domenica 2 giugno 2013

I luoghi della memoria (presentazione del libro)



Scrivo una seconda presentazione più ampia, e completa di tutti i racconti del bel libro di Adriana Pedicini. Ne farò anche una presentazione orale al Centro d'arte DLF Roma, "La Bitta", via Bari 20, 00161 Roma venerdì 7 giugno alle ore 18.

Il libro edito nel 2011 da Arduino Sacco, si intitola I luoghi della memoria. L’autrice è una fine classicista, docente emerita di lettere classiche al Liceo Giannone di Benevento.

Da amantissimo della classicità e della vita quale sono io pure, voglio presentare I 13 racconti nei quali si articola questo volume snello (108 pagine)  segnalandone le parti che sono più pregne di vita e colpiscono la sfera emotiva dei lettori. Voglio indicare pure quelle pagine che  lasciano scorgere in filigrana la cultura classica dell’autrice, una paideia che diventa educazione per quanti la leggono.

Parto dal titolo.
I luoghi della memoria sono i paesaggi dell’anima, pieni di mito e poesia.
La vita ecologica infatti è anche vita storica e vita psicologica.
La Memoria è figlia del Cielo e della Terra[1] ed è pure la strada percorsa durante la vita terrena, breve ma prolungabile con la grazia di Mnhmosuvnh.
Chi non ha la memoria che mantiene i ricordi è come il cane rabbioso, legato e invecchiato male alla catena dell’istante. Brutti ceffi pieni di risentimento, di frustrazioni, di sensi di inferiorità. Come quelli dei carnefici e di chi li approva.
L’autrice dedica il libro ai suoi genitori “con perenne gratitudine” per la formazione morale e spirituale che ne ha ricevuto. La gratitudine è un predicato della nobiltà di una persona.
Nel Filottete  di Sofocle, Neottolemo afferma che l'amicizia di un uomo capace di gratitudine vale più di qualsiasi acquisto: "o{sti" ga;r eu\  dra'n eu\ paqw;n ejpivstatai-panto;" gevnoit j a]n kthvmato" kreivsswn fivlo" " (vv. 672-673), infatti chi sa fare il bene dopo averlo ricevuto, dovrebbe essere un amico più prezioso di ogni ricchezza.
Adriana aggiunge una seconda dedica ai suoi nipotini per comunicare loro “lo stupore dolceamaro delle favole” e la lezione del passato che aiuta a crescere “buoni e saggi”.
Dallo stupore infatti, e dalla meraviglia nasce la filosofia.
Aristotele  sostiene che gli uomini hanno cominciato a fare filosofia, sia ora sia in origine, a causa della meraviglia: "dia; ga;r to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n kai; to; prw'ton h[rxanto filosofei'n"[2].
Dallo qaumavzein  non nasce solo la filosofia ma anche la poesia e tutta la cultura.
Lo Stagirita precisa che il filovsofo~ è anche filovmuqo~ poiché il mito è composto da cose che suscitano meraviglia oJ ga;r mu'qo~ suvgkeitai ejk qaumasivwn (Metafisica, 982b).

Il primo racconto Sapore d’infanzia (pp. 11-13)  paragona la vita “ad una mensa imbandita” con alcuni “piatti prelibati”  e altri “amari, aspri, nauseabondi, indigesti” (p. 11).
Tra i sapori e i profumi che, proustianamente[3] suscitano ricordi, pensieri, emozioni “il sapore e il profumo robusto e sicuro del pane” è legato all’infanzia, agli affetti, fondati, in quella stagione mitica[4], su basi che hanno costituito il piedistallo  dei successivi stati d’animo nel volgere rapidissimo degli anni che portano via tutto, quasi tutto.
La panificazione viene presentata come un rito antico che rimanda alla civiltà mediterranea e, anzi, alla civiltà umana. I Ciclopi ingiusti e violenti non coltivano piante, non arano[5], poiché sono antropofagi, come i Lestrigoni giganti che catturano gli uomini stranieri e "se li portano a casa per farne dei "festini privi di gioia" (ajterpeva dai'ta[6]). Giganti e Ciclopi  si trovano tra“gli eterni nemici della cultura"[7]. Così  come gli assassini ti tutte le risme. E chi li approva.
I profumi più “buoni e capaci di dare sicurezza ed allegria” (p. 15) sono quelli  impreziositi dagli affetti dell’infanzia, quelli che ci collegano alle persone che ci hanno voluto bene quando eravamo bambini, i profumi e i sapori che ce le ricordano.

Il secondo racconto, Teresina (pp. 17-20) parla di una donna poverissima, emarginata, sola , una di quelle persone che, incontrate per strada ci mettono addosso paura o imbarazzo. Eppure i bambini la invitavano a giocare con loro “ Forse per la verità dei sentimenti che solo la fanciullezza possiede in comune con i semplici, i bambini le volevano bene” (p. 18).
Viene  in mente il Cristo: “sinite parvulos ad me venire[8]. I bambini vanno da Gesù e da Teresina per la legge della gravitazione spirituale che avvicina i simili ai simili.
I parvuli, che non disdegnano gli ultimi, assomigliano a Teresina e a Cristo: “In verità vi dico: ‘ogni volta che avete fatto del bene a uno di questi miei fratelli minimi, l’avete fatto a me”[9].
E ora Dostoevskij, uno dei grandi classici russi.
Il principe Lev Nikolajevič Myškin, “l’idiota”, studiava e leggeva “con l’unico scopo di poter intrattenere i bambini”. Eppure pensava di imparare più lui dai piccoli che loro da lui, e non capiva come facesse a provare invidia e a calunniarlo il maestro ufficiale del paesetto svizzero  “che pure viveva in mezzo ai bambini. Essi ci curano l’anima”[10].
Teresina non riceveva pietà dalla maggior parte delle persone che la schifavano o la schernivano. Lei invece “a suo modo nutriva pietà, quella pietà che inutilmente attendeva dagli altri, dalla gente normale che raramente si spingeva a donare qualcosa in più dei semplici avanzi di cibo, incapace forse di donare briciole d’amore” (p. 19). E’ una bella denuncia della “gente normale”, ossia usuale, ordinaria, quella che non cura il proprio egoismo con la terapia del mettersi nei panni degli altri. Eppure se noi umani fossimo solidali tra noi, saremmo meno innaturali e meno infelici.
Marco Aurelio, imperatore (161-180 d. C.)  e filosofo, scrive (Ricordi, II, 1): noi siamo nati per darci aiuto reciproco ("pro;" sunergivan"), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire  uno a danno dell'altro è cosa contro natura ("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin").

Il terzo racconto è La chioccia (pp. 21-24), ossia  Mariantonia che da ragazza era fallita nell’amore, quando “il suo giovane amato era rimasto eroe chissà dove” e la  vita “dapprima dischiusa a ventaglio si era ripiegata su se stessa, racchiusa tra le pieghe dell’anima in quella parte insondabile dove non è concesso di penetrare neppure allo sguardo più benevolo e discreto…

“Ha le croste nel cuore”, dissero di lei quando la videro sposare, senza nemmeno una lacrima Tonio, una pasta d’uomo, un gran lavoratore” (p. 22). Tonio era un surrogato. Con il passare degli anni la donna aveva ottenuto una rivincita di Pirro sul terreno economico attraverso una disciplina spietata cui aveva sottoposto se stessa e tutta la famiglia. Le lauree dei figli avevano portato benessere in casa dopo tante ristrettezze, sacrifici, risparmi forzati (p. 22). “La laurea venne e con la laurea il lavoro e con il lavoro tanta grazia di Dio, tanta roba da riempirne le stanze” (p. 23).

La roba come grazia di Dio fa pensare ai romanzi siciliani di Verga.
Poi le mogli dei figli, scelte da lei: “era convinta che le elette dovessero essere come figlie sue e serve dei suoi figli. Che avessero un nome e un’anima non contava. Le cercava pertanto docili mansuete malleabili e con una buona dote. Le trovò. E furono malleabili, mansuete, docili” (p. 23).
E’ una interpretazione pragmatica della vita, priva di carità.
A questo proposito sentiamo  Pasolini:"L'interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azioni umane deriva dunque in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica"[11].
Questa visione economicistica della vita, questo intendere i rapporti umani come relazioni di profitto e di potere, ricorda quella di Giasone nella Medea di Euripide.Egli "dra'/ ta; sumforwvtata-ghvma" tuvrannon " (v. 876-877) fa quello che è più utile sposando la figlia di un re. Alla fine, la matriarca subisce la sconfitta definitiva, quella negli affetti: i figli, un poco alla volta si sottraggono alla sua prepotenza: “ella tutti schiacciava con la terribilità del suo aspetto, tutti annullava con la gravità delle sue parole, tutti infine si adoperava inconsapevolmente a soffocare.Alla mano che si allungava a stringere e stritolare i figli, come un tempo le zolle di terra, essi pian piano andarono sottraendosi cercando nuovi mondi, orizzonti liberi dove l’affetto non procurasse ceppi ma ali”.
Il dotare di ali il figlio, l’amato, il discepolo è un programma erotico-educativo che risale almeno a Teognide: “soi; me;n ejgw;; ptevr j e[dwka” (v. 237), io ti ho dato le ali per volare sul mare infinito e per sollevarti facilmente sopra la terra tutta. Le ali ai figli non le ha fatte spuntare, come avrebbe dovuto, la loro genitrice,  e i giovani le hanno usate per fuggire da lei, la madre padrona: “La lasciarono così sola in quel vecchio castello a stridere ancora una volta i denti contro un destino beffardo che si era preso gioco di lei, oramai per l’ultima volta, gettandola in pasto a una disperata solitudine” (p. 24) e quando la vecchia  de-solata morì, “non parteciparono al suo funerale, Inviarono ricchi fasci di rose” (p. 24)). Mi ricorda, mutatis mutandis, la morte di mastro don Gesualdo.L’uomo  del tutto economico e pragmatico è un grande scialacquatore poiché sperpera gli affetti che sono il bene più prezioso[12].

Quarto racconto,Le Margherite gialle (pp. 25-28).
Una donna, l’io narrante, va a fare visita all’amica d’infanzia cui è morta la mamma. Il tema è la morte della madre che si ritroverà in La forza di vivere.
Credo, anche per esperienza personale piuttosto recente, che questo sia il lutto più grave nella vita di una persona, certamente lo è per chi non ha figli.Del resto, chi li ha, difficilmente li vede morire.
La morte della madre è uno dei momenti in cui “il tempo srotola all’indietro riportandoci in un baleno a ciò che eravamo e continuiamo ad essere nell’intimo al di sotto delle parvenza quotidianamente espresse” (p. 25).
Pasolini ha scritto che la sua tendenza alla solitudine è nostalgia di quando si trovava nel grembo materno. In effetti un forte legame con la madre significa anche regressione, e la crescita della persona autonoma ha pure bisogno del taglio del cordone ombelicale, e non solo in senso fisico.

Mevga nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca[13] (Esiodo, Opere e giorni, vv 130-135).
Sentiamo anche Fromm: "Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[14]. "La capacità d'amare dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi"[15].
La morte della madre è comunque uno strappo enorme, una grossa mutilazione della propria vita.

Sentiamo Adriana: “Lì giaceva nella composta solenne immobilità della morte lei, la madre… Un’altra parte di noi se n’era andata così come dieci anni prima con la scomparsa di mia madre era volata via come in un turbine di vento la struttura stessa della nostra casa. Che vuoto lasciano le madri quando muoiono!” (p. 26). La protezione dell’affetto materno è anche un riparo dalla morte: fino a quando è viva la mamma, ci si sente immortali, poi non più, sappiamo che i prossimi siamo noi.
Davanti alla mamma morta, affiorano i ricordi dell’infanzia inevitabilmente legata a lei. “Ricordo che  in particolare le margherite gialle erano diffusissime tra gli altri fiori di campo. E poi il nostro giocare alle signore!” (p. 27)
Un gioco semiserio il cui modello per le bambine è certamente la  madre.“E quel ritrovarsi lì come le bambine di un tempo a piangere insieme senza pudore le nostre madri perdute ci riportava alla dimensione di un tempo” (p. 28).La morte della madre dà irrevocabilmente “la triste consapevolezza della fugacità della vita” (p. 28). E’ solo quando muore nostra madre che sentiamo concretamente la nostra personale mortalità.La conseguenza positiva di questa consapevolezza triste è che il tempo diventa prezioso.

Quinto racconto,Frammento d’amore (pp.29-32)
C’è un rito religioso, in chiesa, un coro di ragazzi che cantano.
“L’anima viveva una sua corporeità… E concepiva l’amore. Ora come allora, come sempre, quando i confini del cuore si slargano ad abbracciare il mondo, come quando in un volto sconosciuto si coglie il palpito di vita, l’ansia, l’anelito di un’anima” (29).
E’ l’effetto dionisiaco della musica che abbatte le barriere tra uomo e uomo.“Sotto l'incantesimo del Dionisiaco non solo si stringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata, celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l'uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l'inno alla gioia di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l'immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s'infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la moda sfacciata hanno stabilite fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell'armonia universale, ognuno di sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria"[16]. Da questo amore dionisiaco, in qualche modo universale, ne emerge uno di coppia: “due anime si erano incontrate e si davano la mano”.
Lei ha 30 anni e non credeva più nell’amore: “troppi ragionamenti sui vantaggi e gli svantaggi di una vita a due inaridivano qualsiasi desiderio di amare e di essere amata”. Eppure la musica costituisce un richiamo, come verso un’altra dimensione rispetto a quella dei ragionamenti. Il mu`qo~ subentra al lovgo~, talora lo rafforza.La musica fa tornare la donna all’adolescenza, quando, emozionata, attendeva la banda della processione. Tornano in mente immagini di confusione dionisiaca appunto, con un prevalere dell’elemento femminile delle menadi. Gli uomini erano piuttosto “ciottoli levigati dalla vita” (p. 30)
“La statua portata a spalla da fedeli robusti impercettibilmente vacillava e il volto non mutava il leonardesco sorriso né il diadema o la veste barocca sembravano condividere la povertà della gente più pia” (p. 30). Il sorriso leonardesco della statua fa venire in mente quello ambiguo di Dioniso, il dio, che, nelle Baccanti di Euripide, atterra e suscita, e, a dire il vero, affanna più che consolare.Poi, finita la processione con la sua estasi, il ritorno a una vita triste, povera di affetti e povera di cose.Vengono ancora in mente le Baccanti con il disincantamento di Agave. “I musicisti della banda ritornavano nel vuoto tetro dei loro istituti o nel freddo delle loro case” (p. 31)
La musica per quei suonatori era l’unico spiraglio verso la vita. La donna ricorda un “tonfo del cuore avvertito al passaggio di quello, tra i giovani, che con finto distacco curiosava con lo sguardo tra la folla alla ricerca forse di un’anima amica.” (p. 31)Ella vede e riconosce lo stesso sguardo e prova “la stessa inebriante gioia del casuale incontro di anime.” (p. 32) L’orchestra taceva e gli orchestrali stavano uscendo quando “il suo musicista” la salutò.“Si voltò, lo rincorse, lo afferrò per un braccio. Gli sussurrò “Bravissimo!” Poi si fermò sul sagrato con lo sguardo trasognato mentre vedeva allontanarsi pian piano il pullman degli orchestrali”. (p. 32)
E’ un momento di forte commozione, uno di quei rari momenti che possono illuminare per anni un’esistenza segnata dalla noia o dal dolore. “Lacrime di commozione le rigavano il viso. Un brevissimi intenso frammento d’amore sospeso tra ricordo immaginazione realtà in cambio del quale era pronta ad offrire cento, mille giorni della sua monotona esistenza” (p. 32) .E’ uno di quei momenti epifanici che danno un significato, talora una svolta, ad anni di vita senza senso.
E’ la conclusione.

Il sesto racconto, Esami di ammissione, (pp. 33-38) tratta di scuola, un’esperienza che io e l’autrice abbiamo fatto in pratica per tutta la vita. Adriana non so, credo di sì, io la rifarei mille e mille volte se tornassi su questa terra.
Eppure la scuola dove mi hanno fatto studiare escludeva quasi del tutto lo spirito critico, ossia la possibilità di dare giudizi (krivnein), sia perché tale capacità di krivsi~ non ci veniva insegnata, sia perché, qualora l’avessimo avuta congenita, ci veniva proibita. Questa è stata la mia esperienza in gran parte delle medie, del liceo e dell’università. Non diversa deve essere stata quella dell’autrice: “Poi lo studio. L’apprendimento mnemonico doveva essere fede tra le fedi in quei tempi o per i docenti di quel tempo e gli allievi vi si adattavano come pecore mansuete. Sapevamo tutto di tutti a memoria… Del resto che l’allievo capisse non importava; importava invece che si recitassero a memoria le pagine scritte onde dimostrare il rispetto sacro nei confronti del sapere trasmesso e non modificabile, negando una possibilità importantissima: vivificare attraverso il personale giudizio critico, la propria sensibilità, la propria cultura, la propria personalità” (p. 35).
Col senno di adesso, credo che gli insegnanti cui non importa che i ragazzi capiscano, non hanno mai capito a loro volta quello che insegnano. Nel campo del latino e del greco, tanti docenti non salgono oltre il primo gradino dei tecnicismi forniti dai manuali. E usano le regole grammaticali come polizia dell’intelligenza dei ragazzi, un’intelligenza che fa spavento a chi non ce l’ha. “Non praticavamo dunque uno studio che fosse seme di conoscenza, di crescita, di consapevolezza, di maturità di giudizio, di equilibrio interiore, attraverso l’acquisizione seria e consapevole del patrimonio culturale in rapporto ai dati dell’esperienza individuale e collettiva, ma studio come ossessione di cifre e date, di nomi e regole, di fatti e misfatti, tutti da studiare a memoria” (p. 36)

Ma non è facile togliere la prospettiva del pensiero ai giovani, se sono ricchi di spirito. Il gusto della vita e dell’imparare per la vita è troppo forte: è incoercibile nelle persone dotate di anima.

“Quattro salti nell’acqua ci ripristinavano al gusto della vita, quel gusto che sentivamo di possedere e difendevamo in ogni circostanza anche se impercettibilmente avvertivamo che loro, le signorine maestre, forse per abituarci a un senso della mortificazione fine a se stesso, si adoperavano a sopprimere pian piano” (p. 38).
Quell’educazione arcaica da una parte non ci incoraggiava alla libertà, ma dall’altra ci inculcava e insegnava la disciplina, non senza un certo ordine.I più intelligenti e vitali tra noi hanno imparato da quella paideia arretrata a dare ordine alla libertà delle quale non si sono lasciati espropriare. Quei sistemi educativi obsoleti insomma non  sono stati del tutto inutili per chi era predisposto a imparare. A me l’apprendimento mnemonico delle elementari, delle medie, del ginnasio, del liceo, serve ancora quando tengo una conferenza o scrivo un articolo. La citazione infatti è il modo più diretto per mettere chi  legge o  ascolta in contatto con “la carne viva” dell’autore. Dopo, bisogna commentarlo, ma prima è necessario presentarlo qual è. E leggendo il meno possibile.
Anche l’autrice non rinnega del tutto quella scuola antica. “Ma, come spesso accade, anche dagli esempi più discutibili si può trarre un insegnamento , e sicuramente essi diventano nel tempo modelli di confronto da emulare o evitare, migliorare o rivalutare addirittura se è il caso” (p. 38). Rispetto alla scuola del didattichese che si occupa di metodi senza curarsi dei contenuti, ossia dei testi d’autore cui applicarli, io rivaluto la scuola della Memoria che è pur sempre madre delle Muse le quali furono  generate nella Pieria, bellissima base dell’Olimpo[17]. “Perché fossero oblio dei mali e sollievo degli affanni”[18].
La memoria è lo scrigno dell’intelligenza e va esercitata, potenziata sempre, con disciplina grande.

Settimo racconto, Sulle orme del padre (pp. 41-43)
In  questo racconto, e non solo in questo, fa la sua luttuosa apparizione la guerra che “è sempre un delitto, per i vinti e per i vincitori. Morti, stragi, violenze da ambedue le parti” (p. 39). Parole sante, mai ripetute abbastanza. Parole che non entrano nelle teste pervertite dall’orgia diabolica del potere.
Eppure già nell'Iliade, il poema  pieno di battaglie sempre sonanti[19], Zeus  dice ad Ares: "Tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo”[20].
Le esecrazioni della guerra sono innumerevoli in letteratura. Ciò- non- ostante c’è ancora chi santifica gli scempi e gli sconci dovuti ai conflitti che da Omero in poi sono stati sempre più deleteri.
Nel primo Stasimo dell’Agamennone,  Eschilo attraverso il canto del coro ricorda che dalla guerra "invece di uomini/urne e cenere giungono/alla casa di ciascuno"(434-436) e Ares viene definito il cambiavalute dei corpi[21], nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori.
Papa Francesco nel giorno di Pasqua ha invocato la pace: “Pace a tutto il mondo, ancora così diviso dall’avidità di chi cerca facili guadagni!”
Nell’Ecuba di Euripide, la vecchia regina di Troia  supplica Odisseo di non ammazzare la figlia Polissena con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita: "mhde; ktavnhte: tw'n teqnhkovtwn a{li"" (v. 278), non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti. Sono i morti Troiani e i morti Greci nella guerra esecrata anche dal dio Poseidone nelle Troiane di Euripide: “E’ stolto tra i mortali chi devasta le città,/consegnando al deserto templi e tombe, luoghi sacri /dei morti: egli stesso dopo è già morto (vv. 94-96).
Papa Francesco  ha concluso: “Basta con le guerre, basta sangue!”. La guerra è una macchia sull’onore dell’umanità.

Ottavo racconto, Il Giacinto bianco (pp. 45-55)
Ines ed Eliana, due sorelle, escono dal collegio, un orfanotrofio e partono per non tornarci più. Eliana piangeva. “Ines era felicissima. Sicuramente la nuova esperienza l’attraeva, perché rendersi utile a qualcuno era sempre stato il suo sogno” (p. 45).
Ines va servire in una “antica dimora padronale” (p. 47). Deve occuparsi di un’anziana il cui figlio, “un giovane di bello aspetto”, dai modi gentili, andò a prenderla. “e con gentilezza le sollevò di mano la valigia, in cui la ragazza aveva stipato pochi indumenti, qualche libro e tutti i ricordi dell’nfanzia e dell’adolescenza ormai al termine” (p. 46). Qui i presagi sono buoni. La ragazza colpisce il suo datore di lavoro il quale notava “una certa grazia in lei: un alone roseo le incorniciava l’ovale dando all’incarnato una trasparenza di opalina e la cascata di capelli neri, che con vezzosi movimenti repentini la ragazza scostava dal volto, ombreggiandole morbidamente le spalle, conferivano al suo corpo una certa sensualità” (p. 47). C’è un bel contrasto di colori.

Si può pensare al fr. 25 D. di Archiloco, un delicato ritratto di ragazza in trimetri giambici:
"Gioiva di avere un ramo di mirto
e un bel fiore di rosa,
e la chioma le ombreggiava le spalle e il dorso".
Ines viene portata in  un palazzo nobile e antico, dove si sarebbe occupata di una vecchia signora. “La donna era lì nella prima stanza, varcato l’ingresso del portone. Stava recitando le sue preghiere. Accanto il cesto con i gomitoli e il lavoro a maglia avviato” (p. 48). I segni dati dall’ambiente, dalla preghiera, dal lavoro sono secunda omina, presagi buoni per il destino di Ines.
Eliana giunge in una casa-famiglia aspettandosi la libertà e “l’inizio di una nuova vita” (p. 48) che la ragazza spera non peggiore “dopo gli anni trascorsi da reclusa in collegio” (p. 48). Deve andare a lavorare in una filanda. Il lavoro comincia con allegria e “ Tra risate, colpi di tosse e confidenze frenetiche il gruppo delle filandone si presentò al lavoro”. Qui i presagi sembrano buoni,  invece sono ingannevoli non svelano subito un avvenir fallace. Questo ambiente è permeato di ignoranza e ottusità. Dopo pochi mesi Eliana si sente fuori luogo. Fa un lavoro faticoso e ripetitivo, tra gente con cui non ha alcun rapporto.Sogna e aspetta l’amore. Ha poca salute e rischia il licenziamento da parte di una padrona megera che la tiranneggia. Insomma, non le va bene niente, senza sua colpa. Pensa addirittura al suicidio, ma non vuole dare questo dolore alla sorella. E non ha ancora toccato il fondo.
Vengono in mente figure tragiche del teatro europeo. Il destino di Eliana ricorda quello della Cassandra delle Troiane di Euripide, senza del resto l’alto rango della figlia di Priamo. La poveretta subisce violenza sessuale da uno “sporco mostro” (p. 53), il padrone della filanda. “La sua vita era finita, spezzata” (p. 53). Pensa di nuovo, e con maggiore precisione, al suicidio. “Era l’unica soluzione per purificarsi dall’onta subita” (p. 54) Ma il pensiero del dolore che avrebbe procurato alla sorella la trattiene di nuovo. Eliana ha un’anima sororale, come Antigone verso Polinice. La sua salvezza nell’immediato è l’osservazione attenta della natura: “uno spicchio di luna illuminava la campagna circostante, i rami inargentati costruivano profili e sagome esili nell’aria, poi  lo stridulo miagolio di un gatto… Si ritrasse, il cuore le balzò in gola, avvertì tutto come segni di un mondo lontano eppure inquietante” (p. 55)
Sono i segni inquietanti che troviamo anche nella poesia di Pascoli: “Stampano una bruna / orma le nubi / su la campagna, e più profonda e piena / la notte preme le macerie strane, / chiuse allo sguardo, dove alla catena / uggiola un cane. / Ecco la falce d’oro all’orizzonte: / due nere guglie a man a man dipinge, / indi non so che candido. Una fronte / bianca di Sfinge?” (Paese notturno, vv. vv. 3-12)
“Ci vollero parecchi mesi per elaborare il lutto più grande che le fosse capitato” (p. 55), Fu aiutata da Chiarina “che trattava le ragazze della casa come figlie”.Poi c’è l’accettazione del fato, inteso come un destino di monaca.“Scelse alla fine di ritirarsi in un convento di clausura, decisa a vivere di preghiera e a reprimere per sempre la rabbia per una vita ingrata. Sarebbe rimasta sulla terra come fiore, sarebbe stata “il giaciglio bianco rinato al bordo dell’aiuola per effetto di un amore immenso, sovrumano, quello che non aveva conosciuto prima ma aveva capito che esisteva dagli albori del mondo” (p. 55) Eliana dunque muore a una vita, quella delle speranze, degli ardori terrestri e rinasce a una vita nuova, come Ermengarda.La sua esistenza continua nella preghiera e in un nipotino, il dono più bello che Ines le reca alla cerimonia dei voti, un bambino “sorridente con fulminei occhi neri come more” (55).
E’ sempre l’accettazione del nostro destino, l’amor fati  che salva ciascuno di noi. “Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist  meine innerste Natur[22].

Nono racconto, Oltre il mare un’isola (pp. 57-60)
In questo breve racconto una donna perde l’uomo amato e atteso invano, una specie di Odisseo che doveva tornare stabilmente a Itaca, ma non vi ritorna: “Per lui aveva sempre nell’animo e nella mente agognato la sua Itaca. Non un’isola immaginaria ma un posto sicuro dove tessere la tela della vita in attesa dello sposo” (p. 57). Lui le aveva promesso il ritorno per sempre. La donna ricorda i brevi momenti dell’esaltazione amorosa. “L’amore nell’attimo in cui viene vissuto non chiede le ragioni per esistere… Per fortuna” (p. 58). Anche se non ci sono risultati successivi, quell’attimo è un risultato.
La donna aspettava quel novsto~, quel ritorno risolutivo. Ed era “orgogliosa di amare un soldato che voleva aiutare gli altri ad essere liberi, senza risparmiarsi, inseguendo questo sogno con strenua fiducia” (p. 59). Poi arriva la notizia orrenda in un giornale orribile.Eppure la vita non perde mai la sua bellezza, e l’amore dato e ricevuto non si annienta mai, non diventa mai vano. “Quella che doveva essere la ghirlanda di fiori per il loro matrimonio divenne, simbolo di eterno connubio d’amore, una corona di splendidi fiori bianchi deposta sulle prime onde del mare, destinata a diventare vascello di pianti e di baci per l’eroe sepolto in un’isola ormai troppo lontana” (p. 60). Lontana ma non  irreale.

Decimo racconto, Cuori di sabbia, (pp. 61-64) racconta la caduta nell’abisso orrendo della morte per droga dopo “Il lungo tunnel in cui un amore malato aveva condotto due giovani” (p. 61) Angelica cercava di uscire dal tunnel, tentava di “ librarsi come un uccello rapace ad afferrare di nuovo la vita prima che la volontà crollasse irrimediabilmente” (v. 62).
L’immagine dell’uccello che ha le ali per volare e per afferrare i pesci è simbolica di una vita piena. Pindaro paragona il poeta all’aquila, l’uccello di Zeus. Nell’Olimpica II il poeta tebano afferma che l'aretà (il valore, la virtù) non è insegnabile, né quella dell'atleta né quella del poeta il quale paragona se stesso all'aquila, il divino uccello di Zeus (v. 89), mentre i suoi rivali, probabilmente Simonide e Bacchilide, che non sono molto sapienti per natura (86) bensì "addottrinati"(87) vengono assimilati ai corvi (88) i quali stridono confusamente con mille lingue prolisse. Svevo scrive di Alfonso Nitti che aveva le ali per voli poetici, ma non per prendere i pesci  (Una Vita, cap. VIII).
La ragazza di Cuori di sabbia dunque cerca di non mollare, nonostante le ferite accumulate, povere bocche tutt’altro che mute poiché le ferite parlano. Angelica cerca di mettersi in sintonia con l’ordine del cosmo contro il quale aveva cozzato il suo disordine: “Si sentiva come la natura che merita la sua pace, che stagionalmente ammutolisce in intimi silenzi ma pian piano sboccia in tutta la sua contagiosa vitalità, con colore, luce e gioia, donandosi generosamente” (p. 63). Sentirsi simili alla natura, in armonia con lei, è un segno di benessere.
Cicerone scrive: "Quam[23] si sequemur ducem, numquam aberrabimus" (De Officiis , I, 100). Seneca presenta la stessa legge con queste parole: "Sequitur ratio naturam. Quid est ergo ratio? Naturae imitatio. Quod est summum hominis bonum? Ex naturae voluntate se gerere" (Epistole a Lucilio, 66), la ragione allora segue la natura. Che cosa è la ragione? Imitazione della natura.
Qual è il sommo bene dell'uomo? Comportarsi secondo la volontà della natura. Angelica credeva che Davide fosse già uscito dal tunnel e potesse aiutarla. Ma il sole che tramonta sulla spiaggia dove lei lo aspetta dà un presagio non buono, un detestabile omen: “le pareva la metafora della vita, troppo tardi amata, agognata, divenuta oggetto di un sogno che ora andava a scontrarsi contro le ombre della realtà che calavano sempre più fitte, sempre più cupe” (p. 63).
C’è un contrasto luce (simbolo di salvezza) - ombra (segno di morte) che mi ricorda alcuni versi dell’Antigone di Sofocle : “Ora infatti sull'estrema radice si era distesa una luce nella casa di Edipo / ma poi la polvere macchiata di sangue / degli dei infernali la falcia, / e pazzia della parola ed Erinni della mente" vv.599-603. Sono versi della prima antistrofe del secondo stasimo della tragedia.
Davide non arriva. Al suo posto un “giovane pusher che con garbati segni le riferì il tristissimo evento consegnandole  un pezzo di carta con sopra disegnato un cuore e nel cuore a caratteri incerti il nome Angelica. Davide non c’era più”(p. 64). Il ragazzo si era allontanato da Angelica perché almeno si salvasse lei. La ragazza si gettò in mare e “l’indomani all’alba schegge di sole tinsero di luce un cuore disegnato sulla sabbia, trafitto da un nome, il nome di Davide” (p. 64). La luce comunque è tornata a illuminare quei cuori, sebbene trafitti.

L’undicesimo racconto, La nomade, (pp. 65-77) identifica il pindarico “diventa quello che sei”[24] con la simpatia nei confronti  di uno dei fratres minimi raccomandati da Gesù e ora da papa Francesco.
L’autrice descrive una comunità di tzigani “da tutti denominati zingari con un senso piuttosto dispregiativo a causa del loro vagabondare, senso che poi è rimasto al termine come appellativo di biasimo in senso lato” (p. 65). Sugli tzigani incombono giudizi e pregiudizi negativi: prima di tutti che sono dei ladri.
Ma Adriana mette in luce le peculiarità della loro cultura, il fatto che “vivevano del loro lavoro, anche se era dura a morire la convinzione che di notte andassero a rubare nelle case” (p. 65). Anche il loro aspetto era diverso e già questo fatto generava inquietudine: i maschi adulti “erano per lo più omoni di grande statura, scuri di pelle, capelli lunghi neri. Vestivano con pantaloni di pelle nera e giubboni di cuoio torchiati. Le donne indossavano variopinte gonne lunghe fino alle caviglie snelle e sottili che sembravano nate apposta per danzare balli vertiginosi” (p. 66). C’è della simpatia in questa descrizione, c’è per lo meno rispetto nei confronti di una cultura diversa e viene in mente la nota “tolleranza” erodotea secondo la quale Cambise, il re persiano, era completamente pazzo poiché scherniva riti e usi stranieri[25], nella fattispecie quelli degli Egiziani dei quali il saggio Solone riconosceva la nobile antichità. I bambini in particolare erano belli, pieni di vita: “nei loro occhi neri come carboni guizzavano pagliuzze dorate che sprigionavano una grande voglia di vivere che si beffava dei loro vestitini sdruciti e maleoodoranti” (p. 66).

Ma anche gli adolescenti avevano quella bellezza che talora nei ragazzi borghesi viziati, infarciti, indifferenti non si vede più: “I più grandi possedevano per natura una bellezza selvaggia, quasi tutta concentrata nei tratti nervosi e asciutti del loro corpo” (p. 66)).
Insomma, non era gente “sbadata” come Tom e Daisy di Il grande Gatsby (p. 180) o come gli Indifferenti di Moravia. Se non potevano andare a scuola “apprendevano direttamente dalla vita quello che bisognava sapere” e “dopotutto erano fortunati. Senza chiesa avevano un credo., senza casa avevano un proprio centro d’affetti” (p. 66)E alcuni di loro “avevano con sé anche una memoria storica legata, come il più anziano raccontava, al fatto che erano tutti discendenti degli zingari che intorno all’anno 1000 erano stati inviati dal Re dell’India al Re di Persia, che soffriva di male oscuro, per farlo felice con la loro musica e le loro danze” (p. 66). Senza memoria storica non c’è maturità di coscienza matura.

Non tutti i bambini diventano persone mature. Lo afferma Cicerone nell'Orator [26]: "Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi eă memoriā rerum veterum cum superiorum aetate contexitur?" (120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si allaccia con la vita di quelli venuti prima, attraverso la memoria storica?

Sparisce “lo scemo” di questa comunità di zingari giostrai, “Pellegrino, grosso ragazzone di quarant’anni, testa pelata, sempre la stessa. giacca ormai troppo lisa, pantaloni larghi e corti in maniera sbilenca sulle caviglie. Era quasi sempre solo; già lo era di se stesso, senza alcuna voce che dall’animo gli tenesse compagnia e lo facesse piangere di dolore o di gioia. L’anziana del gruppo lo accudiva come si può accudire un maiale o una pecora” (p, 67). Giocava tutto il giorno con le biglie. Gliene regala una “di vetro colorato” (p. 69) Josephine, una ragazzina che non era “zingara di nascita” (p. 72) ma si era aggregata ai giostrai per fuggire da un ambiente che le toglieva la voglia di vivere. Un giorno  Pellegrino misteriosamente sparisce in cerca della biglia smarrita “Continuava a ripetermi sorridendo… Dolcemente: la biglia… La grande biglia è scomparsa nel sole… Ma un giorno la troverò, sì, proprio nel sole…e mai più la perderò” (p 76).
La ragazza, che sola ha intuito l’enigma della natura ossimorica[27] di Pellegrino, andrà a cercarlo per trovare se stessa: “Andrò a cercarlo, e insieme cercherò anche io la grande biglia - sospirò Josephine - per conoscere le risposte che da tempo aspetto. Incomincerò a percorrere la mia strada, a guardare verso il sole… Se non troverò Pellegrino, troverò me stessa perché è lì che sta scritto con inchiostro indelebile la storia del mio cammino”. E in preda a una sorte di estraniamento si avviò verso il suo domani, credendo di avere trovato il suo angelo custode” (p. 77). Pellegrino è dunque l’angelo custode, la vocazione che chiama Josephine verso la sua via e il suo daivmwn, il suo destino.

Torno alla scuola, un argomento che per ragioni biografiche, e per il  daivmwn che mi è stato assegnato, o mi sono scelto[28], mi sta molto a cuore.

Il  dodicesimo racconto si intitola Banchi di legno (pp. 79-93).
E’ la storia del primo anno di insegnamento di una giovanissima professoressa, Nives, in un paese di gente povera, refrattaria alla scuola. I ragazzi, o non ci andavano per infingardaggine o non ci venivano mandati perché dovevano  lavorare. Il dirigente era un gaglioffo che non se ne curava. La ragazza avvicina gli alunni renitenti andando nei bar, per la strada, e un poco alla volta ne convince diversi della  necessità dell’istruzione e della cultura: “è la cultura che può rendevi liberi” (p. 85) “Tentò con loro un primo approccio soffermandosi a chiederne il nome, l’età e perché mai amassero il bar più che la scuola. Realtà questa terribilmente vera” (p. 80). A scuola, ricorda la ragazza molti docenti insegnavano l’ipocrisia.
I giovani di buona natura sentono le loro energie incoraggiate dallo studio :"unum studium vere liberale est quod liberum facit, hoc est sapientiae, sublime, forte, magnanimum: cetera pusilla et puerilia sunt "[29]  un solo studio è davvero liberale, quello che rende libero, cioè lo studio della sapienza, sublime, forte, magnanimo. Gli altri sono piccini e puerili.
La sapienza è l’unica libertà: “Sapientia quae sola libertas est[30].
La professoressa intelligente e di buona volontà, suscita inquietudine e scandalo: “Ovviamente il turbamento che pervase le famiglie e lo scandalo al quale gridava l’intero paese con a capo il prete, furono grandi come il senso di trionfo che falsamente si era impadronito di lei” (p. 85).
Possiamo pensare all’Idiota di Dostoevskij: “Dicevo loro tutto senza mai nascondere nulla. I genitori e i familiari loro si stizzivano, perché, infine, i ragazzi non potevano più fare a meno di me, e il maestro di scuola diventò mio acerrimo nemico”[31] Anche Nives si fa parecchi nemici, ma non desiste dal suo impegno. L’educazione dei giovani per alcuni insegnanti, nemmeno pochi, è una fede.
Ho notato durante i decenni passati nei licei, quanti di noi erano senza coniuge e senza figli! Io personalmente, e credo tanti altri docenti zitelli e zitelle, abbiamo vissuto la funzione genitoriale  educando i giovani della comunità. Fare figli miei, perfino sposarmi o convivere con una donna, mi è sempre sembrato un atto di egoismo: un sottrarre tempo, energie, passionem allo studio necessario per educare e istruire i figli degli altri. “Mao ha additato all’ammirazione dei compagni un operaio che s’è castrato (i “cinesi” italiani si vergognano a raccontarlo”[32]. Io invece, pur dedicandomi tutto, quasi tutto alla scuola, non mi sono fatto mancare niente in campo affettivo e in campo sessuale, eterosessuale. “Perché non dire agli altri e a se stessi che non è una disgrazia, ma una fortuna per essere disponibili alla scuola a tempo pieno?”[33].
“Poi insegnando, imparavo molte cose. Per esempio ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”[34]. "homines, dum docent discunt "[35] mentre si insegna si impara. Dagli studenti ho imparato e imparerò sempre molto: "Quaeris quid doceam? etiam seni esse discendum"[36], vuoi sapere che cosa insegno? che anche un vecchio deve imparare. Dobbiamo dirlo ai nostri studenti: “Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari”[37].
Tutti gli insegnanti, tutte le persone per bene, non dovrebbero mai smettere di  imparare: "Semper homo bonus tiro est ", l'uomo onesto fa  tirocinio per tutta la vita, ha scritto Marziale[38] (12, 51, 2).
Ines ama tanto i suoi ragazzi, che arriva ad avere una relazione sentimentale con uno di loro, particolarmente sensibile, poco più giovane di lei. “Inoltre, il libertinaggio non esclude affatto la vocazione pedagogica. Socrate era libertino: da Liside a Fedro, i suoi amori per i ragazzi sono stati innumerevoli. Anzi, chi ama i ragazzi, non può che amare tutti i ragazzi ((ed è questa, appunto, la ragione della sua vocazione pedagogica)”[39].
Ines “si pose come impegno di vita quello di riuscire a fare qualcosa di buono in quel paese anche a costo di soccombere alla sconfitta più tremenda. Ma solo così si sarebbe completamente realizzata” (p. 86). Realizzarsi per lei significava creare: “avrebbe forgiato delle creature almeno spiritualmente, e inoltre avrebbe realizzato se stessa” (p. 87) La decisione di intraprendere questa difficile relazione che avrebbe suscitato ulteriore scandalo, la professoressa ragazza la prende anche per dichiarare la sua guerra all’ipocrisia, all’“inganno di quei disonesti che tarpano le ali a chiunque cerchi di volare per proprio conto” (p. 90). “Ecco - a un tratto pensò - ho sempre sostenuto che la cosa principale sia abbattere i pregiudizi, non curarsi come gli altri possano giudicarti. Perché allora dovrei rinunciare alla mia idea di essere libera, libera come dico io?” (p. 90).
Tuttavia i dubbi non mancano. Il dilemma è se spingere i ragazzi alla disobbedienza “inculcando loro idee di ribellione” (p. 89) o limitarsi a rchiamarli al “loro principale dovere” che poi era “quello di recarsi a scuola” (p, 90). E anche questo aspetto era problematico: “E le famiglie di quanto benessere in meno avevano goduto da quando le poche ore di scuola venivano sottratte ad altri lavori?” (p. 90).
Il racconto è bello anche perché presenta fatti e persone in modo problematico, come fa la tragedia greca. La ragazza con la mutevolezza tipica dei giovani, a un certo momento diventa sicura di sé: “Si sentiva poi in uno stato di continua euforia, come un fuoco d’artificio  che più sale in alto e più scoppietta” (p. 90). Ma non manca l’altra faccia della medaglia: “Ma anche per lei ci sarebbero stati pochi resti bruciacchiati e polverosi” (p. 90). L’agire educativo e politico della maestra porta a un conflitto generazionale: tra i ragazzi “che presero a frequentare con assiduità le lezioni”  e i loro padri “quasi tutti analfabeti” (p. 91).Ines sente la responsabilità di questo distacco e ha dei dubbi. “Vedeva inoltre vacillare la possibilità di trascinare per le lunghe un amore troppo giovane” (p. 91).
Il sentimento reciproco dei due, poi, nel corso dei mesi di scuola si trasforma da innamoramento “in un tenero sentimento di amicizia” (p. 92), e, alla fine dell’anno scolastico, Ines lascia il paese rinunciando a “l’aspetto egoistico del suo amore e della sua dedizione: alla fine aveva capito tuttavia che le stava più a cuore l’immagine di un paesino calmo e tranquillo, dove i giovani avevano acquistato un diverso significato del vivere quotidiano, e non volle guastarlo tentando di sradicare dall’ambiente naturale una sola di quelle piante” (p. 93). “Non poteva pretendere di tenere avvinti a sé, succubi della sua persona, i giovani, i veri protagonisti di questa storia” (p. 92)

Il risultato positivo dell’esperienza è l’accettazione della “inevitabile realtà” (p. 93) sulla quale la sua intelligenza, umanamente impiegata ha comunque lasciato un segno. Credo che anche questo bel libro lasci delle tracce nel pensiero e nei sentimenti di chi lo legge.
Ines “decise pertanto di partire, appena fosse terminato il periodo scolastico, così in silenzio, come in silenzio era venuta” (p. 93).
Educando i ragazzi questa ragazza ha educato se stessa a superare l’egoismo. “Il fischio del treno che annunciava l’arrivo alla stazione del suo paese la riportò alla realtà fatta di sogni e di speranze, di ideali e di lotte ma certo di realtà, di inevitabile realtà, e nell’aver capito che dopotutto bisogna accettarla prima ancora di migliorarla”. La sua vera vittoria fu il fatto di avere capito la necessità di accettare la realtà prima ancora di migliorarla.
E’ l’amore della vita, l’amore del fato, l’amore di se stessi e degli altri che porta a queste conclusioni.

Il tredicesimo e ultimo racconto La forza di vivere (pp.95-108), è un inno all’energia vitale e alla forza d’animo di una femmina umana seguita dalla nascita alla morte. Una persona solida, concreta, capace di sintonia con la realtà.
E’ la storia di una donna e della sua famiglia in tutte le circostanze della vita che anche per chi la vive in maniera ordinata, senza grilli per la testa, è comunque piena di imprevisti anche dolorosi cui occorre reagire con forza, senza mai abbandonare il timone che ci tiene nella nostra rotta.
Neglo ultimi cinque versi delle Baccanti (vv. 1388-1392) il Coro afferma l’imprevedibiltà degli eventi da parte della limitatissima ragione umana. Gli dèi insomma, fanno quello che vogliono e gli uomini non possono farci niente:
"Molte sono le forme della divinità
e molti eventi in modo insperato compiono gli dèi;
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione".
Questo finale di 5 versi è topico. Uguale è la conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca , dell'Elena e della Medea,  (con una variazione al  primo verso: "Di molti casi Zeus è dispensatore sull'Olimpo", v. 1415).
La bambina Maria dunque nasce da una madre non più giovane. Si trova però in un ambiente sano e affettuoso ed è questa probabilmente una delle fonti della sua forza, sebbene le disgrazie non manchino. Ma le sciagure sono prodotte dal caso, dalla sorte maligna, gli aspetti buoni della vita invece sono conseguenze dei pensieri e delle azioni di persone buone. Maria diventa una ragazza riflessiva: soppesa con giudizio le sue decisioni e non sbaglia. Costruisce il suo destino in pieno accordo con il suo carattere, come se ricordasse la scelta di cui racconta il mito di Er nella Repubblica di Platone. Buono il rapporto con i genitori, anche se il padre muore anzi tempo. Buono il rapporto con il fidanzato, poi marito che muore in un bombardamento con due dei loro 5 figli. Buono il rapporto con la madre, fino alla morte di lei.
I più forti di questi dolori sembrano stroncarla, ma la forza di vivere, la forza della vita prevale sempre. Quando le muore la madre Nannina, "Maria aveva esaurito tutte le sue lacrime: pareva la statua stessa del dolore" (p. 20)
Viene in mente il mito di Niobe: "intra quoque viscera saxum est (Ovidio, Metamorfosi, VI, 309). Ma anche nella morte della madre, Maria sa trovare qualche cosa di bello, sa vedere e collegare gli affetti: "Com'è bella, mi pare che sta dormendo. Sento che chiama i figli miei "Nicolina, Filomena" (p. 107). L'aveva detto ad alta voce e la gente pensava che non si sarebbe ripresa più. E corse il pericolo, "ma poi la vita dei figli, dei nipoti, la restituirono alla rassegnata antica forza di vivere".
E' quella forza che ci insegnano e ci trasmettono le nostre madri.
Maria "ricordava con malinconici sorrisi Antonio, Ciccillo, Nanninella, la madre Nannina e aspettava il giorno in cui avrebbe potuto ricongiungersi a loro. Maria morì molto anziana e come aveva sempre desiderato di una morte serena, circondata da tutti i suoi cari" (p. 108)
Il linguaggio di Adriana è ricco di comparazioni e metafore. Vengono in mente i suggerimenti della Poetica di Aristotele sulla scelta dello stile. Il linguaggio si scosta dall’ordinario quando usa espressioni peregrine: “xeniko;n de; levgw glw'ttan kai; metafora;n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion” (1458a, 22 ), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni forma contraria all’usuale. Glossa è la locuzione non comune, quella di cui non tutti fanno uso (1457b, 4). Metafora è l’applicazione di un nome altrui: "metafora; dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav" (1457b, 7). La città fluttua (povli~ saleuvei, Edipo re, 22-23). E’ in questo senso che un poeta dice: “La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora”. La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e l’isolamento delle cose”[40]. “Le due realtà, identificandosi nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si neutralizzano, si materializzano.
La metafora diviene la bomba atomica mentale”[41].



Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it



[1] Esiodo, Teogonia, 135. 
[2] Metafisica , 982b. 
[3] I classici non sono soltanto i Greci e i Latini, ma tutti gli autori-auctores, gli accrescitori dell’anima che non passano mai di moda. Ricordiamo dunque Proust: “Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m’era venuta quella gioia violenta? Sentivo che era legata al sapore del tè e del biscotto, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura” (La strada di Swann, Combray, p. 50) 
[4] “I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto” (Leopardi, Zibaldone, 527). 
[5] Odissea IX, 108 
[6]Odissea , X, 124. 
[7] J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore , p. 144. 
[8] Vangelo secondo Marco 10, 14, lasciate che i piccoli vengano da me. 
[9] Matteo 25, 40.  I fratres minimi sono gli affamati cui si deve dare il cibo; gli assetati che vanno dissetati; i senza tetto che devono essere accolti; gli ignudi che vanno vestiti, gli infermi, i carcerati da visitare e confortare. 
[10] F. Dostoevskij, L’idiota, capitolo VI. 
[11] Scritti corsari , p. 49. 
[12] Leopardi in Il pensiero dominante  condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età "superba, / che di vote speranze si nutrica, / vaga di ciance, e di virtù nemica; / stolta, che l'util chiede, / e inutile la vita / quindi più sempre divenir non vede" (vv. 59-64). 
[13] Cfr.  in  53, 3 quanto scrive Pasolini sull’atroce afasia che prelude alla violenza. 
[14]E. Fromm, La rivoluzione della speranza , p. 80. 
[15]E. Fromm, L'arte d'amare , p. 153. 
[16] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, pp. 25-26. 
[17] E dove c'è la Pieria /bellissima sede delle Muse,/sacra pendice dell'Olimpo ( Euripide, Baccanti, vv. 409-411). La Pieria come sede delle Muse è segnalata da Esiodo (Teogonia, 52-54), da Virgilio e da altri. La Pieria è la regione boscosa che si stende sulle pendici nord-est dell’Olimpo, dove aveva speciale vigore il culto delle Muse. 
[18] Esiodo, Teogonia, 55. 
[19] Cfr. Carducci, Sogno d’estate, 1. 
[20] e[cqisto" dev moiv ejssi qew'n oi{   [Olumpon e[cousin (V, 890) 
[21] oJ crusamoibo;" d' j  [Arh" swmavtwn (v.437)
[22] F. Nietzsche, Ecce homo (del 1888), Il caso Wagner,  p. 92. 
[23] La quale, la natura. 
[24] gevnoio oi|o~ ejssiv (Pitica II  v. 72) 
[25] Cfr  Erodoto III, 38: “pantach'/ w\n moi dh'lav ejsti o{ti   ejmavnh megavlw" oJ Kambuvsh"",  da ogni punto di vista dunque per me è evidente che  molto matto era Cambise. 
[26] Del 46 a. C. 
[27] Ossimoro è formato da ojxuv~, “acuto” e mw`ro~, “ottuso”. Talora il matto, lo scemo del villaggio, appare tale ai più, mentre di fatto è geniale. A volte addirittura il pazzo si finge tale per dissimulare la sua intelligenza, inquietante per i veri stupidi e pericolosa per lui.  Livio racconta  che Bruto aveva portato in dono ad Apollo una verga d'oro inclusa in un bastone di corniolo con un incavo fatto a questo scopo, recando un’ immagine enigmatica del suo carattere: "aureum baculum inclusum cornĕo cavato ad id baculo tulisse donum Apollini dicitur, per ambagem effigiem ingenii sui" (I, 56). 
[28] Ognuno di noi, secondo il mito di Er, prima di tornare sulla terra, si sceglie il proprio demone- destino. Che poi secondo Eraclito coincide con il carattere: h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn (fr. 119 Diels-Kranz). Platone,  alla fine della Repubblica  (617 e) fa dire a Lachesi, la vergine figlia di Ananche:"oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll& uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe", non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi a scegliere il demone. 
[29]Seneca (4 ca a. C.-65 d. C.), Ep. , 88, 2 
[30] Seneca, Ep., 37, 4 
[31] L’idiota, cap. VI 
[32] Don Milani, Op. cit., p. 86 
[33] Don Milani, Op. cit., p. 86 
[34] Don Milani, Lettera a una professoressa, p. 14 
[35] Seneca, Epist., 7, 8 
[36] Seneca, Epist., 76, 3 
[37] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 92 
[38] 40ca- 104 d. C. 
[39] .PP. Pasolini,  Scritti corsari, p. 258
[40] E. Morin, La testa ben fatta, p. 94 
[41] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 48

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