venerdì 15 settembre 2017

La Commedia antica. Aristofane: “Le Rane”


La Commedia antica. Aristofane: Le Rane

Venerdì 22 Settembre alle 18 
ne parlerò presso la Biblioteca Lame-Cesare Malservisi, sala studio primo piano
Nell'ambito di "Un tuffo nei classici", due conferenze a cura del prof. Gianni Ghiselli:
Le Rane di Aristofane: il mito. la politica, la guerra, la critica letteraria

La Commedia attica viene tradizionalmente divisa in tre tipi: la Commedia antica che va dalle origini agli inizi del IV secolo,
la Commedia di mezzo, fino al 325 circa, e quella nuova che arriva fino alla metà del III secolo in lingua greca, poi viene ripresa in latino dai drammi di Plauto e Terenzio.

La Poetica di Aristotele afferma che la tragedia vuole imitare (mimei'sqai bouvletai) personaggi migliori di quelli reali (beltivou") mentre commedia è imitazione di uomini peggiori di quelli reali (ceivrou" tw'n nu'n, 1448a), ossia volgari e tali che non suscitano tanto lo sdegno quanto il riso provocato dalla visione del ridicolo, "Il ridicolo infatti" (to; ga; r geloi'on) spiega il filosofo "è qualche cosa di sbagliato e una deformità indolore e che non dannosa " (aJmavrthma ti kai; ai\sco" ajnwvdunon kai; ouj fqartikovn 1449a).
L'errore a dire il vero viene menzionato anche per i personaggi tragici (ajmartiva, 1453a); la differenza è che nei loro confronti deve nascere pietà e terrore per la loro disgrazia (dustuciva) causata da sbagli appunti, non da vizio malvagità (dia; kakivan kai; mocqhrivan), mentre la maschera ridicola è qualche cosa di deforme e stravolto senza sofferenza (to; geloi'on provswpon ajscrovn ti kai; diestrammevnon a[neu ojduvnh", 1449a).
La commedia dunque è mivmhsi" faulotevrwn imitazione di personaggi più incapaci del necessario, ed è l'assenza di pietà che contraddistingue la commedia dalla tragedia.

Hegel nella sua Estetica sostiene che "sono propri del comico l'infinito buon umore in genere e la sconfinata certezza di essere ben al di sopra della propria contraddizione. . . ossia la beatitudine e l'essere a proprio agio della soggettività che, certa di se stessa, può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni" (p. 1591). Il comico è il soggettivo che non soffre delle sue contraddizioni. Può essere uno scopo meschino perseguito con serietà e non raggiunto senza sofferenza. Oppure individui frivoli che si pavoneggiano mentre tendono a fini seri, come le Ecclesiazuse. Nel crollo di tutti i valori politici rimane quello della soggettività (cfr. nel tragico, Medea superest).

Ancora una volta il personaggio della commedia non suscita pietà. Viene fatto l'esempio delle Ecclesiazuse di Aristofane, le donne a parlamento che"vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione" ma "conservano tutti i loro capricci e passioni di donne" (p. 1592).
Invece nella commedia nuova di Menandro entrerà la compassione ed essa, esclusa dal comico, verrà inclusa nell'umorismo del noto saggio su L’umorismo di Pirandello: "Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere… Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s' inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico".

Gli altri 2 esempi: Marmeladov di Delitto e castigo e Sant’Ambrogio di Giusti.
Cfr. la terapia del rovesciamento, mettersi nei panni degli altri.
A questo proposito sentiamo Leopardi: “gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare”[1].

Il sentimento del contrario è dunque una forma di compassione, in senso etimologico.

Il comico nasce dalla superiorità in cui viene a trovarsi il pubblico rispetto all'attore[2]: deriva dunque dalla differenza di significato che le parole hanno nella bocca e nelle intenzioni di chi le pronuncia rispetto all'intendimento di chi le ascolta, più avanzato, siccome a maggiore conoscenza dei fatti. Il riso allora scaturisce dalla soddisfazione dello spettatore il quale si sente superiore poiché non partecipa del ridicolo o (nella tragedia9 delle sofferenze o del che colpiscono il personaggio.
Ma, tornando alla Poetica di Aristotele e alle origini della commedia, questa nacque da "coloro che dirigevano i canti fallici" (1449a).

 I Dori rivendicano l'invenzione della commedia etimologizzandola con il vocabolo dorico kwvmh (villaggio): il nome sarebbe derivato dal fatto che gli attori passavano kata; kwvma", di villaggio in villaggio.
 L'altra etimologia possibile, pur se scartata dai Dori, è quella che collega commedia con il verbo kwmavzw (faccio baldoria) e con il sostantivo kw'mo" (processione bacchica).
Ne risulta la possibile origine campagnola di un genere dai contenuti licenziosi e mordaci che sembra anticipare i Fescennini romani: "versibus alternis opprobria rustica ", insulti rustici in versi alterni, come li definisce Orazio (Epistole II, 1, 146).
Certo è il collegamento del dramma, sia comico sia tragico, con i riti della fertilità e con il culto di Dioniso, un dio la cui rinascita costuiva al tempo stesso una speranza di resurrezione per i suoi seguaci e un simbolo della vicenda delle messi o della vegetazione in genere connessa all'eterno alternarsi delle stagioni.
Cfr. Ammiano Marcellino sulle feste ad Antiochia per la morte di Adone quod in adulto flore sectarum est indicium frugum " (Storie, XXII, 9, 15).


CONTINUA



[1] Zibaldone, 1376.
[2] Un poco come nel meccanismo del resto tragico dell'ironia sofoclea

1 commento:

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