martedì 26 settembre 2017

Ifigenia. La fine, quasi lieta, del rimuginare

Ananke
La fine, quasi lieta, del rimuginare

Quei giovani contenti, festivi, e pure educati, suscitavano la mia simpatia, oramai quasi paterna. Sentivo anche una certa malinconia siccome non ero più capace di provare le scosse emotive che mi avevano le tre finlandesi di cui ho raccontato le storie che mi avevano reso felice per tre mesi negli anni di mia salvazione 1971, 72, 74; la forza dei miei sensi amorosi era ormai tutta impiegata nel tentativo di risolvere gli enigmi di quella sfinge lontana che mi occupava l’anima intera: le sue parole ambigue, i suoi ostinati, misteriosi silenzi mi impedivano di interessarmi ad altre persone.

Perché mi interessava tanto colei?
Pensavo che Ifigenia equivalesse alla Necessità che ha la forza suprema, l’Ananche sulla quale neppure Zeus può averla vinta.  Senza quella donna in quel tempo mi sarei trovato nel vuoto di pensieri concreti, di desideri forti, di impegni reali. Gli amori mestruali con le straniere, o con le italiane in vacanza, non mi interessavano più. Nemmeno la luce della luna che faceva brillare i capelli odorosi delle ragazze, rischiarava le alte chiome delle querce antiche e illuminava i rami contorti degli alberi strani mi commuovevano, né mi facevano sentire vivo come il pensiero di Ifigenia che mi invadeva l’anima. Se lei mi avesse spedito tre righe mi avrebbe reso felice più di una vittoria olimpica o di un trofeo letterario. Non ero ancora abbastanza pratico della vita per avere capito che se volevo essere privo di turbamenti non dovevo fare dipendere il mio benessere dal favore di un’altra persona, chiunque, qualunque ella sia. Ora lo so. Sentivo solo che in ogni maniera, spogliandosi davanti a me, certo, ma anche non scrivendomi e non facendosi trovare in casa, quella donna mi emozionava e disannoiava. Perciò mi sforzai di pensare che non mi stesse tradendo, che presto, la mattina seguente, avrei ricevuto la posta agognata. Del resto, anche se mentiva, tradiva, non mi scriveva, nell’anno di grazia 1979, era lei, solo lei, la persona che poteva farmi procedere, metodicamente, sulla mia via[1]. Se non fosse stato così, non ne avrei sofferto la mancanza in quella maniera. 
Pensavo pure, e questo realisticamente, che Ifigenia, anche se, come probabile, non mi amava, non mi avrebbe lasciato, siccome nel suo opportunismo capiva che il mio bisogno di lei era anche una necessità di darle una mano della quale aveva necessità. E ne faceva gran conto. Con tali pensieri cercavo di smaltire la pena. Mi vennero in mente i momenti migliori dei mesi belli passati insieme, quando la gioia incrementava e potenziava le vite nostre, reciprocamente. Non dovevo rinnegare tanta grazia ricevuta da quella giovane donna e da Dio, chiunque egli fosse, per una lettera che ritardava. Non volevo, e non potevo drizzare la prua della mia vita contro l’onda del fato.

“Sii nobile - mi dissi alla fine di tanto rimuginare - ama il demone tuo. Tu sei il tuo destino. E lei ne fa parte. Non puoi non amare il tuo fato se ami te stesso. A un certo punto non ci saranno più dubbi e allora sarà tutto finito, ma ora i giochi non sono chiusi per sempre. Tu hai ancora bisogno di lei e lei di te, altrimenti ti avrebbe già liquidato, come fece con il suo ex quando ti ha conosciuto”.
Intanto, mentre i giovani fusi per herbam , raggruppati per lingua e nazione, cantavano a turno le canzoni dei loro flolclori nazionali e l’amabile luna seminava una rugiada di perle sui capelli, sulle braccia e sulle gambe abbronzate delle fanciulle,  io avevo annientato ogni angoscia autorizzando il mio istinto con l’esperienza, con l’intelligenza e con il doloroso amore della  vita, la mia e quella dell’universo.

giovanni ghiselli, detto gianni, il poverello di Pesaro.



[1] Rispetto a “metodicamente” è una tautologia voluta: oJdov" infatti significa “via” 

1 commento:

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