lunedì 16 dicembre 2013

Remo Bodei, Immaginare altre vite, parte II




Procedo con il commento del recentissimo libro di Remo Bodei Immaginare altre vite
Realtà, progetti, desideri.
Feltrinelli, Milano, 2013

Vediamo alcuni paragrafi del V capitolo: Il potere e la gloria (pp. 95-110).
“Le nostre esperienze sono filtrate attraverso modelli, schemi e archetipi culturali di lunga durata, che nel passato non erano così numerosi, mediati e di provenienza globale, come lo sono oggi, specie dal momento in cui abbiamo cominciato a essere circondati dall’onniprvasiva “mediasfera”, l’’ambiente dominato dai media elettronici (p. 94).
I modelli una volta erano gli eroi.  “Si distinguevano per il reale possesso o per l’attribuzione di qualità straordinarie, che li facevano apparire circondati dall’aureola della gloria”

Si tratta di personaggi eccezionali, uomini quali si trovano nei poemi epici, o nelle biografie di Plutarco che proponeva queste vite di uomini “straordinari” come modelli, e pure contromodelli, non solo ai suoi lettori, ma anche a se stesso: nel proemio alle vite  di Timoleonte ed Emilio Paolo   egli dichiara: “ all'inizio mi è capitato di mettere mano a scrivere le vite per gli altri, ma oramai continuo e insisto anche per me stesso, poiché, scrutando attraverso la storia come in uno specchio (" w{sper ejn ejsovptrw/ th'/ iJstoriva/ peirwvmenon") mi avviene in qualche modo di adornare e uniformare la  vita alle virtù di quegli illustri personaggi ("kosmei'n kai; ajformiou'n pro" ta;" ejkeivnwn ajreta;" to;n bivon") .
Quindi Plutarco cita un frammento di Sofocle[1]: "feu' feu', tiv touvtou cavrma mei'zon a]n lavboi"", ah, ah, quale gioia potresti prendere maggiore di questa, e, aggiunge, “quale più efficace per il raddrizzamento dei costumi?”.
E’ una concezione che ricorda in qualche modo la catarsi attribuita da Aristotele alla tragedia.
Tale purificazione avviene non solo assimilando il valore, ma anche respingendo i vizi, e questo accade imitando la virtù degli uomini grandi e buoni, il cui esempio aiuta a respingere quella dose di pochezza (" ti fau'lon") o malvagità ("h] kakovhqe"") o volgarità ("h] ajgennev"", ) che le compagnie di coloro con i quali si deve  vivere  insinuano ("aiJ tw'n sunovntwn ejx ajnavgkh" oJmilivai prosbavllousin"[2]).    Gli uomini grandi e cattivi dunque vanno presi quali contromodelli.
 Già  Tito Livio  aveva scritto che la conoscenza della tradizione storica fornisce a chi la possiede il grande strumento dei modelli positivi da imitare e di quelli negativi da respingere:"Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salūbre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intuēri: indi tibi tuaeque rei publicae quod imitēre capias, inde foedum inceptu, foedum exitu quod vites"[3], questo soprattutto è salutare e produttivo nella conoscenza della storia, che tu consideri attentamente esempi di ogni tipo situati in una tradizione illustre: di qui puoi prendere modelli da imitare per te e per il tuo Stato, di qui quello che è da evitare in quanto turpe nel movente, turpe nel risultato.
Salendo più indietro, Polibio nel proemio alle sue Storie scrive che  per gli uomini non c'è nessuna correzione  (diovrqwsi~) più disponibile della conoscenza dei fatti passati  (I, 1).

Fa molto bene dunque Bodei a  mettere in successione gli eroi di questo V capitolo e Gli uomini infami del  VI .

Partiamo da primo paragrafo intitolato Un ventaglio di tipologie (p. 95-96)
Gli eroi positivi dunque possono essere eroi di guerra, eroi che liberano la terra dei mostri, come Eracle, o la purificano dal peccato, come Gesù; eroi segnalati per  benemerenze verso la patria come quelle raccomandate dall’anima di Scipione l’Africano al nipote adottivo Scipione Emiliano nel Somnium Scipionis di Cicerone che  istituisce un paradiso per i patriotti:"bene meritis de patria quasi limes ad caeli aditum patet " [4] per coloro che hanno ben meritato della patria si apre come una via per l'accesso al cielo.
Quindi Bodei ricorda i fondatori di religioni e di sètte, i santi, i martiri, gli asceti (come Padre Pio e Madre Teresa di Calcutta), poi gli eroi anonimi caduti in guerra o protagonisti della lotta politica, e infine le “celebrità, persone che hanno successo nell’ambito degli affari, del tempo libero (sport, cinema, televisione), della bellezza, della prestanza fisica o del gossip” (p. 96).

A proposito di gossip, può essere interessante notare che il pettegolezzo femminile contribuì alla fama di Scipione Emiliano che pure fu un benemerito della patria..
Sentiamo come. Polibio racconta che quando morì Emilia, la moglie del nonno adottivo, Scipione Africano Maggiore,  il nipote ricevette in eredità grandi ricchezze che la donna era solita sfoggiare nella magnificenza di cui circondava la sua persona. Scipione Emiliano allora regalò lo splendido corredo ereditato a sua madre Papiria che era separata dal marito ed era meno facoltosa di quanto si addicesse alla sua nobiltà. Papiria quindi si recò ad un solenne pubblico sacrificio con il fastoso abbigliamento e i sacri utensili di Emilia suscitando entusiasmo per la generosità del figlio, veramente eccezionale e stupefacente a Roma dove assolutamente nessuno dà niente a nessuno dei propri averi senza fare dei conti (" aJplw'" ga;r oujdei;" oujdeni; divdwsi tw'n ijdivwn uJparcovntwn eJkw;n oujdevn", XXXI 26, 9). 
Polibio conclude il XXXI capitolo mettendo in rilievo che la fama della nobiltà morale dell'Emiliano andò crescendo grazie alle donne che chiacchierano fino alla nausea su qualsiasi argomento nel quale si  siano gettate ("a{te tou' tw'n gunaikw'n gevnou" kai; lavlou kai; katakorou'" o[nto", ef j o{ ti  a]n oJrmhvsh XXXI, 26, 10)

Vediamo il secondo paragrafo: Eroi della vittoria e della sconfitta (pp. 96-98)
Bodei parte dagli eroi di guerra. Questi vengono glorificati sia dalla “estetica della bella morte” sia “da un’etica della sacralità dell’immolarsi per il proprio popolo, che va dall’oraziano dulce et decorum est pro patria mori fino al proliferare, tra Ottocento e Novecento, dei monumenti ai caduti e delle tombe del Milite ignoto” (p. 96).

Monumenti al soldato sconosciuto si trovano anche nella poesia: da Euripide a Brecht.
Nell’Andromaca, Peleo  critica il fatto che nei trofei venissero iscritto solo il nome dello stratego il quale“oujde;n plevon drw'n eJno;" e[cei pleivw lovgon” (Andromaca, v. 698), non facendo niente più di uno solo, ottiene una fama maggiore.  
Curzio Rufo racconta  che Clito, per sminuire le vittorie di Alessandro, il quale poi per rappresaglia lo uccise, recitò ai convitati i  versi dell’Andromaca di Euripide con il  biasimo di Peleo  quod tropaeis regum dumtaxat nomina inscriberent ” ( Historiae Alexandri Magni, 8, 1, 29), il fatto che nei trofei  scrivessero solo i nomi dei re.
Bertolt Brecht fa eco a questa critica: “Il giovane Alessandro conquistò l’India./Da solo?/Cesare sconfisse i Galli./Non aveva con sé nemmeno un cuoco?”[5]. 

“Pur nella sua crudeltà, la guerra esercita una sua fatale attrazione” (Immaginare altre vite, p. 96).

“La guerra è eccitante persino se implica il rischio di perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della persona media è noiosa, tutta routine e senza avventure, l’atteggiamento di chi è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere fine al noioso tran-tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell’avventura, l’unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi nella sua vita (the only adventure, in fact, the average person may expect toh ave in his life)”[6].
In particolare è noiosa la vita del militare inattivo in tempo di pace: si può pensare a Il deserto dei Tartari di Buzzati.

L’eroe prende aspetti diversi nelle diverse epoche e nei diversi autori.
“Per Omero, l’eroe è l’individuo nobile o che ha assunto lo stile della persona ben nata e agisce in maniera esemplare rispetto al compito specifico cui è chiamato, al combattimento. E ciò indipendentemente dalla vittoria e dalla sconfitta, come mostra Ettore quando, nel congedarsi da Andromaca e nel tornare senza esitazioni sul campo di battaglia, sa bene che la morte è in agguato” (p. 96).
Bodei commenta questo episodio del VI canto dell’Iliade facendo notare che “Nei nostri tempi-dove molti sono accecati dall’idea di un successo effimero-stentiamo a comprendere cosa abbia rappresentato la potente volontà di rendere immortale il proprio nome, di generare sentimenti di ammirazione, entusiasmo o gratitudine negli altri e di dignità e autostima in se stessi” (p. 97).

Vediamo come si presentava la volontà di rendere immortale il proprio nome in altri tempi.
 Nelle Troiane di Euripide, Cassandra consola la madre e se stessa affermando che la sorte dei Troiani vinti è meno triste di quella degli Elleni vincitori: “  i morti troiani avevano l’abbraccio della terra peribola;~ ei\con cqonov~ (v. 389) e le esequie fatte dai familiari.
Ed Ettore è morto quale a[risto~ ajnhvr (v. 395), mentre senza la guerra il suo valore sarebbe rimasto sconosciuto (397), forse anche inespresso.

Chi è assennato deve evitare la guerra, ma se questa viene imposta, allora è una corona non vergognosa kalw`~ ojlevsqai ( Troiane, v. 402), morire nobilmente per la patria, mentre è infamante morire non nobilmente (mh; kalw`~, v. 402).

Foscolo che si sente chiamato ad  evocar gli eroi[7] non dimentica di rendere onore a Ettore[8] che ha versato il sangue per la patria.
L’eroe troiano nell’Iliade dice che l’auspicio supremo è “ajmuvnesqai peri; pavtra~ (Iliade, XII, 243), combattere in difesa della patria. Morire in tale nobile lotta significa acquistare la gloria.

Non solo gli uomini ma anche la donne e le ragazze aspirano a tale forma di immortalità. Nell’ultima parte dell’Ifigenia in Aulide,  la figlia di Agamennone affronta volentieri, addirittura con entusiasmo, il sacrificio della propria vita per favorire la guerra dei Greci contro i Troiani e la vittoria della civiltà sulla barbarie
Leggiamo alcune parole attribuite da Euripide a questa eroina: “ divdwmi sw`ma toujmo;n  J Ellavdi (1397), offro il mio corpo per l’Ellade, quvet j, ejkporqei`te Troivan ( 1398), sacrificate, distruggete Troia.
Questo sarà il mio monumento perenne, questi i figli, le nozze, la fama [9].
Macaria negli Eraclidi (v. 534) vuole eujklew`~ lipei`n bivon, lasciare gloriosamente la vita

La gloria e la fama  derivano più dalle parole scritte, scritte molto bene, che dai monumenti funebri i quali fanno comunque una loro parte non trascurabile per rendere duratura la memoria.

Con questo, torno a Bodei: “I poeti, più di altri, decretano e perpetuano la gloria propria e altrui (concetto espresso molto prima del noto verso di Hölderlin in Andenken: "Was bleibet aber, stiften die Dichter"[10], ma ciò che rimane, lo fondano i poeti). Cicerone ricorda, ad esempio, due versi di Ennio relativi all’epitaffio di un poeta suo contemporaneo, che affermava orgogliosamente: “Sono vivo e volo sulla bocca degli uomini”.
Di Orazio si cita sempre l’elogio reso alla sua opera: Exegi monumentum aere perennius, ma vale la pena vederne il contesto[11].

Veniamo al paragrafo successivo: Genealogia della gloria (pp. 98-100).
“La gloria trasmessa dalla letteratura e dalla storiografia è contagiosa”
Bodei ricorda che Alessandro aveva preso come modello l’Achille dell’Iliade,  Cesare voleva emulare Alessandro, Napoleone imitava sia Alessandro sia Cesare. Alessandro vedeva nel padre un modello e un rivale.

Per quanto  la disposizione non amorevole di Alessandro nei confronti  del padre, Plutarco scrive che quando Filippo, nel 336, fu assassinato, la colpa maggiore fu attribuita a Olimpiade, ma qualche accusa sfiorò anche Alessandro:" e[qige dev ti" kai; jAlexavndrou diabolhv" (Vita di Alessandro, 10, 5).
 Plutarco spiega che Olimpiade fu accusata di avere sobillato e aizzato Pausania a uccidere Filippo il quale si era innamorato di Cleopatra, la ragazza che il re intendeva sposare. Il giovane nobile macedone era stato oltraggiato da Attalo e dalla stessa fidanzata di Filippo senza ottenere giustizia. Alessandro diede adito al sospetto di non essere del tutto estraneo all’attentato, poiché, quando incontrò Pausania,  vedendo che questo si lamentava per l’offesa, gli citò un verso della Medea  di Euripide: “to;n dovnta kai; ghvmanta kai; gamoumevnhn[12].
Nel caso di Alessandro chi ha dato la nuova sposa, Cleopatra, a Filippo era Attalo, zio della ragazza, chi l’ha presa in sposa è Filippo, e la sposata Cleopatra.
“Oltre Achille, Alessandro aveva un altro un modello da superare: suo padre. Si decise alla conquista dell’impero persiano perché geloso delle sue gesta” (p. 99).

Sentiamo le parole che, su questo argomento, gli vengono attribuite da Plutarco.
“ ‘Ogni qualvolta veniva annunciato che Filippo aveva preso una città famosa o aveva vinto una battaglia celebrata, non era affatto raggiante nell'udirlo, ma ai coetanei diceva: ragazzi, il padre mio si prenderà tutto e a me non lascerà nessuna impresa grande e splendida da compiere con voi’.
Infatti non agognando piacere né ricchezza, ma virtù e gloria, riteneva che quanto più avrebbe preso dal padre, tanto meno sarebbe riuscito da sé. Perciò, ritenendo che per l'accrescersi delle imprese esse si sarebbero esaurite in quello, voleva ereditare un regno che avesse non ricchezze né lussi e godimenti, ma agoni e guerre e onori"[13].
“ Dopo la conquista dell’impero persiano, che comprendeva allora anche l’Egitto, egli, come è noto, si inserì agevolmente nella tradizionale auto-glorificazione tipica dei “re dei re” e dei faraoni, attribuendosi una discendenza da Zeus e intimando che ci si prostrasse davanti a lui” (p. 99).
 Probabilmente Alessandro sapeva di non essere figlio di un dio, ma da una parte assecondava la madre Olimpiade, la menade epirota che detestava Filippo e gli negava la paternità del giovane eroe, dall’altra pensava che la fama di una discendenza dagli dèi fosse politicamente e militarmente utile: dopo la scoperta della seconda congiura: quella “dei paggi”[14]  il conquistatore macedone affermò che ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā  enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit” ( Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni 8, 8, 15), Le guerre sono fatte di quello che si fa sapere, e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità[15].
“Il perseguimento della gloria e la scelta, incompiuta a causa della morte, di conquistare tutto l’orbe terracqueo erano in Cesare politicamente più complessi e razionalmente più elaborati” (p. 100).

In effetti Cesare come storiografo esclude il mito.
“Tra Cesare e Alessandro Magno c’è una differenza, che è anche un segno dei tempi. A differenza del giovane Alessandro, questo maturo eroe romano dagli occhi neri, epilettico e indomito tuttavia, non prendeva le mosse da una concezione mitica della vita; si rifaceva ad un’idea razionale dell’uomo e della storia: distingueva, come Tucidide, tra la calcolata deliberazione e lo scrupolo religioso, che secondo Tucidide rovinò Nicia. Ma…non poteva contentarsi di opporre ragione a superstizione: doveva opporre una sua religione, quella del monarca dio, alle mordenti critiche della classe degli ottimati, contro cui aveva combattuto sempre…un’altra e più profonda differenza tra Cesare pensatore e Cesare uomo politico. Nella sua opera sulla Guerra civile, questo condottiero non fa cenno a quell’ispirazione divina a cui i suoi contemporanei ricondussero la sua grande decisione della notte fra il 10 e l’11 gennaio: il passaggio del Rubicone. Il Cesare di tutti noi, è, ancor oggi, l’uomo che disse allora: “il dado è tratto”; questo non è il Cesare del Bellum civile, ma il Cesare delle Historiae scritte dal suo ufficiale più “indipendente” e acuto: Asinio Pollione.
Nel suo racconto Cesare aveva voluto esporre le ragioni storico-giuridiche della decisione presa, “condensate” in un’arringa ai soldati (B. C. I, 7)”[16].

Torniamo a Immaginare altre vite: “Per ottenere il consenso nel mezzo dei conflitti che laceravano la tarda repubblica romana, egli si preoccupava di rendere partecipi dei propri progetti anche i suoi soldati facendoli sentire copratogonisti di imprese gloriose che avrebbero avvantaggiato e reso illustri loro e la patria[17]. Come primo motore, Cesare attribuisce, tuttavia, la fame insaziabile di gloria solo a se stesso” (p. 100). Quindi Bodei cita un passo molto interessante della Vita scritta da Plutarco dove il biografo sostiene che Cesare veniva spinto a superarsi  sempre da un pathos il quale non era altro che invidia di sé, quasi fosse un altro “to; me;n pavqo~ oujde;n h\n e{teron h] zh`lo~ auJtou` kaqavper a[llou” (58).

Alessandro e Cesare sembrano uomini predestinati a effettuare un compito storico: l’estensione della civiltà greca a oriente l’uno, di quella latina a occidente l’altro.
In questo modo Tolstoj in Guerra e pace interpreta i successi  dell’ “uom fatale"[18].
 Napoleone secondo il grande romanziere russo era   un uomo che “doveva” guidare  "il movimento di carattere militare dei popoli europei da oriente a occidente…Lui solo, con l’ideale di gloria e di grandezza che ha elaborato in Italia e in Egitto, con la sua folle venerazione di se stesso, con la sua spavalderia nei delitti, con la sua capacità di mentire, lui solo può giustificare ciò che deve accadere…Il caso, milioni di casi gli danno il potere e tutti, come per un tacito accordo, collaborano al consolidamento di quel potere "[19].
Poi “doveva” esserci il movimento inverso: allora"improvvisamente, al posto di quei casi  e di quella genialità , che in modo così progressivo lo hanno guidato finora, con una serie ininterrotta di successi, verso lo scopo prestabilito, si profilano una quantità incalcolabile di casi  contrari, dal raffreddore di Borodino al gelo e alla scintilla che incendia Mosca; e invece della genialità , appaiono una stupidità e una viltà senza ragioni"[20].    

Nel paragrafo successivo, Vite esemplari (pp. 100-102), Bodei ricorda la fortuna del poligrafo di Cheronea presso gli scrittori italiani: “Di Plutarco nel Medioevo si preferivano i Moralia e fu solo l’arrivo dei dotti greci in Italia, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, a rilanciare la lettura delle Vite Parallele, che divennero da allora in poi il suo principale testo di riferimento. Si pensi soltanto a Machiavelli, che ne acquistò una copia in traduzione latina a Bologna nel 1502 e ne trasse ispirazione per la sua intera opera (per inciso le famosissime immagini della “golpe” e del “lione” derivano, in particolare, dalla vita di Lisandro[21] di Plutarco), oppure a Montaigne o a Shakespeare[22] che se ne servono abbondantemente” (p. 100).
“Sul piano dell’educazione delle classi dirigenti, intere generazioni sono quindi cresciute nel culto degli eroi di Plutarco, avendo come vite esemplari da esecrare quelle dei tiranni o dei violenti come Silla e da imitare quelle di Alessandro Magno, Agide e Cleomene, Caio e Tiberio Gracco, Catone Uticense, Cesare e Bruto e, come ideali, ancora una volta, la gloria, il potere, la virtù” (p. 101).
Bodei ricorda anche anche “difficoltà e opposizioni” incontrate dalla diffusione delle biografie di Plutarco
“Hobbes, ad esempio, considerava nel Leviatano l’imitazione di quei modelli, nella letteratura e nella storiografia, fonte di vanagloria e, nel Behemoth in particolare, esempi che incitano all’anarchia. Nel primo testo, dice che “quando uno si immagina di esser un Ercole o un Alessandro (cosa che capita spesso a coloro che sono molto presi dalla lettura dei romanzi)”, si cade nella vanagloria, “che consiste nel fingere o nel supporre in noi stessi delle abilità, che sappiamo di non avere”. Tale atteggiamento “si riscontra più nei giovani e si nutre delle storie e delle narrazioni di eroi (gallant persons), ed è spesso curato dall’età e dalle occupazioni”.
Nel secondo, il rifiuto delle virtù “eroiche”, tanto ammirate dagli antichi, è netto e argomentato. Hobbes è, infatti, è uno dei primi autori moderni a presentare come causa di sovversione politica non sette religiose o singoli filosofi, ma gruppi intellettuali che si ispirano agli ideali repubblicani del mondo classico” (p. 101).

Per quanto riguarda la reputazione di Alessandro, non mancano denigratori  già nel mondo antico.
Tito Livio sostiene che qualora Alessandro si fosse incontrato con uomini grandi quanto i consoli romani Manlio Torquato, Valerio Corvo, i Deci, Papirio Cursore, o con i senatori, avrebbe detto che non aveva più a che fare con Dario, praedam verĭus quam hostem Mulierum ac spadonum agmen trahentem, re di  uno stuolo di donne e di castrati, oneratum fortunae apparatibus suae, appesantito dallo sfarzo della sua fortuna. Alessandro non osò altro che disprezzare opportunamente quella vanità: nihil aliud quam bene ausus vana contemnere (9, 17, 16).
Inoltre: era altra cosa l’Italia dall’India per quam temulento agmine comisabundus incessit (9, 17, 17) attraverso la quale passò gozzovigliando con uno stuolo di ubriachi. 
In età neroniana Lucano  presenta Alessandro come un re pazzo e un bandito che ha avuto successo: "proles vesana Philippi, / felix praedo" (Pharsalia, X, 20-21). Generato quale esempio non utile al mondo di come tante terre si trovino sotto il dominio di uno solo: "non utile mundo editus exemplum, terras tot posse sub uno esse viro"[23] (26- 27). Venuto dalle spelonche della Macedonia, disprezzò Atene vinta dal padre, e si precipitò tra i popoli d'Asia humana cum strage (Pharsalia, X , 31), mescolò fiumi sconosciuti con il sangue: con quello dei Persiani l'Eufrate, con il sangue degli Indiani il Gange, lui terrarum fatale malum (34), sidus iniquum gentibus (35-36), stella infausta per i popoli. Infine fu la natura a imporre il termine della morte al re pazzo: vaesano …regi (v. 42).
Infine ricordo  Seneca che nel De beneficiis [24]  presenta Alessandro  come un vesanus adulescens il quale seguiva le orme di Ercole e di Libero (Herculi Liberique vestigia sequens) ma con Ercole non aveva nulla in comune. Ercole infatti non vinceva per sé (Hercules nihil sibi vicit) : il figlio di Alcmena era malorum hostis, bonorum vindex, terrarum marisque pacator.  Alessandro invece fu "a pueritia latro gentiumque vastator, tam hostium pernicies quam amicorum, qui summum bonum duceret terrori esse cunctis mortalibus" (I, 13, 3).
 
Ma torniamo a Immaginare altre vite. Bodei nota che “la diffusione dell’opera plutarchea raggiunse lo zenit tra gli ultimi decenni del Settecento e l’età napoleonica” (p. 101)
Quindi ricorda il “ trasporto di grida, di pianti, e di furori”[25] con il quale Alfieri leggeva alcune di quelle vite.

In Francia “le Vite parallele avevano talmente infiammato  i giovani da renderli pronti a passare con entusiasmo dai collegi e dalle aule universitarie ai campi di battaglia e alle assemblee. Inserendosi in questa tendenza, i giacobini, in particolare Saint-Just e Robespierre, le presero poi come esempio per tratteggiare l’immagine del politico virtuoso e per progettare-esattamente come Plutarco l’aveva descritta-una riforma agraria basata su quelle ideate dai due re spartani Agide e Cleomene nel III secolo a. C. e dai due fratelli Tiberio e Caio Gracco nella seconda metà del II secolo a. C….Anche Napoleone si era ispirato agli eroi delle Vite parallele, che aveva letto, su consiglio dello zio Giuseppe Fesch, genovese originario di Basilea, fino dall’età di nove-dieci anni  in luoghi solitari alla periferia di Ajaccio, dove poteva fantasticare su Alessandro, Cesare e su Pascal Paoli, da lui inizialmente considerato un eroe plutarchesco… Con Napoleone ogni soldato è indotto a credere di portare nel proprio zaino il bastone di maresciallo  ” (p. 102).

Per questo aspetto si può pensare al modello costituito da Mario, l’homo novus che “nato da genitori assolutamente oscuri, povera gente che viveva del proprio lavoro”[26],  invece delle immagini o dei monumenti funebri  degli antenati mostrava le cicatrici sul petto[27], e se ne vantava[28].
Del resto anche Alessandro, re figlio di un re, prima della battaglia di Gaugamela[29],  mise in mostra la cosmesi (o l’anticosmesi) costituita dalle cicatrici, quali garanzia delle sue parole e altrettante decorazioni del corpo: “spondere pro se tot cicatrices, totĭdem corporis decŏra”,  e, aggiunse, sono l’unico a non prendere parte del bottino.

Concludo il paragrafo del libro di Bodei: “Le vite immaginate non sono più appannaggio delle élite o espressione di esistenze mancate: si aprono ormai, circondate da aloni di opportunità più o meno concrete, a chiunque sappia farsi faber fortunae suae” (p. 103).
Per ora mi fermo qui, ma riprenderò e porterò avanti il commento di questo volume poiché, dum lego, dum scribo, disco. E, forse, dum disco, doceo.   

Giovanni ghiselli

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15 dic 2013


[1]Fr. 579 Nauck, v. 1.
 [2] E' sempre la prefazione a Timoleonte-Emilio Paolo
[3] Storie , Praefatio, 10.
[4] De Republica , VI, 26.
[5] Domande di un lettore operaio, vv. 16-19,  da Poesie di Svendborg, 1939, ,in Brecht, Poesie, p. 157.
[6] War is exciting, even if it entails risks for one’s life and much physical suffering  ( Erich Fromm, The Anatomy of human destructiveness, pp. 241-242
[7] Cfr. Dei sepolcri, v. 228
[8] Cfr. Dei sepolcri, v 292.
[9] Ifigenia in Aulide, vv. 1398-1399.
Altrettanto Macaria negli Eraclidi: “tavd j ajnti; paidwn ejstiv moi keimhvlia (591), questi saranno i ricordi della mia vita invece dei figli.
[10] La poesia fonda la sua potenza sulla compressione. Poeta in tedesco si dice Dichter, colui che rende le cose dicht (spesse, dense, compatte). L’immagine poetica comprime in un’istantanea un momento particolare caratteristico di un insieme più vasto, catturandone la profondità, la complessità, il senso e l’importanza” Hilman, La forza del carattere, p. 70
[11]“ La poesia conclude le Odi e costituisce una rivendicazione non solo della propria opera, a anche, indirettamente, dell’arte poetica”.
Mi permetto di presentare la mia traduzione
Ode III, 30.
Ho compiuto un monumento più duraturo del bronzo
e più alto della mole regale delle piramidi,
che  la pioggia corrosiva, né l'Aquilone sfrenato
non possano abbattere, o l'innumerevole
serie degli anni, e la fuga delle età.
Non tutto morrò, anzi gran parte di me
eviterà Libitìna: continuamente io crescerò
rinnovandomi di fama futura, finché il pontefice
salirà il Campidoglio con la vergine silenziosa.
Si dirà per dove strepita l'Ofanto violento
e dove Dauno povero d'acqua regnò
su genti agresti, che io, da umile potente,
per primo ho trasferito la poesia Eolica nei ritmi
Italici. Assumi  l'orgoglio
 guadagnato con i meriti e cingimi
propizia, la chioma, Melpomene, con l'alloro delfico.
Ora torno alla nota di Bodei: “Sulla gloria attribuita dai poeti, cfr. anche Ovidio, Ex Ponto, II, 7, 47”.
[12] Creonte, il re di Corinto, dice a Medea: “Poi sento dire che tu minacci, a quanto mi riferiscono,/di fare qualcosa di male a chi ha dato la sposa, a chi l'ha presa in sposa/e alla sposata (Medea, vv. 287-289).
[13] Vita di Alessandro, V, 4-6.
[14] Della primavera del 327 a. C,  in Sogdiana, Uzbekistan
[15] Curzio Rufo attribuisce questo pensiero anche a  Dario III il quale prima della battaglia di Isso,  dice “famā bella stare” 3, 8, 7. Come nelle Eumenidi di Eschilo, le parti in conflitto hanno un pensiero comune.
Nelle Storie di Livio, il console Claudio Nerone, in rapida marcia contro Asdrubale, che verrà sconfitto poco dopo, sul fiume Metauro (tra Fano e Senigallia, 207 a. C.) arringa brevemente i soldati dicendo: “Famam bella conficere, et parva momenta in spem metumque impellere animos” (27, 45), quanto si dice decide le guerre e circostanze anche piccole spingono gli animi alla speranza e alla paura. Nella Germania di Tacito, i capi sono assai reputati, afferma l’autore “si numero ac virtute comitatus emineat”, se il loro seguito si distingue per numero e per valore; in questo caso: “expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsā plerumque famā bella proflīgant” (13, 3), vengono infatti richiesti attraverso ambascerie e vengono onorati con doni e con la stessa fama per lo più determinano l’esito delle guerre. 
[16] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 199-200.
[17] Si veda Cesre, De bello gallico, VII, 50, 7, dove dice di averli portati in mezzo ai pericoli spinto dal desiderio di gloria (cupiditate gloriae adductus).
[18] Manzoni, Il cinque maggio , v. 8.
[19] Tolstoj, Guerra e pace, epilogo, parte prima, III.
[20] Tolstoj, Guerra e pace, epilogo, parte prima, III.
[21] Lisandro  concluse la guerra del Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti stimavano che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento e raccomandava sempre:" o{pou ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6).
[22] Faccio un solo esempio relativo a Shakespeare: la bellezza e la dignità della morte vengono anteposte alla degradazione della vita da Cleopatra, l'ultima dei Tolomei: lo capisce l'ancella Carmione la quale, al soldato che, vedendo il cadavere della regina, le ha domandato : "kala; tau'ta Cavrmion ;" è bello questo?, risponde con il suo ultimo fiato: "kavllista me;n ou\n kai; prevponta th'/ tosouvtwn ajpogovnw/ basilevwn" (Plutarco, Vita di Antonio, 85, 8), è bellissimo e si confà a una donna che discende da re tanto grandi. Lo stesso personaggio dell'Antonio e Cleopatra di Shakespeare, all'ottuso guardiano (First Guard) che le ha posto la medesima domanda retorica (Charmian, is this well done?) , replica : "It is well done, and fitting for a princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier! (5, 2)", è ben fatto e adatto a una sovrana discesa da tanti nobili re. Ah soldato!
[23] "I versi di Lucano esprimono un giudizio forse esasperato e unilaterale, che però, riferito alla reputazione postuma di Al., è fin troppo vero" (Bosworth,  Alessandro Magno, p. 199).
[24] In sette libri completati nel 64 d. C.
[25] Vita scritta da esso , Epoca terza, cap. VII. Alfieri viene preso da furori plutarchei nel vedere  Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella d’uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all’autorità despotica da me sì caldamente aborrita” (Vita, 3, 8).
[26] Plurarco, Vita di Mario, 3
[27] Cfr.   Mario nel Bellum Iugurthinum  di Sallustio dove  dice che non può ostentare i ritratti degli antenati, ma trofèi di guerra “praeterea cicatrices advorso corpore” (85) e in più le cicatrici sul petto.
Le ferite spesso parlano: non sempre sono " dumb mouths "(Shakespeare, Giulio Cesare , III, 2) , bocche mute, come quelle di Cesare assassinato. "Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste "intensità sconvolgenti siano una sorta di messaggio: sono "cicatrici", ferite, che segnano la nostra vita" ( J. Hillman, Il piacere di pensare , p. 66)
[28] Plutarco, Vita di Mario, 9.
[29] ottobre del 331 a. C.

1 commento:

  1. Sicuramentre a me insegni. Mi fa molto piacere questa seconda puntata. Per Natale leggerò questo interessante libro che potrò utilizzare a scuola dove insegno greco e latino.
    Alessandro

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