venerdì 8 settembre 2017

Ifigenia. Debreceni Venus

Venere di Pompei
La Venere di Debrecen

Andai a bere un caffè. Ci misi lo zucchero. Mi rinfrancai pur pensando che ancora una volta occupavo il tempo con quella specie di droga. “L’alcol è peggio - pensai - prima ti eccita, poi ti stordisce e ti fa invecchiare. Rende equivoca la lussuria e tante altre cose - ricordai[1]. Citare gli auctores accrescitori, agli altri e a me stesso, mi ha sempre aiutato. Finita la pausa, tornai a rimuginare su Ifigenia, equivoca-equivocatrice pure lei. Anche se mi ingannava, e chissà cosa diavolo voleva da me poiché regali non gliene facevo, io non dovevo perdere lo stile, il ritmo e l’aspetto acquistati con anni di sacrifici: avevo raggiunto una discreta cultura, avevo carisma con i ragazzi e potevo educarli al bello e al bene. Dovevo accrescere le mie forze e le capacità educative. Lo studio e l’educazione erano i compiti della mia vita. Cominciavo a capirlo. Erano i fini. Gli eventi amorosi erano mezzi. Potevo perfino utilizzare le emozioni cattive per potenziare la mia forza di educatore. Questa anzi doveva arrivare a sublimarsi nell’arte, nelle forme eterne della bellezza, elevarsi fino all’educazione di un popolo intero. Ifigenia mi faceva crescere non solo e non tanto con la gioia, ma anche, e in quel momento soprattutto, con il dolore. Me lo sarei lasciato infliggere finché non ne avessi trovato il significato. Allora sopra le lacrime avrei sorriso per l’intelligenza della pena e ne avrei tratto frutti gustosi. Mi stavo avvicinando al centro, al compito della mia vita. Entrai nel Museo. Era dal 1966, quando ci portarono i professori di allora, che non mettevo piede là dentro. Quello era il tempo della feccia della mia vita. L’avevo bevuta tutta, poi avevo cominciato a estrarre intelligenza dal dolore non nascondendolo a me stesso né agli altri. Lo superai comprendendo che se non lo smaltivo mi avrebbe impedito di compiere quanto costituiva la ragione della mia esistenza terrena. Infine avevo capito che è stolto chi vive per soffrire. Quella mattina lontana avevo notato, per la ridicula iunctura, una Debreceni Venus, Venere di Debrecen, non bella per giunta. Come dire lo Zeus di Osimo o di Castelfidardo. Da allora erano passati tredici anni nei quali gli autori e le amanti avevano risvegliato il mio senso del bello. Vidi e notai i quadri di Munkácsy che mostrano alcuni aspetti e significati dell’Ungheria e del popolo magiaro: il pittore aveva evidenziato i caratteri peculiari, la malinconia della sua terra e lo zingaresco romanticismo della sua gente. Altri dipinti mostrano donne sole, oppure con cani e bambini. Osservando questi, scattò il nesso con la donna che mi stava mentendo e facendo soffrire. Pensai che sarebbe rimasta sola lei pure, siccome voleva usare gli uomini e finiva che veniva usata poiché mirava a gente più forte e ancora meno buona di lei poveretta.

Uscii nella luce del sole un poco rasserenato poiché cominciavo a capire. Girai a lungo finché venne l’ora di cena. Tornai in collegio, entrai nella mensa sonora delle voci contente dei giovani che a coppie o a piccoli gruppi prendevano accordi per passare in compagnia la bella notte estiva. All’epoca i ragazzi e le ragazze si guardavano in faccia e si parlavano. Ora fissano orrendi aggeggi pigiando dei tasti con mani frenetiche. Non sanno più osservare, riflettere, nemmeno parlare. Avrei dovuto mangiare, ma il cibo pur buono non mi attirava. Prima dovevo smaltire del tutto la pena. Mi ero seduto a un tavolo di vietnamiti. Avevo simpatia per quel popolo. Ricordai quando cantavamo “il Vietnam è comunista, giù le mani dal Vietnam”. Avrei voluto parlare con loro, ma non capivano l’inglese. Mi alzai e andai a sdraiarmi nel prato fra i due collegi: era luminoso di luna. Alcuni giovani cantavano con garbo e con allegria. Uno suonava la chitarra. Osservarli, ascoltarli e guardare il cielo era un ottimo antidoto al veleno dell’angoscia iniettata nel pomeriggio. Cantavano in coro al lume della luna alta sul prato sentendosi uniti: mi facevano tornare in mente il meglio della mia vita, dalle Elene, a Kaisa, a Päivi a Ifigenia dell’ultimo inverno. Le avevo perse ma c’erano state. Grandi doni avevo avuto, grandissimi. Dovevo essere grato.
“Tredici anni sono passati. - pensavo - La mia faccia si è segnata di rughe, i capelli un po’ diradati, delle speranze sono svanite, ma solo perché non erano ragionevolmente fondate. Ora saranno questi nuovi giovani ad avere illusioni ed è bene così. Debrecen è sempre piena di mito e poesia, un luogo dove si studia, si parla, si canta, si fa l’amore. Tutto il meglio della vita”. Ricordai che uno studente di Parma anni prima aveva detto: “la stranezza di questo luogo è che qui la gente non si odia, qui anzi le persone sono benevolmente curiose le une delle altre”.
“Che stranezza, che stranezza santa. - pensai - Questo era il vero significato della nostra università estiva”.
Guardavo i giovani e continuavo a pensare.



giovanni ghiselli




[1] Cfr. Shakespeare, Macbeth II, 3.

1 commento:

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Vediamo dunque questo mito (VII libro della Repubblica di Platone Socrate parla a Glaucone e gli dice: considera gli uomini rinchiusi...