domenica 16 luglio 2017

Ifigenia. La telefonata del 28 luglio 1979

Apollo sul Tripode Aureo

La telefonata del 28 luglio 1979. Le fronde vocali e i fiori profetici di Debrecen

Torniamo a Debrecen, all’estate del 1979, alla mia attesa della lettera promessa da Ifigenia. Fare aspettare chi ama è uno degli arcana imperii, i mezzi, a dire il vero nemmeno tanto segreti, dell’amato che vuole tenere sottomesso l’amante.
Il 28 luglio corsi i 5000 metri in meno di 20 minuti, poi, incoraggiato da questa prova, allora discreta, della mia salute almeno corporea, trovai la forza mentale per andare a telefonarle. Ricordo ai lettori più giovani che all’epoca non esistevano i cellulari, né altro del genere, e per sentire una persona da Debrecen a Rimini dove si trovava Ifigenia, bisognava andare alla posta, prenotare e aspettare, talvolta anche per ore.
I telefonini usati male del resto ostacolano il dialogo invece di agevolarlo: oggi vedo tante coppie di amanti o di amici che quando si trovano a contatto, invece di parlare tra loro, guardano fissamente il cellulare agitando freneticamente le dita, oppure parlano in quell’aggeggio ad altre persone assenti.
Mentre il tram percorreva il non breve tragitto dall’università alla posta centrale situata di fianco all’Aranybika, io, seduto nella panca di legno traballante sulle rotaie, pensavo con trepidazione alla bella in procinto di ricevere la telefonata, forse risolutiva, nella casetta prospiciente il tremolare della marina. Le foglie degli alberi che fiancheggiavano la linea tramviaria, sbattute dal vento caldo del pomeriggio, si agitavano e davano voce al destino con parole non sorridenti, non profumate, non imbellettate.
Pensavo alla profetica Sibilla dell’oscuro Eraclito[1].
“Perché non ti ha ancora cercato? Sei partito da una settimana, le hai mandato quattro espressi[2], e lei non ti ha scritto una parola. Cosa pensi che stia facendo se non sfogare con altri uomini le sue libidini inaudite?”

Così urlava la fronda sbattuta dal vento, con bocca pazza[3], o saggia, non lo sapevo. Il tram tremava sulle rotaie e io sentivo la mia anima di uomo trentacinquenne, oltretutto saggiato e indurito da prove difficili, spesso pure crudeli, tremarmi dentro, come quando arrivai a Debrecen da novizio, quella sera remota del luglio 1966, e, arrivata la notte, feci il primo tragitto sul tram numero 1 cercando di arrivare al collegio della borsa di studio, senza trovarlo. Sicché tornai indietro nell’oscurità della notte e andai a dormire nell’Aranybika, incerto su tutto. Non sapevo che in quella Università estiva nelle estati successive avrei trovato tre borse di studio propulsive e accrescitrici di tutta la mia vita: Helena, Kaisa e Păivi.  Ma questo l’ho già raccontato[4].
Nella nuova incertezza piena di inquietudine avevo paura che Ifigenia non mi avesse scritto siccome aveva incontrato un tipo più congeniale e che al telefono mi avrebbe dato risposte imbarazzate, confuse, o addirittura umilianti per me.
Arrivato alla posta centrale, chiesi la linea e aspettai: in attesa con me c’erano contadine vestite di nero che tenevano in mano panieri colmi di uova, c’erano soldati in ozio pieni di noia, c’erano bambini stanchi, nervosi che piagnucolavano implorando le madri di portarli via da quel luogo caldo e semibuio.
Avevo terrore che l’amata dicesse: “Tu che cosa vuoi da me?”
O, peggio ancora, che mi rispondesse con imbarazzo, che fingesse di non sentire le mie parole, che non dicesse nulla di risolutivo. Avevo bisogno di uscire da dubbio. Lo schianto avrebbe provocato non solo dolore ma anche conoscenza e forse pure bellezza.
Verso le sette, con l’estremo allungarsi delle ombre delle case e degli alberi, giunse l’agognata comunicazione: ipsa canas oro[5].

Appena l’ebbi salutata, Ifigenia si mise a parlare in maniera concitata: mi amava molto, diceva, immensamente, diceva, e io dovevo fidarmi di lei, diceva. Lei di me si fidava, diceva. Quando mi lasciò parlare, risposi: “
“Anche io ti amo, sapessi quanto mi manchi, quanto ti penso, quanta fatica mi costa passare i giorni e le notti senza di te!”
Poi venni al dunque e dissi: “Scrivimi presto, ti prego: la mia felicità qui a Debrecen si fonda tutta sulla speranza di ricevere posta da te”.
“Sì, va bene, tesoro - rispose - ti scriverò presto, domani stesso”
“Ho capito. Nella lettera raccontami i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti”, conclusi. Finem dedi ore loquendi [6].
C’ero rimasto male in quanto speravo, dopo una settimana dal nostro distacco e tre espressi miei, che Ifigenia avesse almeno cominciato a rispondermi. Invece niente. Quel “ti scriverò presto, domani stesso” non era per niente un buon segno.
Cercavo di consolarmi pensando che poteva andare anche peggio. Mentre tornavo in collegio e facevo il conto di tutto, decisi che in fondo non dovevo essere completamente infelice.
Però, pensandoci meglio, mi rendevo conto che pessima è l’amante che ti costringe a conteggiare, una donna della quale puoi risolverti a non essere completamente nauseato di lei, perché dopo tutto, nonostante tutto, ti conviene. Bella era bella, era giovane tanto e mi dava il suo corpo senza aspettare regali se non un acculturamento che do sempre gratis a quanti se lo aspettano da me.
Eppure una donna del genere porta pene ed è deleteria.
Dietro la maschera c’erano delle reticenze, come minimo, e, più probabilmente anche delle menzogne. Päivi, un’ora dopo essere partita, mi scrisse dal treno: I miss you[7]. Così come lei mancava a me. C’era reciprocità. Non perseverò questo requisito essenziale in una coppia di amanti che si amano l’un l’altro, durò solo un mese e mezzo, ma allora c’era. Senza reciprocità l’amore non è contraccambiato, ed è una negotiatio, un affare utile senz’altro a chi non ama e magari con qualche aspetto meno palese di utilità anche funzionale agli interessi di chi ama. Comunque chi ama, o ama di più, soffre della discrepanza.

Insomma la bella non intendeva lasciarmi e io volevo continuare con lei, per cui mandai giù l’angoscia, la smaltii, poi mi ritrovai quasi contento. Erano le otto di sera: subito dopo il tramonto, il vento si era placato e le foglie sopra i binari non si muovevano più furiosamene poiché i soffi leggeri dell’aria calda non bastavano a metterle in agitazione, né il tram numero 1 con la sua andatura lenta. Tutto sembrava pacificato. Il cielo, dalla parte del collegio, e i fiori rossi lungo i binari, ardendo nel crepuscolo, estivo sembravano darmi una speranza di rinnovamento in un futuro migliore.
Significavano senza dire una parola, come Apollo delfico: “oJ a[nax ou| to; mantei'ovn ejsti to; ejn Delfoi'", ou[te legei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei”.[8]


15 luglio 2017
giovanni ghiselli  





[1] Cfr, fr. 92 D.-K.
[2] L’espresso era una lettera inviata con i francobolli e l’etichetta dell’urgenza. Impiegavano poco tempo ad arrivare, massimo due giorni anche dall’Ungheria all’Italia.
[3] Manomevnw/ stovmati nel frammento di Eraclito segnalato sopra.
[4] Nel capitolo “L’arrivo a Debrecen”, bello assai,
[5] Virgilio, Eneide, VI, 76 Canta tu stessa, ti prego!  Sono parole dette da Enea alla Sibilla cumana.
[6] Cfr. Eneide, VI, 76, smisi di parlare.
[7] Mi manchi
[8] Eraclito (fr. 93 D. K.), il signore di cui c’è l’oracolo a Delfi non dice e non nasconde ma significa 

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