Nell’aprile del ’68 dunque andai a Praga attraverso uno scambio di posti in collegio con gli studenti cechi che alloggiavano nel collegio Irnerio di Bologna, mentre noi “irneriani” eravamo nell’alloggio studentesco della città magica.
Passai le notti comprese tra il 10 e il 20 aprile, in una stanza del collegio di Praga facendo l’amore con Helena, la fanciulla onesta che mi donò tutta sé stessa senza chiedere nulla in cambio: non dico soldi o regali, ma nemmeno alcun impegno o rinuncia. Pur troppo poco mi chiese quella ragazza che mi piacque assai e le volli anche un poco di bene, ma interessato com’ero alla rivoluzione del nostro mondo e della mia persona, alla diciottenne in quel tempo non diedi tutta l’importanza che aveva e avrebbe avuto più tardi, beninteso per me. La ripensai e ne ho verificato il carattere soltanto alcuni anni dopo, riconsiderandola e rimpiangendola, invano, quando tornai a Praga, per cercarla, nella primavera piovosa del ’72.
Quando le telefonai quattro anni dopo le nostre notti incantate, Helena, rimasta onesta, non volle rinnovare quei fasti poiché nel frattempo aveva stretto un legame con un compagno di università.
La indico quale modello a quante fanno mercato della loro gioventù, oppure, dopo avere preso un impegno con un uomo, appena questo si volta, si intrigano con altri che sanno lusingarle suscitando nelle labili menti vani sogni, infondate speranze, morbosi ricordi. Oppure una libidine pazza. Meno riprovevoli queste.
Agiscono male, sed non propter nummos , ma non per i miseri quattrini né per il potere fallace.
Helena Schejbalova mi ha aiutato a uscire del tutto dall’abisso di vuoto identitario in cui ero caduto dopo il liceo.
In quella primavera fatata tutti noi giovani universitari si pensava e parlava politicamente. Il 1968 fu uno degli anni in cui la gioventù ebbe fiducia in sé stessa e nel proprio futuro.
Ogni discorso era politico: ossia relativo alla polis, alla comunità. Si viveva da comunisti, nel senso più vero cioè etimologico, non da egoisti. Aiutarsi a vicenda era perfino una moda per molti. Molti di noi, appena la moda è passata, sono tornati egoisti.
Io no siccome non avevo seguito una moda bensì avevo capito che politicamente per me significa anche umanamente e felicemente. Nelle assemblèe del movimento studentesco cui partecipai a Bologna, a Roma e Milano, non avevo i mezzi culturali per parlare, siccome mi mancava la preparazione necessaria. La mia era limitata ai tecnicismi del greco-latino, alle date e alcuni fatti della storia antica, insomma a quanto avevo studiato senza gioia per superare gli esami.
Altro non mi avevano insegnato né mi avevano invogliato a imparare per mio conto .
Nelle assemblèe non prendevo la parola che non possedevo, però ascoltavo quelli capaci di parlare politicamente. Mi sensibilizzai alla filosofia e alla storia e cominciai a studiarle per mio conto. In maggio diedi l’ultimo esame, glottologia. Il più tecnico e mnemonico di tutti.
Avevo finito gli esami, e l’Università di Bologna, dopo l’estate non l’avrei più frequentata: dovevo preparare in biblioteca la tesi-sulla poesia ungherese del Novecento. Mi laureai nel marzo successivo, quindi, in aprile feci delle supplenze a Pesaro, e dopo l’estate ebbi l’incarico a tempo indeterminato nel Veneto profondo, a Carmignano di Brenta, in provincia di Padova ma situata tra Bassano, Vicenza e Treviso.
Il cuore dunque del Veneto bianco. Mi piacque insegnare e vi rimasi cinque anni. Ma questo devo raccontarlo più avanti.
Ora voglio scrivere altre parole sul sessantotto.
Durante le assemblèe studentesche dei primi mesi di quell’anno magico mi sensibilizzai anche al problema del prossimo insegnamento, il metodo la via (odós) da seguire per educare alla letteratura e alla vita: una strada sulla quale avrei proceduto per 4 decenni: fino alle lezioni universitarie tenute nel primo decennio del millennio seguente. Il metodo si ampliava eppure si raffinava ma non ne mutava la struttura.
Già in quella primavera fatale mi resi conto che il mio modo di insegnare non doveva essere coercitivo, dogmatico, autoritario, bensì educativo e accrescitivo, basato sul rispetto della persona che non andava sottomessa presupponendone la disonestà come avevano fatto con me diversi professori stupidi e improbi proiettandomi addosso la loro stupida nequizia.
Dal movimento del ’68 dunque presi a riconoscere e valorizzare la parte bella e buona della mia persona come, tanto per fare un esempio stravagante, con la bicicletta ho valorizzato le gambe ereditate da mia madre e da mio nonno materno che vinceva le gare ciclistiche, e ho tenuto da conto i capelli che non erano diventati bianchi nemmeno a 70 anni, ereditati dalla zia materna Giulia. Oppure lo spirito burlesco, motteggiatore della nonna pesarese. Gioielli preziosi più dei diamanti.
Fin da bambino ho sempre detestato i controlli sadici, l’autorità irrazionale e inautorevole dei luoghi comuni seguiti dal gregge di chi non è capace o non ha il coraggio di pensare con la propria testa, di crescere fino a diventare se stesso con il coraggio rivelarsi qual è sotto la scorza dei pregiudizi e delle superstizioni che le mode sfacciate, la pubblicità ingannevole e ogni autorità disumana vogliono imporre a tutti e a ciascuno. In una certa fase della vita è necessaria una rivolta anche contro le imposizioni ricevuta in famiglia fin dall’infanzia. Poi, trovata l’identità propria e posseduta con sicurezza, si possono e devono recuperare gli affetti per chi ci ha messo al mondo e nutrito, allevato. Infine quando siamo ormai vecchi e i nostri cari sono morti possiamo valorizzare tutto il bene e il bello che ci hanno lasciato e pensare che le loro ossa si sian fatte coralli1
Nelle assemblèe studentesche compresi che mi mancava del tutto una cultura politica e critica indispensabile alla vita che volevo fare. Ancora non conoscevo Tucidide, ma più avanti, insegnando greco dal 1975 in poi, avrei avuto conferma della mia convinzione che chi non prende parte alla vita politica va considerato non pacifico ma inutile (oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on) 2
Eppure quando iniziai nel Veneto, il preside retrivo, refrattario a ogni forma di umanesimo e perfino di umanità, mi disse: “ricordi professore che a scuola non si deve fare politica”. Io non gli diedi retta e lui non mi diede “ottimo”, ma solo “valente” un giudizio politico negativo che mi penalizzava nel punteggio, sebbene fossi stato l’unico dei suoi giovani insegnanti a superare lo scritto del concorso per passare alle superiori.
Nel ’68 dunque ancora non conoscevo il logos epitafios attribuito da Tucidide a Pericle, ma in quei giorni lessi la meravigliosa Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana di quel prete e uomo sublime che fu Don Lorenzo Milani. Mi aiutò a comprendere che educazione è vicendevole promozione umana e culturale tra docente e discente3, è cosciente elaborazione di spirito critico nei confronti di ogni moda, luogo comune, dogma contrario alla vita, è apprendimento delle parole 4 che ci consentono di parlare in modo chiaro, efficace profondo. Nel ’68 avevo capito che dovevo procurarmi questi mezzi di educazione e di crescita mia e dei miei prossimi allievi.
In luglio tornai a Debrecen, sempre con la speranza di trovare l’amore.
Ritrovai alcuni dei compagni del 1966, ancora giovani molto, sebbene non più proprio ragazzi. Fulvio Danilo e io eravamo studenti oramai congedati dalle aule universitarie e già alle prese con la tesi di laurea.
Fulvio cantava spesso mettendo in lingua umana i versi delle pernici e Danilo seguitava a bere ma era anche un serio studioso. Ha fatto più carriera di me nella scuola.
Comunque eravamo amici e insieme si giocava, si chiacchierava si cercavano contatti umani, massime con le femmine umane. Finché mi innamorai di una ragazza di Helsinki, la prima del ciclo finnico: Eeva Vuortama.
Note
1Cfr. Shakespeare La tempesta, I, 2.
2 Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 40, 2
3 Mutuo ista fiunt, et hominess dum docent, discunt (Seneca Ep., 7, 8). Anche questo l’ho imparato insegnando
4 Don Milani insegnava tra l’altro che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"Lettera a una professoressa (p. 95)
Bologna primo marzo 2025 ore 13, 21 giovanni ghiselli
p. s.
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