sabato 8 marzo 2025

Elena capitolo VI Il prato della sventura. La foresta sconsacrata.

 

La mattina del 26 luglio del 1971, un lunedì, mi svegliai contento perché ero innamorato della Marjantola e le avevo insegnato ad amarmi. “Ottimo risultato pedagogico, e pure erotico”, pensavo, speravo, ne ero quasi sicuro. “Il più importante successo della mia vita.

Darà nuova forza alla mia identità.

 L’amore farà spuntare le ali. A me e a lei: “ quid agi oporteat bonis successibus  instruendi  erimus[1].

 

Volevo vederla, ma non avevamo preso un accordo preciso.

Alle 11, 30 dopo le lezioni, invece di andare a correre,  come  faccio quando non c’è Cristo che mi tenga fermo, sedetti sul prato in mezzo ai nostri collegi, sperando che Elena si affacciasse presto alla finestra di camera sua, come la sera prima, oppure, spuntata come il Sole dalla parte dell’Università, quella orientale, venisse  da me. Era un giorno di estate piena, ancora trionfante: la grande luce faceva brillare e rallegrava le pareti degli edifici, colorava le cose, la pelle e i capelli delle persone, la scorza e le foglie degli alberi, rendeva luminose perfino le ombre sul prato, dense e raccolte a quell’ora.

Il mondo era la rappresentazione della mia gioia nell’attesa della creatura che amavo e quasi sicuramente mi amava.

A mezzogiorno già passato però, la bella donna biancovestita non si era ancora fatta vedere. Eppure da quell’osservatorio cruciale in quanto posto all’incrocio dei nostri cammini, sul trivio fatale dei nostri destini, avevo potuto osservare tutte le uscite, le entrate, i movimenti delle persone.

Mi domandavo: “l’ho forse offesa riaccompagnandola anzitempo in collegio dove oltretutto ero andato a prenderla tardi?

Oppure la bella donna, invero non proprio assurdamente, ha pensato che il nostro amore è assurdo perché lei aspetta un figlio dal suo fidanzato e noi due, per giunta, abitiamo distanti duemila e cinquecento chilometri l’uno dall’altro?

Oppure il caldo di questa giornata, meraviglioso per me, ma forse eccessivo per tale creatura cresciuta tra i boschi e i laghi iperborei l’ha fatta fuggire e tornare nell’ultima Thule da dove era partita una settimana fa, improvvida del nostro incontro pericoloso?

E io che la voglio prendere, sono forse come un fanciullo che insegue un uccello che vola[2], o cerca di afferrare con le mani un pesce che sguscia?”

Questa ipotesi mi parve orrenda.

Agli amici e conoscenti, che andavano e venivano chiacchierando, chiedevo se l’avessero vista passare, ma Fulvio, scusandosi, disse di no, Stefania non ci aveva fatto caso, Claudio, Alfredo, Bruno, Silvano neanche. Quelli non sapevano che cosa fosse la felicità, né l’infelicità.

La garrula fama, la chiacchiera curiosa e linguacciuta non dava notizia di lei.

Il Cynicus parmensis  anzi proferì parole di malaugurio: “Chi la cancerogena? No”. Quindi aggiunse: “Tanto non guzza! Piantala con questa tuo folle fissazione amorosa non contraccambiata!”.

 L’accento era più che mai infernale, rauca la voce di quel profetismo da iena, il gesto minaccioso. “Lo spirito diabolico che sempre nega, prima o poi la pagherà-pensai-, se non oggi domani o dopo domani. Al più tardi, il giorno del Giudizio:“ Iudex ergo cum sedebit-quidquid latet apparebit-nil inultum remanebit[3].

 

 La voce tartarea, malignamente ominosa questa volta mi turbò parecchio.

“Pensa, lettor, se io mi sconfortai

Nel suon delle parole maladette”[4].

Aveva cercato di trascinare nel suo abisso, un miracolo, una meraviglia della creazione.

“Di bocche senza freno, di follia senza misura, il termine è sventura”[5], gli ricordai mentre al dolore si aggiungeva dolore.

 

A mezzogiorno e mezzo mi invase il terrore che la misteriosa creatura fosse morta, che i suoi occhi dalle vivaci pupille veggenti si stessero già disfacendo in polvere, oppure, nauseata dal caldo e da me, fosse tornata in Finlandia nel luogo da dove si era allontanata quando si incinse.

Temevo qualche metamorfosi negativa.

Infatti l’angoscia cominciò a deformare tutte le cose che divennero le immagini della mia pena: visioni simili a larve di sogni opprimenti.

Nella mia mente disincantata, anzi incantata a rovescio,  le immagini strane  subivano una dilatazione semantica: attribuivo loro significati stravolti, eccessivi, mostruosi.

Lo stesso caldo che ho sempre adorato mi stava arrostendo nella graticola tremenda di Venere[6] e sollevava un fumo nauseante che sapeva di carne bruciata. Cupi vapori arroventavano l’aria.

Vedevo invecchiare rapidamente tutto, come se ogni istante, passando, facesse precipitare nella morte scoscesa i giorni di quell’estate già lieta, interi anni della brevissima vita dell’uomo e una serie grande di secoli: l’erba senza colore, infestata da serpi velenose, si dissecava e piegava sospinta e inaridita da un fiato maligno, i fiori si  incupivano nell’ombra come quelli dell’Ade, le foglie ingiallivano e si accartocciavano, i mattoni dei nostri collegi si oscuravano e sbriciolavano, gli alberi si seccavano, si contorcevano, si attorcigliavano, gli amici diventavano orrendi e penosi: facce e teste svigorite, vane immagini del mondo dei morti, senza sguardo, senza capelli: quasi teschi mozzi strappati a denti di belve[7].

Vidi anche una figura offuscata che mi veniva avanti con le membra a pezzi. Forse era lei. O ero io stesso, tornato deforme. 

Potevo fare la fine del martire sulla croce o sulla graticola dell’amore.

Perfino il sole,  il primo fra tutti gli dèi, la luce più bella apparsa sul grande bosco di Debrecen, perdeva i suoi raggi vitali, e si scoloriva, spandeva un lume fioco e afflitto,  fino a sparire annientato da una densa caligine afosa esalata dalla mia sofferenza.

Senza di lei il sole non era più il sole. L’ombra non stava più dentro se stessa: dilagava dappertutto e offuscava la bellezza del prato, del bosco, perfino quella delle ragazze fiorenti.

La divina foresta spessa e viva stava diventando la selva dei suicidi.

“Non fronda verde, ma di color fosco

Non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;

non pomi v’eran, ma stecchi con tosco[8]

 

Sentivo il verso delle tortore, altre volte gradito araldo d’amore, come il lamentoso singhiozzo ripetuto, ossessivo, di un uomo morente e non rassegnato a lasciare la vita. A poco a poco il cielo spariva.

Oscene, ributtanti cornacchie profetizzavano il rinnovarsi di antichi sfaceli ripetendo continuamente il loro lamentevole kár  kár [9] .

 

 

 In quella non sacra oscurità  ronzavano schiere di zanzare assetate sifoni abietti,  che miravano a riempirsi di sangue. 

Scorpioni raccapriccianti ostruivano ogni via di fuga drizzando minacciosi le chele letali.

 

Il lucus della gioia radiosa e della speranza si era mutato in un bosco sconsacrato,  il luogo  nebbioso dello sconforto e della disperazione. L’orrida selva fremeva presagi esiziali

 Lugubri gufi facevano lunghi, paurosi lamenti da quegli alberi strani.

Upupe immonde con luttuoso singulto annunciavano la fine dell’amore che avrebbe potenziato la mia vita per sempre. Orribili iene sghignazzavano irridendo il mio terrore. Altri suoni malaugurosi venivano da orribili  sistri  rosi dalla ruggine,  agitati da mani sinistre.    

    

 

 Provai ad alzare il viso al cielo scomparso, ma brutte forme di sogno volteggiavano opache davanti ai miei occhi atterriti.

 

Il mondo, colpito da infezione diffusa, si presentava  sconciato e degradato in uno squallore schifoso, trasformato in un guazzabuglio che negava l’amore e la vita. 

 

Il cosmo mi chiudeva le porte. Si aprivano quelle infernali del caos cieco che se mi avesse sottratto Elena avrebbe compiuto il suo capolavoro. Da quella ianua inferni traspariva l’antimondo tetro e sinistro della morte.

 

Vedevo l’interno della mia tomba con il mio cadavere già decomposto.

Gli occhi erano buchi neri, le ossa rami secchi e fratturati.

Apparve draco ille magnus , serpens anticuus, qui vocatur Diabolus et Satanas-oj kalouvmeno" Diavbolo" kai; oJ Satanav"[10]. Si mise a fischiare, poi sogghignando disse: “ti aspetto! A me  tu non fai schifo!”

Corsì ai gabinetti per guardarmi allo specchio e vidi l’immagine più orrenda di tutte: me stesso scuoiato con un coltello nella mano sinistra e  nella destra la pelle, la vagina delle membra mie, come il San Bartolomeo del Giudizio Universale dove Michelangelo ha raffigurato se stesso per significare la repulsa della propria identità terrena.

Ma lo spellato deforme che vedevo nello specchio ero io.

Stavo per svenire, ma cercai di reagire.

Allora decisi che non dovevo tornare a tormentarmi dell’altro su quell’erba cimiteriale , che anzi dovevo allontanarmi da quel luogo dove tutto era defunto, e andare a cercare la bella donna, la sola  creatura capace di illuminare la vita del mondo, renderle tutti i colori,  e avvalorare la mia.

Dovevo contrapporre a quell’inferno piombatomi addosso il santo volto di Elena.

Era necessario che andassi a cercarla per confutare  la deformità  che mi aveva assalito, o per confermarla. Lo avrebbe deciso lei. Dovevo ritrovare e riaprire la ianua caeli, la porta del cielo. Elena poteva restaurare la mia mente disfatta, rilegare il mio animo morso e rimorso dai tormenti come un libro mangiato dalle tarme.

 Era arrivato il momento della rivolta: di dire “no!” a quel rimuginare doloroso, maniacale.

  Sollevai la testa dal gorgo degli affanni,  mi alzai di scatto dal prato dell’acciecamento e scappai via senza nemmeno salutare i compagni vestiti di nebbia. Dapprima mi mossi verso ovest, vice solis. Feci una  corsa verso il collegio numero uno fino alla porta di camera sua dove bussai ripetutamente con mani frenetiche, invano; poi, invece di fermarmi a intonare un paraklausivquron[11] , mi diedi a correre in direzione delle cliniche universitarie, che comprendevano il reparto delle “donne pregnanti e malate”, com’era scritto sopra l’ingresso dell’istituto già visitato e osservato con cura durante un prolungato intervallo tra le lezioni di lingua ungherese che mi importavano meno di quella femmina finnica, non per lascivia, ma poiché sapevo che l’idioma magiaro avrebbe avuto un’importanza minore dell’amore di lei riguardo alla mia crescita umana e alle scelte del demone mio, eletto a sua volta  da me.

La clinica non era lontana dal nostro collegio e la bella donna pur se pregnante, poteva raggiungerla a piedi senza sforzo né a suo discapito, ma vi lavoravano medici strani: era insomma un ambiente dove Elena , forse già in quel momento, sottostava a una visita imbarazzante, per giunta senza potersi spiegare con il ginecologo asiatico o africano, che magari era bravo e gentile, ma, se non sapeva parlare inglese né finlandese, le avrebbe fatto domande incomprensibili, mentre le palpeggiava il bianchissimo ventre con mani  nere oppure olivastre.

“Certo”, pensavo, “se i dottori neri, o gialli, o bianchi, parlano solo ungherese o altri idiomi a lei sconosciuti, Elena avrà bisogno di aiuto”.

Rimuginando, correvo lungo i binari del tram.

Vero è che si corre sempre verso la tomba dopotutto ma prima dell’avello c’era forse l’amore che mi avrebbe amplificato la vita.

Ne ero innamorato; del resto le avevo promesso che l’avrei accompagnata in ospedale per aiutarla, perciò l’avrei fatto anche se mi fosse stata indifferente o nemica.

Che cosa speravo realmente? Che fosse incinta davvero, che abortisse, che venisse in Italia con me?

Non lo so. Con il tempo, tanto tempo, ho capito che la sua funzione “storica” nei miei confronti era nutrirmi lo spirito per il rapido tempo di un mese scarso, e accrescere la mia autostima con le qualità non comuni di cui l’avevano dotata benignamente gli dèi. Perché me ne facesse dono. Benigni anche con me.

Correvo e mi ponevo domande: “Elena deve donarmi il corpo e l’anima sua. E io come la contraccambio?” Mi davo anche delle risposte: “Intanto oggi l’aiuto a spiegarsi con il ginecologo senegalese o vietnamita o uzbeko, e le faccio sentire la mia solidarietà, poi magari la renderò immortale raccontando questa storia nobile e bella di aiuto reciproco. Ci metterò la verità e la bellezza dell’arte”.

 

Bologna 8 marzo 2025 ore 19, 43 giovanni ghiselli

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[1] Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri XXXI,  21, 5, 6,

Impareremo dai buoni successi che cosa si debba fare.

 

[2] Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv.387 e sgg.) leggiamo:"Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente, abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che,sfregata, appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello che vola".

 

[3] Quando il Giudice sarà seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente  rimarrà invendicato. Sono versi del  dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo) 

 

[4] Dante, Inferno, VIII, 94-95

[5] Cfr. Euripide, Baccanti, 386-387: “ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t j afrosuvna~-to; tevlo~ dustuciva”.

 

[6] Cfr. Properzio: Correptus saevo Veneris torrebar aeno,/vinctus eram versas in mea terga manus./ " (III, 24, 13-14), afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.

 

[7] Cfr. Apuleio, Asino d’oro III, 17 extorta dentibus ferarum trunca calvaria.

[8] Dante, Inferno, XIII,  4-6.

[9] Kár in ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia dell’uomo (Az ember tragédiája, 18269 ha scritto  che il campo della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I (1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.

[10] Cfr. Giovanni, Apocalisse, 12, 9.

[11] Lamento davani alla porta chiusa.

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