mercoledì 19 luglio 2017

Teocrito. Parte X. Appendice


Il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e scappa da chi lo insegue.

Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor. (Ovidio, Amores, 2, 20, 36)
Tale locus ha un'ampia presenza nella poesia amorosa e, probabilmente, pure nell'esperienza personale di ciascuno di noi: Teocrito nel VI idillio paragona Galatea che stuzzica Polifemo alla chioma secca che si stacca dal cardo quando la bella estate arde: "kai; feuvgei filevonta kai; ouj filevonta diwvkei" (v. 17), e fugge chi ama e chi non ama lo insegue. Nell'XI idillio lo stesso Ciclope si dà il consiglio di non inseguire chi fugge ma di mungere quella presente (75), femmina ovina o umana che sia.
Abbiamo anche qui l'ironia teocritea che deriva dalla consapevole dissonanza tra l'elemento popolare e quello raffinato letterario. Teocrito è, come Callimaco, un rappresentante di una poesia cosiddetta postfilosofica: "Post-filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall'universale e si rivolgono con amore al particolare"[1]. Lo stesso Snell qualche capitolo prima aveva ricordato che nel V secolo era comunque già avvenuto "quel distacco fra il mondo della storia e quello della poesia" codificato da Aristotele quando afferma "che la poesia è più filosofica della storia poiché la poesia tende all'universale, la storia al particolare"[2] (p. 141). La poesia postfilosofica dunque non racconta più l'universale. Post-filosofica o almeno post-illuministica sarebbe anche quella di Goethe:" Callimaco e Goethe si trovano entrambi ad una svolta storica; al tramonto di una più che secolare cultura illuministica che ha dissolto le antiche concezioni religiose, quando è venuto a noia anche il razionalismo e incomincia a sorgere una nuova poesia significativa. Ma l'evoluzione del mondo antico segue una via così diversa da quella del mondo moderno, che Callimaco, e con lui tutto il suo tempo, si dichiara per la poesia minore, delicata, mentre Goethe, interprete anch'egli dei suoi contemporanei, dà la preferenza alla poesia patetica, interiormente commossa"[3].
"Un epigramma di Callimaco (Anth. Pal. 12, 102) liberamente tradotto per l'occasione in versi latini, è in Orazio il ritornello caro a questi incontentabili stolti:" Come il cacciatore insegue la lepre nella neve e non la prende quando è a portata di mano, così fa anche l'amante che oltrepassa a volo ciò che è alla portata di tutti e cerca di prendere quello che fugge: "Meus est amor huic similis: nam/transvŏlat in medio posita et fugientia captat " (Sermones , 1, 2, 107s.). Ed è proprio questo epigramma di Callimaco che fornisce ad Ovidio (in un componimento degli Amores tutto impegnato a redigere il codice della perfetta relazione galante) il motto che può rappresentare emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor (2, 20, 36) "[4], evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
E' questo un luogo comune dell'amore, o, forse, della non praticabilità dell'amore.

Sentiamo qualche altra testimonianza.
Catullo cerca di sfuggire obstinata mente (8, 11) a questa legge che nega la realtà dell'amore facendone un'utopia:"nec quae fugit sectare, nec miser vive " (8, 10), non dare la caccia a quella che fugge e non vivere da disgraziato.
Nell' Hercules Oetaeus attribuito a Seneca la nutrice di Deianira per consolare la sua alumna le dice che Iole ridotta oramai a schiava è una preda oramai troppo facile per Ercole e, quindi, non più ambita: "illicita amantur; excidit quidquid licet" (v. 357), sono amate le cose non consentite, tutto quello che è concesso decade.
Nella Gerusalemme liberata leggiamo: "Ma perché istinto è de l'umane genti/che ciò che più si vieta uom più desìa,/dispongon molti ad onta di fortuna/seguir la donna come il ciel s'imbruna" (V, 76).
"L'amore fugge come un'ombra l'amore reale che l'insegue, inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l'insegue". (William Shakespeare, Le allegre comari di Windsor, 1602)
Nella commedia La locandiera (del 1753) Goldoni fa dire alla protagonista, Mirandolina, in un monologo. "Quei che mi corrono dietro, presto mi annoiano" (I, 9).
Una situazione analoga troviamo ne Il giocatore di Dostoevskij dove il protagonista dichiara il suo amore a Polina in questi termini: "Lei sa bene che cosa mi ha assorbito tutto intero. Siccome non ho nessuna speranza e ai suoi occhi sono uno zero, glielo dico francamente: io vedo soltanto lei dappertutto, e tutto il resto mi è indifferente. Come e perché io l'amo non lo so. Sa che forse lei non è affatto bella. Può credere o no che io non so neppure se lei sia bella o no, neanche di viso? Probabilmente il suo cuore non è buono e l'intelletto non è nobile; questo è molto probabile"[5].
Proust nel V e terzultimo volume della Ricerca, conclusa negli ultimi mesi di vita (tra il 1921 e il 1922) esprime lo stesso concetto: "Qualsiasi essere amato-anzi, in una certa misura, qualsiasi essere-è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"[6].

L'analogia con il cacciatore può essere estesa a quella con il raccoglitore di fiori. Il fiore raccolto non è più amabile. Molto note sono le ottave dell'Orlando furioso: "La verginella è simile alla rosa,/ch'in bel giardin su la nativa spina/mentre sola e sicura si riposa,/né gregge né pastor se le avicina;/l'aura soave e l'alba rugiadosa,/l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:/gioveni vaghi e donne innamorate/amano averne e seni e tempie ornate.//Ma non sì tosto dal materno stelo/rimossa viene, e dal suo ceppo verde,/che quanto avea dagli uomini e dal cielo/favor, grazia e bellezza, tutto perde./La vergine che 'l fior, di che più zelo/che de' begli occhi e de la vita aver de',/lascia altrui còrre, il pregio ch'avea inanti/perde nel cor di tutti gli altri amanti" (I, 42-43).
Troviamo un’occorrenza di questo topos in El burlador de Sevilla (1630) di Tirso de Molina: “regola dell’amore/è amare chi ci odia, /sprezzare chi ci adora,/perché, se è pago, muore,/e vive se è ferito” (I, 10).
Meno noti sono forse il sentimento e la riflessione di Vrònskij dopo che ha realizzato il suo sogno d'amore con Anna Karenina: "Lui la guardava come un uomo guarda un fiore che ha strappato, già tutto appassito, in cui riconosce con difficoltà la bellezza per la quale l'ha strappato e distrutto"[7].
Gozzano, su questa linea, sospira con ironia:" Il mio sogno è nutrito d'abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/ che non colsi"[8].
Sentiamo infine C. Pavese: "Ma questa è la più atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si perdono"[9].


FINE



[1] Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 372.
[2] Aristotele, Poetica, 1451b.
[3]Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 371.
[4]G. B. Conte, introduzione a Ovidio rimedi contro l'amore, p. 43.
[5] F. Dostoevskij, Il giocatore, p. 42.
[6] M. Proust, La prigioniera, p. 183.
[7] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 366.
[8] Cocotte, vv. 67-69.
[9] Il mestiere di vivere, 30 settembre 1937.

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