domenica 22 dicembre 2013

Tetralogia moenese. Ultima parte

 
La cena. La pazzia delle donne e degli uomini. La casetta di legno in mezzo alla neve e alla luce. L'illusione dell'estate. I tre opliti giganti. Le mutande appese a un filo. L'uccello di fuoco. Il triste  viaggio del ritorno a Bologna.



Ifigenia aveva un'angoscia cieca e regressiva. L'avevo scatenata io
con un' osservazione tutt'altro che atroce, eppure insopportabile per il vuoto morale della sua giovane vitalità  fondata sull’apparenza e tesa al successo. Fino a sera non fu
possibile dirle una sola parola senza insospettirla e indispettirla, o farla
piagnucolare, o addirittura ferirla e renderla furiosa. Come Dio
volle, arrivò l'ora di cena. Per fortuna la cameriera della colazione
non c'era. Oltretutto in effetti non era un granché. Io non avevo più
alcuna voglia di vedere la mia compagna in quello stato pieno di
furia o di lagna: mi faceva pena e mi dava fastidio. Il problema
principale era se, dopo mangiato,fosse meglio chiederle di fare
l'amore con estrema cautela, o non proporglielo affatto.
Mentre la guardavo con sguardo che voleva essere mite, mi
sembrò che se avessi azzardato una proposta erotica, probabilmente
avrei provocato un'altra reazione di dolore o di intolleranza.
-Come osi, dopo quanto hai detto? Senza contare quello che
avresti fatto se non fossi fuggita da quel precipizio! Appena in
tempo!-
"No, no – pensai – è meglio stare zitti!".
Parlava lei traendo profondi sospiri dal'imo petto. Diceva che tra
noi due infelicissimi, si erano alzate barriere di incomprensione
alte e fredde più degli algidi monti che incoronano la valle di
Fassa.
Era più che mai commediante e barocca . Sfoderava pose e
accenti melodrammatici inconsueti pure per lei, avida di esibire se
stessa. Sentivo che qualche cosa non funzionava nel suo cervello,
e le rispondevo in maniera generica, come faccio con Stefania, la
vecchia amica demente, quando ha le crisi nervose:"Eh sì,
purtroppo sì. Sembra anche a me", sussurro.
A Ifigenia dissi che se tra noi non andava bene come una volta, la colpa
non era sua né mia: era tutta  del fato. "La divinità infatti è
invidiosa e turbolenta-citavo-, l'uomo soltanto vicissitudine[1] , e ciò
che proviene dal cielo non è consentito stornarlo". Non volevo più
litigare né discutere con lei che per quel giorno, secondo le mie
previsioni, non avrebbe riacquistato il controllo del cavallo massiccio,
contorto[2], violento, che la trascinava indietro verso un passato
doloroso e terrificante.

Finita la cena, ci alzammo per avviarci verso le camere. Salimmo
in silenzio le rampe comuni, finché arrivammo dove le strade
nostre si dividevano:"Hic locus est, partis ubi se via findit in
ambas" [3], pensai. Lì ci fermammo in silenzio. Aspettavo che
Ifigenia dicesse qualche parola convenzionale come "buona notte".
Ed ecco che invece mi chiese:"Vuoi che facciamo l'amore?"
"Io sì, eccome!” feci, spiazzato e stupito ma non spiacevolmente. “E tu? "
La fanciulla pazza, invece di rispondere si mise a puntarmi in
silenzio. "Gli occhi, quantunque non sia un cane da caccia, sono
fissi, privi di sfumature  ", pensai, evitando di muovermi, come si deve fare con gli
animali inquieti. Non volevo decidere io; ero quasi sicuro che se
mi fossi incamminato da una parte o dall'altra, ella si sarebbe
sdegnata; forse mi avrebbe dato un morso o una ceffata.
Nessuno dei due si spostava. Dopo un tempo non breve,
Ifigenia disse:"Vienimi vicino: ho tanto bisogno di te,
Gianni.". Mi avvicinai senza arrivare a toccarla. Mi abbracciò lei,
poi mi baciò. Non trovò opposizione né una partecipazione
entusiasta.
Quindi affermò: "Il mondo è tanto cattivo, ma io ti amo tanto".
Poi scostò il suo volto dal mio e riprese a fissarmi, con l’aria più da gatta questa volta.
"Facciamo finta di niente", pensai. A questo punto però sembrava
auspicare e aspettare una proposta.
Azzardai: "Vieni cocca, andiamo in camera mia".
Non disse niente; continuava a puntarmi. Allora, con cautela, le presi la
mano sinistra e sussurrai: "Vieni tesoro, andiamo". Poi cominciai a
guidarla, a tirarla pianino pianino, facendo piccoli passi. Cercavo
di comportarmi con fermezza, ma anche con tutti i riguardi di cui
hanno bisogno tali creature finite in balìa del cavallo demente. Ho
imparato dalla coetanea Stefania.

Una volta, nei primi anni Settanta, quando non sapevo trattarla, colei diede in escandescenze in
piazza Garibaldi, l'ombelico di Padova, soltanto perché le avevo
detto che I diavoli, un film di Ken Russel, mi era piaciuto.
"Sei un comunista e un porco!" gridò nell'agorà affollata, alle sette
di sera. Poi mi colpì con un ombrello, in mezzo alla testa,
facendomi male. Quindi fuggì, lasciandomi semi intontito in
mezzo alla gente esterrefatta. Un' ora più tardi venne a casa mia
tutta pentita: si scusò dicendo che la colpa era stata non sua ma di
mestruazioni atroci. "Sì, e di quel cavallo tutto nero, peloso e
contorto", pensai.
E della mimesi materna, aggiungo ora. Falcia l'autonomia delle
donne. Le femmine rimangono appendici delle madri, i maschi dei
padri, quando ce l'hanno, e pochissimi crescono fino a diventare
persone indipendenti dai genitori: maximum scelus, maternus (vel
paternus) amor est[4].

Un'altra volta, verso la fine del decennio, trovandomi tra Ifigenia e Stefania, con la padovana che delirava, assunsi l'atteggiamento di riprovazione fredda ma risoluta che
presento alla vista dei commedianti irragionevoli: la vecchia amica
 si lasciò disarmare, e da furibonda divenne prima
lamentosa, poi benigna al punto da offrici il suo appartamento e da
andare a dormire dalla mamma, a Venezia, per lasciarcelo tutto.
Furente divenuta gentile.
Con questo non voglio dire che noi maschi siamo migliori, anzi. Abbiamo piuttosto
il problema della tirannide dei luoghi comuni che succhiano
l'anima, del rimbambimento, del calo di vitalità, talora anche
molto precoce. Tutti dovremmo liberarci da questi impedimenti e
afferrare la briglia o il guinzaglio della bestia che è in noi: ne acquisteremmo energia e
disciplina.
Quando, uscita Stefania, ci trovammo soli, Ifigenia scoppiò a
ridere per la commedia cui avevamo assistito, come se tali follie
non fossero state un pericolo serio anche per noi.
"Hai fatto finta di niente mentre la pazza infuriava, vero?", mi
domandò. Le spiegai che con i matti bisogna mostrare una calma
forte e sicura di sé. Ebbene questa necessità si presentava di nuovo
a Moena, la sera dell'otto marzo del 1981, quando nella mia compagna
poteva scoppiare da un momento all’altro una furia incontrollata. Sicché facevo di tutto per evitare
uno scontro deforme e distruttivo. Pensavo che non fosse utile chiederle
un chiarimento dei suoi stati d'animo, poiché
probabilmente non ne aveva coscienza; del resto se pure l'avesse
avuta non avrebbe saputo spiegarla, e anche  se avesse saputo farlo,
non lo avrebbe fatto, siccome non si fidava di me. Nemmeno di se
stessa si fidava Ifigenia. Comunque facemmo l'amore tre
volte, e abbastanza di gusto.  Io l'avrei iterato ancora, poiché
trovavo in qualche modo eccitante quell'intermittenza mentale,
quel barbaglio  lampeggiante della coscienza femminile; ma la
fanciulla impazzì di nuovo[5], e questa volta divenne troppo pazza  per
proseguire.

Dopo il terzo orgasmo sembrava allegra e compiaciuta, rideva, seppure con l’aria di una creatura irresponsabile; io comunque assai contento di quel risultato e  pregustando vaghe aggiunte di liete postille, andai nel bagno a lavarmi, per continuare a
battere il ferro caldo come si dice, ma quando, tre minuti più tardi,
tornai nella stanza da letto, quella piangeva a dirotto.
Le domandai:"Cosa c'è tesoro?". Non rispose. Le chiesi se potessi
aiutarla. Disse che nessuno poteva fare nulla per lei, infelice,
svuotata, forse anche malata nel corpo.
"Ho capito: allora vestiamoci subito; ti accompagno in camera,
così ti riposi", dissi con tono pacato, guardandola negli occhi
senza ironia né incertezza. Con le donne in crisi è necessario
comportarsi così; gli uomini che invece di prendere le briglie del
cavallo pazzo si lasciano calpestare, oppure montano in furia, si
meritano le zoccolate che ricevono in faccia.
Ifigenia saliva i gradini con passi di enorme stanchezza.
Sembrava che andasse a morire. La salutai, poi tornai in camera
mia, per niente scontento di dormire da solo .

Lunedì nove marzo c'era un gran sole, caldo, luminoso, sicuro. Ci
trovammo a colazione pieni di buonumore. Durante la notte avevo
deciso che da lei non dovevo aspettarmi più di quanto voleva
darmi: poco oramai, che però avrei utilizzato al meglio per la mia
opera prossima a cominciare. Anche Ifigenia probabilmente nella notte
aveva pensato di prendermi quanto poteva, senza fare storie e
lagne prive di qualsiasi costrutto. Così armonizzati e contenti
come possono esserlo due amanti ex innamorati che hanno deciso
di sfruttarsi a vicenda, salimmo con la funivia al rifugio Le cune
dove ci fermammo ad abbronzarci, quasi in silenzio. Sul
mezzogiorno, per cambiare posizione e visuale, scendemmo in un
rifugio più basso e riparato, dove era forte il calore della fiamma
celeste che dona e nutre la vita. Appena scesi dalla seggiovia, ci
togliemmo le giacche a vento e arrotolammo le maniche delle
camicie. L'umore diveniva sempre più allegro. A un tratto notai
una casetta di legno in mezzo alla neve: distava circa un
chilometro in direzione di Bellamonte e tutt’intorno per ampio
tratto non si vedevano orme. Doveva essere disabitata.
Dissi: "Creatura, guarda quel casinetto in mezzo alla luce: è
nostro[6]. Andiamo là ad abbronzarci anche i corpi". Desideravo
fare l'amore all'aria aperta, tra il sole e la neve che lo potenziava,
ma conservavo parte della cautela che mi ero imposta la sera
prima. Però Ifigenia mi fece capire che potevo, anzi dovevo
essere franco.
"Dai – disse – andiamo là e facciamo l'amore!".
"Come ai bei tempi – pensai - Stai a vedere che questa è rinsavita, e
mi ama di nuovo!". Le feci un sorriso di riconoscenza, poi ci
incamminammo semiabbracciati. Qua e là affondavamo  fino alle
ginocchia e oltre, in qualche buco pieno di acqua per il disgelo.
Prendevamo tutto con allegria.
"Poi ci spogliamo e ci asciughiamo ai raggi caldi, corroborati da
questo biancore" facevo.
E lei:"Sì, sì, e facciamo zazzì".
"Sul serio è diventata un’altra volta spiritosa e simpatica la mia creatura"
pensavo.
Eravamo eccitati e felici. Finalmente giungemmo alla baita. Era
proprio isolata. Salimmo sulla terrazza non alta che la cingeva,
afferrandone il bordo e tirandoci su. Poi scavalcammo il parapetto
e ci stendemmo sul lato volto a sud ovest, verso il passo Rolle. Si
vedevano soltanto le montagne innevate e la cascata di luce che le
faceva brillare. Rimanemmo fermi e silenziosi per alcuni minuti,
osservando il paesaggio. Sembrava un pomeriggio di luglio: il
cielo era così luminoso e l'aria tanto calda che non
rabbrividivo all'idea di spogliarmi per fare l'amore con una ragazza di cui non
mi fidavo. Alcune grosse mosche iridate volavano ronzando
intorno a noi  senza posa. Davanti agli occhi avevamo le pale di
San Martino, bianche, lontane, e illuminate così ardentemente da
sembrare tre opliti giganti levatisi al sole con le armature corrusche
per riverberare i dardi di fuoco verso di noi. I lati settentrionali, i fianchi
destri degli smisurati guerrieri, dall'ombra che eternamente li
copre, mandavano bagliori azzurrini, gradevolmente freschi in
quella illusione d'estate.
Ci spogliammo entrambi, del tutto. Stendemmo i vestiti a far da
giaciglio, ma le mutande le appesi ad un filo teso sopra le nostre
teste con delle mollette; per potere prenderle subito in caso di
necessità, le mie e quelle della mia giovane donna, odorose del sesso
suo, della carne viva, stillante fragrante e rugiada . Quando
eravamo a Bologna, nel grande letto, e dovevamo alzarci in fretta
e furia poiché il tempo del suo permesso era scaduto,  talvolta non
riuscivamo a scovarle che dopo lunghe ricerche. A dire il vero
mentre ficcavo la testa gonfia di sangue sotto il letto, e allungavo
una mano, affannato, respirando la polvere del pavimento,
pensavo in dialetto pesarese: "Se quest è un accident, che dio ne
manda cent".
Negli ultimi tempi avevo ripreso l'abitudine, imparata dalla magna mater
 Helena, la serena Sarjantola[7], di metterle sotto il cuscino, ma anche
da lì talora, diabolicamente, sparivano. Le care, profumate mutande
delle mie care amanti. Quasi il meglio della vita. Quando ripenso alle donne che meravigliosamente 
conobbi e al tempo migliore con ciascuna di loro, come quando ricordo i giovani cui
ho insegnato ad amare la vita, non credo che il vivere mio sia stato
soltanto il sogno di un'ombra[8] , né una tragedia totale, né un
fallimento completo. Una bella opportunità è stata la vita per me,
ed io non l'ho sprecata, anzi.
Così, stesi su quella terrazza di legno, scaldati e abbronzati dal
sole di primavera, compenetrati a vicenda, riversi e fusi l'uno
nell'altro, sorvolati da mosche ronzanti canzoncine primaverili, ci
scambiammo piacere illudendoci di avere ritrovato il tempo felice
di quando eravamo innamorati e avevamo sempre voglia di unirci e di conoscerci meglio. Succedeva
in casa, nell’automobile, sulla spiaggia di Pesaro nel luglio del 1979,
quando prendevamo un moscone e lo remavamo velocemente, a
turno, finché si giungeva al largo, lontani da ogni presenza umana;
Cfr. Pindaro, Pitica VIII, 95-96: "skia'" o[nar- a[nqrwpo"", sogno di un'ombra è
l'uomo.
Allora, sul fondo ligneo della piccola imbarcazione, abbacinati dal
sole, sorvolati da bianche farfalle disperse sulla grande pianura
d'acqua azzurra e salata, ci toglievamo i costumi, li mettevamo
sopra il sedile più alto e facevamo l'amore tante volte da arrivare a
sentire la gioia dionisiaca della fusione con la luce, con il mare,
con l'intero universo che ci sorrideva. Allora tutti i malevoli, gli invidiosi gonfi di risentimento, i  rinnegatori della vita,  erano confutati, messi a tacere sconfitti.
Il 9 marzo del 1981 in mezzo a quei monti antropomorfi vicini al
disgelo riuscimmo a fonderci ancora una volta con la stessa panica
ebbrezza. “La vita è amore, la vita è bellezza”, pensai, il resto è lordura.
Allorché fummo sazi di baci e carezze, ci rivestimmo. Il sole
intanto si era avvicinato alle montagne: molto più lunghe e fredde
cadevano le ombre dai dossi rotondi e dalle rocce appuntite.
Bisognava tornare verso la seggiovia prima che chiudessero le
piste e fermassero gli impianti, lasciandoci in mezzo alla neve
tutta la notte, quando sarebbe stato non piacevole bello e festoso,
ma raccapricciante, forse anche letale, rimanere distesi sotto il
cielo, sia pure abbracciati e vestiti, guardando le stelle e pregandole di non farci morire assiderati.
Eravamo ancora contenti, anzi quasi felici. Ifigenia disse che
l'amore fatto all'aperto era un segno di ritrovata intesa dopo due
anni di smarrimento e confusione. Mentre tornavamo in paese con
l'ultima corsa, tanto che la cabina pullulava di inservienti rubizzi e
giulivi, osservavo il sole declinare tra le rupi aguzze: sembrava
uno splendido uccello di fuoco calato sul nido di pietra dove aveva
appoggiato gli artigli, mentre raccoglieva le ali e piegava il collo,
arrotondando la forma dalle piume vermiglie.
"Lì non si scorgono del sole le rapide membra; in tal modo nel
serrato segreto dell'armonia si è  resa compatta la sfera circolare
tripudiante della beata unicità"[9] . Era l’immagine visibile della Mente dell’Universo[10]

Pensai a quante preghiere gli avevo rivolto dovunque l'avessi visto
andare a dormire, quando si annidava tra i monti dopo un volo in
mezzo alla luce, o si tuffava come pesce nel mare, oppure si
stendeva, come un vagabondo, in un giaciglio di foglie tra gli
alberi delle colline, o scendeva su grandi pianure, in mezzo a
corone di rondini e di nubi purpuree. Dovunque gli avevo rivolto
preghiere, sempre esaudite se buone. Quindi gli avevo reso
ringraziamenti pieni di riconoscenza amorosa. Lo feci anche quel
giorno di marzo, poiché con la sua fiamma amorosa aveva
ravvivato la fiaccola nostra, già vacillante, languida e vicina a
morire. Ero riconoscente pure a Ifigenia, siccome aveva
assecondato i progetti del dio che da noi si aspettava le cose
egregie cui ci aveva predestinati da sempre. Io  avrei scritto un
capolavoro, lei sarebbe diventata una grande attrice e ci saremmo
amati per sempre. Glielo dissi e le feci piacere. Così, confidando
in destini buoni, tornammo alla Campagnola e cenammo.

Ma poco più tardi, viaggiando verso Bologna, l'accordo tra i
demoni nostri si ruppe, senza una causa precisa; forse perché uno
dei due non è buono, oppure perché sono cattivi entrambi, in
maniera diversa per giunta; fatto sta che litigammo di nuovo, e i
benefici di quel pomeriggio fatato andarono in fumo. Guidando
pensavo alle prossime lezioni nella quarta ginnasio, non troppo
stimolato invero; quindi, per necessaria compensazione, meditavo
sull'opera letteraria che avrei iniziato presto: un dramma, o un
romanzo  con due amanti tragicamente travagliati e ostacolati da
iniquità sociali, nevrosi e contraddizioni personali, ma alla fine
trionfanti nel sole dell'Amore e della Giustizia. Mi compiacevo di
tale disegno e di tanto ottimismo. Bisognava però trovare le forme
e antivedere l'esito della nostra esperienza: in quale modo
avremmo dovuto stimolarci noi due per arrivare allo scopo
grandioso di spingere un popolo intero al bello morale? La buona
Ifigenia sonnecchiava sebbene non fosse tardi. Di sua iniziativa non diceva parola, e, quando le domandavo qualcosa, rispondeva, or sì or no, a monosillabi. Alla lunga mi diede fastidio,
e un poco alla volta i sentimenti amorosi si dileguarono. Mi venne
in mente un altro viaggio, fatto in tempi meno malsani: allora la
ragazza mi aveva raccontato che una sua conoscente
durante le ore di guida del marito sui lunghi percorsi autostradali,
invece di aiutarlo a vincere il sonno nemico parlando con lui,
dormiva, o fingeva di farlo, poiché non aveva niente di buono da dirgli.
Al pensiero che quello squallore si ripetesse tra
noi, mi venne l'angoscia. Volli provare se questa fosse scaturita
solo dagli antichi dolori miei, o se avesse una causa nella realtà effettuale
che stavo vivendo. Domandai a bassa voce:"Dormi tesoro?"
"No-rispose con aria stanchissima e pigra-, ma ho tanto sonno".
"Ho sonno anche io-ribattei, quasi polemicamente-, ci facciamo
compagnia per un poco?".
"No: ho troppo sonno. Ti prego, lasciami dormire". Non le chiesi
altro; avevo già provato a me stesso che la pena mia era stata
causata dal solito suo atteggiamento parassitario: se eravamo
entrambi assonnati, non capivo perché io dovessi sgobbare e lei
dormire, o fingere di dormire. La bella donna, la necessaria
Musa, davanti a me si toglieva ancora le mutande odorose, grazie
a Dio, però con me non voleva parlare più, poiché non mi amava.
Questo pensiero, dopo le radiose speranze del pomeriggio, mi
rodeva di nuovo.
"E' il suo egoismo colossale, disgustoso, a guastarmi l'umore, a
darmi l'angoscia, a corrompere ogni gioia mia che non condivide,
come non vuole collaborare a niente di serio e impegnativo".
Ero pieno di risentimento. Alla stazione Affi, lago di Garda sud ,
mi fermai per un caffé, senza invitarla. Quando fui tornato ed ebbi
ripreso a guidare, Ifigenia doveva avere capito qualche cosa
del mio stato d'animo, preoccupandosene, per sé naturalmente;
fatto sta che alzò la testa e mi chiese:"Allora di cosa vuoi che
parliamo?"
"Del mio capolavoro", dissi con tono secco e astioso. Poi tacqui.
Ma dopo qualche secondo, siccome la Musa nemica non sembrava
intenzionata a fare altre domande, aggiunsi una provocazione che
era anche una mezza dichiarazione di guerra.
"Voglio scrivere un'opera d'arte sulla nostra storia; così quando
sarà finita del tutto ne resterà il ricordo. Voglio diventare nunzio agli uomini[11] delle nostre splendidissime gioie, dei nostri cupi dolori e dei   brutti errori che li hanno causati".
A questo punto la ragazza si svegliò completamente e domandò
irritata:" Ebbene? Che cosa posso fare per te?".
Allora io, per bilanciare i toni della conversazione che speravo
continuasse almeno fino a Mantova est, con voce addolcita
risposi:"tu potresti leggere gli appunti di questi ultimi due anni”

 

Nella Repubblica  di Platone i giudici oltramondani dicono a Er, il soldato  morto in battaglia, che deve osservare poi tornare sulla terra per diventare messaggero agli uomini delle cose di là “a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai tw`n ejkei` (614d) non sono molti, e sottolinearne, magari commentarne le parti

degne di entrare, rielaborate, nel nostro capolavoro". Speravo in
una risposta conciliante, invece avevo  scatenato anche il
risentimento suo, e il demone funesto della nostra competizione
cattiva. Infatti rispose:"Se avrò tempo, li leggerò dopo gli esami.
Fino a tutto luglio non posso: devo pensare ai compiti verso me
stessa, prima di assecondare la tua volontà di successo".
"Senti come ha imparato la parte della Nora di Ibsen "[12], pensai.

"Ho capito", risposi, e non le rivolsi più la parola. Mi ripugnava il
parassitismo, il recitare evidente e continuo, la volontà di
sfruttamento di quel serpe velenoso rivestito del corpo di Venere.
Da me aveva appreso e preso tutto quanto le era stato possibile, e
in cambio non voleva darmi più niente. Eppure anche dai suoi
rifiuti potevo imparare, almeno finché la sofferenza del precipitare
indietro, nel bestiale, non fosse diventata inutilmente deleteria.
Allora mi sarei fatto lasciare con una provocazione estrema, inesorabile, e avrei cominciato a scrivere.
Arrivati a Bologna, la scaricai davanti al cancello, senza aiutarla a
portare i bagagli davanti alla porta del suo appartamento: la salutai
freddamente dall'automobile. Imparare soffrendo, sì; ma farsi
calpestare, no, nemmeno dall'aurea Afrodite. La odiavo. Tornai a
casa mia dove sentii di essere solo nel mondo.

giovanni ghiselli  

P. S.
Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/   è arrivato a 123311.


[1] Cfr. Erodoto, Storie, I, 32 pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv

[2] Nel Fedro di Platone l’appetitus è raffigurato nel cavallo nero che è brutto: skoliov~, storto, poluv~, grosso, eijkh'/ sumpeforhmevno~[2], ammassato a casaccio, kraterauvchn, di collo grosso, bracutravchlo~, dal collo corto, simoprovswpo~, dal muso schiacciato, melavgcrw~, di pelo nero, glaukovmmato~, dagli occhi chiari (grigio-azzurri), u{faimo~, sanguigno, u{brew~ kai; ajlazoneiva~ eJtai'ro~, compagno della prepotenza e della iattanza, peri; w\ta lavsio~ , villoso intorno alle orecchie, kwfov~, ottuso, mavstigi meta; kevntrwn movgi~ uJpeivkwn, una bestia che a stento si assoggetta a una frusta con pungoli (253 E).                

[3] Virgilio, Eneide, VI, 540.  Questo è un luogo dove la via si scinde in due. E’ un luogo di gente morta.

[4] Il crimine più grande contro se stessi è imitare i genitori per tutta la vita, traduzione libera. Cfr. Seneca:"maximum Thebis scelus/maternus amor est, Oedipus, vv. 627-628,  il delitto più grande a Tebe è l'amore della madre.

[5] Cfr Hieronymo's mad again  della Spanish Tragedy di T.Kyd  (1586) citato da  T. S. Eliot  in  The waste land,  del 1922 (v. 431). E’  proprio vero che la mimesi unisce gli scrittori in una catena di plagi, come sostiene Ulrich, il protagonista di L’uomo senza qualità di Musil.

[6] Cfr. Don Giovanni di Mozart. Da Ponte: “Quel casinetto è mio: saliremo, /e là gioiello mio, ci sposeremo” (I, 9).

[7] Questa storia è presente nel blog.
[8] Cfr. Pindaro, Pitica VIII, 95-96: "skia'" o[nar a[nqrwpo"

[9] Cfr. Empedocle, Poema fisico, fr.30 Diels-Kranz.




[10] “Nulla sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che’l
sole. Lo sole tutte le cose col suo calore unifica” (Dante, Convivio, III, 12).

[11] Nella Repubblica  di Platone i giudici oltramondani dicono a Er, il soldato  morto in battaglia, che deve osservare poi tornare sulla terra per diventare messaggero agli uomini delle cose di là “a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai tw`n ejkei` (614d)
[12] Cfr. Casa di bambola, ultima scena.

2 commenti:

  1. questo brano è delicato e poetico e l'amore è giustamente esaltato .Trovo il tutto molto romantico, Giovanna

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    1. Rileggendo il viaggio di ritorno rancoroso e costituito di occasioni mancate penso che quando una storia d'amore è inquinata dal livore reciproco è veramente difficile trovare modalità alternative e costruttive: quando in una relazione subentra il tentativo di distruggersi a vicenda sembra davvero che ogni fatto tenda ad accelerare la fine come una valanga che ingrossa scendendo a valle, inarrestabile. Quando finisce un grande amore i protagonisti diventano cannibali dei loro sentimenti tanto da distruggere se stessi al fine che nulla rimanga dell'altro. Tutto deve essere consumato , bevuto fino all'ultima goccia. In quel viaggio vi siete mangiati a vicende : la razionalità uccide gli ultimi barlumi di eros e come una partita a scacchi ogni mossa porta alla conclusione, solo che in amore non vince mai nessuno. Che stranezza diventare così crudeli proprio verso chi abbiamo molto amato ,eppure tanto più abbiamo amato quella persona tanto più dobbiamo odiarla per lasciarla andare. Questo brano è uno dei miei preferiti anche se mi ricorda i brutti viaggi in macchina quando i miei assumevano atteggiamenti simili e il temporale delle emozioni si caricava sulle loro teste e si ingrossava,mia madre fingeva di dormire e mio padre si caricava di rancori vecchi e nuovi...voi vi siete separati al ritorno ,invece per i miei l'approdo era il momento del si salvi chi può e lo scarico delle valigie il momento in cui la lite annunciata scoppiava immancabile. Quando non si può più fingere di dormire e qualsiasi risposta porta all'esplosione della rabbia repressa. Ancora adesso mi sento muta spettatrice di un fatto inevitabile anche leggendo il tuo bel brano ,Gianni. Giovanna

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Ifigenia CLI. La pioggia catartica poi la corsa.

  Domenica 5 agosto fu una giornata piena di meditazioni pullulate da stati d’animo in contrasto tra loro. Alle 11, come al solito, no...