un'ala, come il cupo
ululato delle cagne rabbiose nelle tenebre cieche. Sentivo il
desiderio di tornare in albergo, di non fare alcuna telefonata alla
donna che aveva guastato il mio delicato accordo con me stesso e
con lei.
Ma sì, che andasse pure a ballare nelle discoteche immonde con quelle
 della sua razza, con i tangheri più stupidi e oziosi; si
immergesse nella lurida feccia dalla quale l'avevo elevata due anni
e mezzo prima, quando  era stanca
della sua vita balorda e mi aveva chiesto una mano per uscirne.
Invece ci stavo cadendo dentro anche io.
Senza di lei potevo trovare l'accordo con la santa natura, cercare
una donna di grande formato, una persona dai sentimenti nobili
. Intanto avevo comunque l'amore della lettura che niente e
nessuno avrebbe potuto portarmi via. Avevo il ricordo delle donne belle e fini che mi avevano amato
Però, a pensarci bene, una volta che mi fossi trovato  nella aridità
del deserto affettivo, forse avrei perduto la forza di leggere i libri,
o per lo meno la capacità di impararli; la natura, quando non
nutrivo sentimenti amorosi mi sembrava avariata; tutte le donne
del mondo non mi interessavano quanto quella ragazza che, se
non altro di aspetto, era tanto radiosa da illuminare anche me.
Era stato l'amore di Ifigenia, la sorridente ragazza, la supplentina principiante, a rendermi variopinta la terra,
interessante e non coatto lo studio, prezioso il tempo, pulite le
stelle.
Mi aggrappai con tutte le forze a questo pensiero per tornare nello
stato di grazia della notte precedente: lo usai come un'arma per
combattere l'angoscia che contaminava le luci del cielo.
Mi dissi: "Oggi c'è stato un sole meraviglioso: la vita è prossima a
sbocciare e fiorire dovunque; tu sei in ottima forma; se la tua
compagna gradisce per qualche giorno la compagnia di quelle
sue congiunte disordinate, a te che cosa toglie? Che te ne importa?
Ifigenia ama te, non può amare che te. Un altro uomo della
tua, della sua levatura, poiché è inutile cercare di negarlo,
nemmeno lei è una persona comune, non lo trova da nessuna parte.
Avanti gianni, non temere le cagne inquiete nell'ombra, né i singhiozzi
dell'acqua, né i fruscii dei cespugli, né i bisbigli dell'aria; a te non
vogliono fare alcun male: tu sei forte e fortunato; a te non
predicono cattiva ventura. Se  fossi debole, sventurato e cattivo, se
non ti spingesse un demone buono, non avresti ottenuto l'amore di
quella giovane splendidissima donna, né delle altre. Non sputare nel
piatto dove hai mangiato con tanto gusto! Ora cammina fino alla
malga, poi telefona alla tua necessaria compagna e dille che
venga, che l'aspetti, che l'ami, che hai fatto male a dubitare.
Chiedile scusa".
Così proseguii e giunsi sul limitare del bosco, avendo schivato
ancora una volta le rabide cagne.
Chiesi venti gettoni e un caffé all'enorme ragazza addetta alla
mescita della Malga Panna. Mi domandò come potessi bere quel
liquido amaro senza addolcirlo. "Perché mi piace assai signorina, e
non voglio alterarne il sapore", risposi, e pensai che pure la mia
compagna, se mi piaceva davvero, dovevo sorbirla com'era.
Poi aggiunsi:"Provi anche lei. Dopo un paio di volte si accorgerà
che senza zucchero è buono". Da quando la vidi la prima volta, ho
sperato di educare quella fanciulla ciclopica inducendola a
dimagrire. Mi fece un sorriso mesto e scosse la testa. Non so se
volesse negare la gradevolezza del caffé amaro, o mettere in
dubbio che sarebbe dimagrita bevendolo senza addolcirlo.
Mi mossi per telefonare. Rispose Ifigenia. Dissi:"Ciao, sono
gianni, come stai? Se vieni qua volentieri, mi fai piacere".
"Sei sicuro?  te lo chiedo perché tu lì in mezzo ai monti diventi
strano, e uso un eufemismo ".
"Sì è vero, impazzisco,  ma devi capire: qui passo tutto il tempo da solo, e a
lungo andare sto male. Venendo, mi porterai un grande conforto".
"Va bene. Arrivo domani sera alla stazione di Trento alle nove e
diciotto. Parto dopo una lezione di Gimondi all'Antoniano", disse,
poi tacque. Allora io, ostentando entusiasmo, feci:" Ho tanta
voglia di vederti, averti vicina, abbracciarti!". Speravo che
rispondesse:"Anche io". Invece disse: "D'accordo: alle 21 e 18.
Ciao".

giovanni ghiselli



 Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/   è arrivato a 122809.


[1] Cfr. La storia di Helena, presente nel blog.
Cfr. Dante, Inferno, XXXII, 70-72: "Poscia vid'io mille visi cagnazzi/fatti per
freddo; onde mi vien riprezzo,/e verrà sempre, de' gelati guazzi
[3] Catullo, 8, 5.Amata da me quanto nessuna mai lo sarà..
[4] Cfr. Shakespeare, Antonio e Cleopatra, I, 5:"O happy horse, to bear the weight
of Antony!", beato cavallo che porti il peso di Antonio!
[5] Cfr. Iliade, XVIII, 102.

1 commento:

  1. Una sola parola del mio amato può oscurare il sole o svegliare la primavera nel buio più nero, quanto potere detengono su di noi le persone alle quali doniamo il nostro cuore ,che un sospiro diviene il metro del mondo...Giovanna

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Ifigenia CLI. La pioggia catartica poi la corsa.

  Domenica 5 agosto fu una giornata piena di meditazioni pullulate da stati d’animo in contrasto tra loro. Alle 11, come al solito, no...