lunedì 3 agosto 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XXXVI

Don Giovanni

Odisseo come eroe e artista della parola. Non è bello ma le sue parole sono simili a fiocchi di neve (Iliade III). In lui c’è morfh; ejpevwn, come in un aedo (Odissea, XI, 367). Nel Filottete Odisseo afferma la supremazia della lingua, guida della vita umana

Odisseo come eroe e artista della parola viene individuato già da Omero: nella teicoskopiva del terzo canto dell'Iliade Priamo chiede a Elena di identificare i capi dei guerrieri Achei visibili dalla torre presso le porte Scee; uno gli era pareva "meivwn[1] me;n kefalh'/ jAgamevmnono" jAtreïvdao, / eujruvtero" d j w[moisin ijde; stevrnoisin ijdevsqai" (vv. 193-194), più piccolo della testa di Agamennone Atride, ma più largo di spalle e di petto a vedersi. La maliarda risponde che quello era Odisseo esperto di ogni sorta di inganni e di accorti pensieri (v. 202).
Quindi Antenore aggiunge che egli l'aveva visto una volta a Troia, in ambasciata con Menelao, e quando i due erano seduti, era più maestoso Odisseo, ma, come si alzavano, Menelao lo sovrastava delle larghe spalle ("stavntwn me;n Menevlao" uJpeivrecen eujreva" w{mou"", v. 210). Ulisse, in piedi, se stava zitto, sembrava un uomo ignorante o addirittura uno furente e pazzo, ma, quando parlava, dal petto mandava fuori parole simili a fiocchi di neve d'inverno (Iliade, III, v. 222), ossia manifestava la potenza della natura.
Nell’XI canto dell’Odissea Alcinoo dice a Odisseo che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con arte, come quello di un aedo (vv. 367-368).

 Nel Filottete di Sofocle Odisseo chiarisce al giovane Neottolemo il percorso che l'ha portato a prediligere la glw'ssa rispetto agli e[rga: " ejsqlou' patro;" pai', kaujto;" w]n nevo" pote;- glw'ssan me;n ajrgo;n, cei'ra d j ei\con ejrgavtin: -nu'n d j eij" e[legcon ejxiw;n oJrw' brotoi'"-th;n glw'ssan, oujci; ta[rga, panq j hJgoumevnhn" (vv. 96-99), figlio di nobile padre, anche io da giovane un tempo, avevo la lingua incapace di agire, la mano invece operosa; ora però, giunto alla prova, vedo che per gli uomini la lingua ha la supremazia su tutto, non le azioni.
"Nell'Iliade la complementarità di parola e azione contraddistingue l'eroe perfetto, ma Odisseo non è l'eroe dell'Iliade. Ancora condiscendente, Odisseo presenta il suo principio come una saggezza acquisita con l'età: nella realtà delle cose, non è la violenza dell'agire che vince, ma quella della lingua. Metaforizza la mano in azione; bisticcia sul suono di ajrgovn (oziosa) e ejrgavtin (attiva), e poi, facendo della lingua la "guida" per gli uomini, la personifica. Aristofane aveva dato alla lingua, come Muse, le Nuvole"[2].
54. 1. Il culto del successo attraverso la parola non va disgiunto dalla morale. Infatti la parola è un'arma potentissima, dal doppio taglio. Socrate nelle Nuvole e, di nuovo, Odisseo nel Filottete. Gorgia. L’apostolo Giacomo. L’Odisseo di Pindaro fa torto all’a[glwsso~ Aiace (Nemea VIII). L’Ulisse di Virgilio, scelerum inventor. Fedra nell’Ippolito di Euripide non parla per sfiducia nelle lingua.
L’empio Socrate delle Nuvole di Aristofane ordina all’aspirante allievo Strepsiade, che non vuole pagare i debiti, di non onorare alcun dio, a parte i tre della sua scuola: “to; Cavo~ touti; kai; ta;~ Nefevla~ kai; th;n Glw`ttan” (v. 424), questo Caos qui, Nuvole e Lingua.
Naturalmente il culto del successo per mezzo della parola la parola deve essere corretto attraverso considerazioni morali avverse alla frode che invece il Socrate delle Nuvole insegna nella sua scuola, e Odisseo, la consumata volpe del Filottete, suggerisce al giovane figlio di Achille (dovlw/, v. 102 e v. 107) il quale però, schietta prole di schietto padre, non può dire le menzogne (ta; yeudh' levgein, v. 108).
Infatti la parola è un'arma potentissima, e dal doppio taglio. Sentiamo Gorgia: "lovgo" dunavsth" mevga" ejstivn, o{" smikrotavtw/ swvmati kai; ajfanestavtw/ qeiovtata e[rga ajpotelei' "[3], la parola è un gran signore che, con un corpo piccolissimo e invisibile, compie opere assolutamente sovrumane.
Queste opere possono essere divine ma anche diaboliche.
L'apostolo Giacomo mette in rilievo la parte direttiva del parlare come aveva fatto l'Odisseo del Filottete: " se uno non inciampa nel parlare, questo è un uomo perfetto (tevleio" ajnhvr), capace di guidare tutto il corpo. La lingua dunque è un piccolo membro e si vanta di grandi cose (mikro;n mevlo" kai; megavvla aujcei'). Eppure essa è un fuoco, è il mondo dell'iniquità (oJ kovsmo" th'" ajdikiva") e contamina tutto il corpo e incendia la ruota della nascita e trae la sua fiamma dalla Gehenna (kai; flogizomevnh uJpo; th'" geevnnh") … Ogni specie di fiere e di uccelli e rettili e animali marini si doma ed è stata domata dalla razza umana, ma la lingua nessuno degli uomini può domarla, è un male inquieto, pieno di veleno mortifero (Epistola di Giacomo, 3, 2-8). La mancanza della lingua è un grave handicap, ma la lingua ingannevole produce il male e la morte.
Lo scita Anacarsi che andò ad Atene nel 591 e fu ospite e amico di Solone, interrogato che cosa fosse insieme bene e male per gli uomini, rispose “la lingua”[4].
Nella Nemea VIII Pindaro ricorda il torto subito da Aiace a[glwsso~ (v. 24), privo di eloquenza: sicché l’invidia poté mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso ingannevole di Odisseo.
Tuttavia alla fine Aiace ebbe giustizia: “a’ generosi/giusta di glorie dispensiera è morte;/né senno astuto, né favor di regi/all’Itaco le spoglie ardue serbava, /ché alla poppa raminga le ritolse/l’onda incitata dagl’inferni Dei” (Dei Sepolcri, vv. 221-225).
Odiosa e ingannevole è pure la lingua dell' Ulisse virgiliano: scelerum inventor [5].
Nell’Ippolito di Euripide, Fedra spiega perché ha taciuto a lungo il suo amore: poiché non ci si può fidare della lingua (glwvssh/ ga;r oujde;n pistovn, v. 395) che sa correggere i pensieri degli altri, mentre da se stessa si procura moltissimi mali. Le parole troppo belle (oiJ kaloi; livan lovgoi, v. 487), continua Fedra, possono provocare la rovina delle città ben governate e delle case.


La Persuasione come divinità (Hillman). Il personaggio Euripide delle Rane di Aristofane: la parola è il tempio della dea Persuasione. Cicerone: l’equivalenza di Peiqwv e Suada

"La nostra civiltà si è decisamente allontanata dal posto che la persuasione occupava nella latinità. Suada infatti-come del resto Peitho ("persuasione" in greco[6]) -era una Dea, e suadeo, con la sua radice di suavis, ha a che fare con "il rendere dolce[7], piacevole", come un tenero amante che conosce l'arte delle dolci parole e sa come dare piacere per rendere la vita amabile, gradevole. Nel mondo greco, Peitho compariva per lo più come una figura a sé stante o come un attributo associato ad Atena e Afrodite. La persuasione è essenzialmente un potere di seduzione, attraverso la parola intelligente e convincente (Atena) oppure attraverso il fascino dei modi e la bellezza della figura (Afrodite). Il dono maggiore di Peitho è la retorica, il dono dell'eloquenza convincente"[8].
La forza della persuasione continua comunque a essere uno strumento decisivo per il successo.
 Non c'è altro tempio della Persuasione che la parola, dice Euripide, personaggio delle Rane di Aristofane autocitandosi: "oujk e[sti Peiqou'" iJero;n a[llo plh;n lovgo" "[9].
Non si può persuadere senza piacere: persuadeo latino è etimologicamente imparentato con aJndavnw, "piaccio". Per piacere bisogna essere belli assai, oppure si deve essere bravi, emozionanti nel parlare.
Cicerone fa notare l'equivalenza tra la Peiqwv dei Greci e la Suada dei latini: “Peiqwv quam vocant Graeci, cuius effector est orator, hanc Suadam appellavit Ennius[10], quella che i Greci chiamano Peiqwv, Ennio chiama Suada, e chi la produce è l’oratore.


Peiqwv è connessa, anche etimologicamente, a Fides, valore di base nella civiltà latina, politico, giuridico, e pure etico. Cicerone la considera fundamentum iustitiae. La fides di Camillo in Tito Livio. Perfidia di Lisandro in Plutarco, e del Principe “golpe et lione” di Machiavelli. La perfidia plus quam punica di Annibale. Il graeculus[11] di Giovenale. Il culto della perfidia negli schiavi plautini. L’ostinazione nel mantenere la parola data dei Germani di Tacito. Teognide. Malafede e ingratitudine dei kakoiv. Nietzsche e gli aristocratici “veritieri”. Don Giovanni di Mozart-Da Ponte

Peiqwv (persuasione) e peivqw (persuado) sono collegati, anche etimologicamente, a fides, fidelis, foedus: dunque chi è capace di persuadere acquista credibilità e infonde fiducia nella sua lealtà.

Fides è un valore di base della civiltà latina, un valore politico, giuridico e pure etico. Cicerone nel De officiis [12] ne dà una definizione " Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas " (I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti. Fides è il rispetto del foedus.
 "Foedus e fides sono legati etimologicamente: foedus è "l'accordo", il trattato stipulato secondo le sacre regole della fides "[13].
La fides è per i Romani un valore forte e vincente: Tito Livio[14] racconta che i Falisci, nel 394, in guerra con i Romani guidati da Furio Camillo si arresero al tribunus militum consulari potestate dopo che questi si fu rifiutato di conquistare la città etrusca grazie al tradimento di un maestro di scuola che voleva consegnargli i figli dei capi di Falerii a lui affidati. "Fides Romana, iustitia imperatoris in foro et curia celebrantur" (V, 27, 1), nel foro e nel senato (di Falerii) vengono esaltati la lealtà romana e la giustizia del comandante. Quindi vengono mandati ambasciatori a Camillo e da lui a Roma, in senato, per offrire la resa. Questi dissero che pensavano di vivere meglio sotto il governo romano che con le loro leggi, e che con l'esito di quella guerra erano stati offerti due salutari eventi al genere umano: " vos fidem in bello quam praesentem victoriam maluistis; nos fide provocati victoriam ultro detulimus" (V, 28, 13), voi avete preferito la lealtà in guerra a una vittoria immediata; noi, sollecitati da questa lealtà, vi abbiamo offerto spontaneamente la vittoria. Nel buon tempo antico dunque l'osservanza della fides pagava.
Non è sentito in maniera così forte e cavalleresca questo valore della lealtà da parte dei Greci. Quale testimonianza di questa affermazione sulla scarsa fides dei Greci (Danaumque…insidiae[15]) riferisco un motto di Lisandro il quale concluse la guerra del Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti stimavano che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento e raccomandava sempre: " o{pou ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6). La perfidia plus quam punica[16] di Annibale e quella italica di Machiavelli hanno avuto dei maestri negli Elleni.
Nel XVIII capitolo di Il Principe, Machiavelli ricorda "come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi". E ne deduce: "Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et uno mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è durabile. Sendo dunque uno principe necessitato sapere usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere".
“Di Plutarco nel Medioevo si preferivano i Moralia e fu solo l’arivo dei dotti greci in Italia, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, a rilanciare la lettura delle Vite parallele, che divennero da allora in poi il suo principale testo di riferimento. Si pensi soltanto a Machiavelli, che ne acquistò una copia in traduzione latina a Bologna nel 1502 e ne trasse ispirazione per la sua intera opera (per inciso le famosissime immagini della “golpe” e del “lione” derivano, particolare, dalla vita di Lisandro di Plutarco), oppure a Montagne e a Shakespeare, che se ne servono abbondantemente”[17].

La “perfidia plus quam punica”[18] di Annibale sarebbe derivata da Sileno[19] uno dei suoi maestri greci: “Il più odioso dei vitia rinfacciati ad Annibale, la sua perfidia, la slealtà maligna e senza scrupoli di cui il Cartaginese si era infinite volte macchiato, era figlia, in effetti, dell’educazione greca e non dell’indole punica[20]”. Comunque i vitia di Annibale furono usati dai Romani per minimizzare e smontare le sue grandi vittorie.
Machiavelli poi ha avuto tanti altri discepoli
Riccardo III di Shakespeare è “un principe che ha letto il principe”[21]. Sentiamo le sue parole sulla necessaria ipocrisia dell’uomo di potere: “But then I sigh, and, with a piece of Scripture, -Tell them that God bids us do good for evil: -And thus i clothe my naked villainy-With odd old ends stol’n forth of Holy Writ, -And seem a saint, when most I play the devil” (Richard III, I, 3), ma allora io sospiro, e, con una citazione della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così io rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi ritagli sottratti alla Sacra Scrittura, e sembro un santo quanto più faccio il diavolo. Queste parole costituiscono il codice dell’uomo di potere. Sentiamo ora un pensiero (141) tratto dai Ricordi di Guicciardini " la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita[22]: “spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India".
Giovenale nella terza satira mette in rilievo la tendenza dei Greci a fare scena: “Natio comoeda est. Rides: maiore cachinno/concutitur; flet, si lacrimas conspexit amici, /nec dolet…si dixeris ‘aestuo’, sudat (vv. 100-102 e v. 103), è una razza di commedianti. Tu ridi: quello è scosso da una risata più grossa; piange, se ha visto le lacrime dell’amico…se avrai detto ‘ho caldo’, suda.

Nel mondo carnevalesco e rovesciato degli schiavi plautini[23] al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia, la santa protettrice dei servi: " Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la Malafede, dice lo schiavo Libano allo schiavo Leonida.
Tacito segnala la perversione della fides tra i Germani i quali, dopo avere perso tutto ai dadi (alea), con un ultimo lancio mettono in gioco la libertà personale, quindi, se perdono, mantengono la parola data e subiscono la schiavitù. Ebbene in questo caso ciò che loro chiamano fides è una forma di ostinazione in un vizio riprovevole: “ea est in re prava pervicacia” (Germania, 24).
Teognide[24] denuncia la malafede come caratteristica dei kakoiv, gli ignobili, i vili, i quali: "ajllhvlou" d j ajpatw'sin ejp j ajllhvloisi gelw'nte"-ou[te kakw'n gnwvma" eijdovte" ou[t j ajgaqw'n" (vv. 59-60), Si ingannano a vicenda, deridendosi a vicenda, senza conoscere i segni distintivi del bene e del male.
Questi kakoiv non conoscono un altro valore forte già ricordato: quello della gratitudine: "E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili: /è come seminare la superficie del mare canuto. /Infatti seminando il mare, non mieti folta messe, /né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in cambio: /ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu sbagli, /l'affetto per tutti i favori di prima si versa per terra”. I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono ("oiJ d j ajgaqoi; to; mevgiston ejpaurivskousi paqovnte"", v. 111), /e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito" (vv. 105-112).
 Nietzsche nel 1864 (a vent'anni) scrisse una Dissertazione su Teognide di Megara simpatizzando con le teorie reazionarie del poeta. Lo colpì fortemente il biasimo espresso per l'ingratitudine dell'animo plebeo: "Teognide ritiene che non c'è niente di più vano e di più inutile che fare bene ad un plebeo, dal momento che di solito non ringrazia mai "[25].
Poi, nel 1886: “Noi veritieri”-è questo l’appellativo che si davano i nobili dell’antica Grecia”[26].
Don Giovanni per rassicurare Zerlina che teme di essere ingannata (“Io so che raro/colle donne voi altri cavalieri/siete onesti e sinceri”), le risponde: “E’ un’impostura/ della gente plebea. La nobiltà/ha dipinta negli occhi l’onestà”[27].







[1] Cfr. latino minor.
[2] G. Avezzù e P. Pucci, Sofocle Filottete, p. 172. Nella commedia di Aristofane Socrate indica a Strepsiade gli dèi della sua scuola e gli impone di onorarli: " to; Cavo"kai; ta;" Nefevla" kai; th;n glw'ttan" (v. 424), il Caos, le Nuvole e la lingua.
[3] Gorgia, Encomio di Elena, fr. B11 Diels-Kranz.
[4] Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 8.
[5] Cfr. Eneide, II, 164.
[6] Peiqwv. Ndr.
[7] In inglese sweet, in tedesco süss. Ndr.
[8] J. Hillman, Il potere, p. 194.
[9] Rane, v. 1391. Euripide, in gara con Eschilo, cita e pone sulla bilancia questo verso della sua Antigone, per noi quasi tutta perduta (fr. 170). Il peso maggiore però è del verso di Eschilo (fr. 279) al centro del quale si trova Qavnato~ (Rane, v. 1392). Dioniso, che fa da giudice, infatti dice che la morte è baruvtaton kakovn (1394), il guaio più pesante; Peiqw; de; kou`fovn ejsti kai; nou`n oujk e[cwn (v. 1396), la Persuasione invece è leggera e senza pensiero. In effetti c’è anche molto di istintivo nella capacità di persuadere.
[10] Brutus, (del 46 a. C.), 59.
[11] Cfr. 17 e 25.
[12] Del 44 a. C.
[13]G. B. Conte, Scriptorium Classicum 2, p. 81.
[14] 59 a. C. -17 d. C.
[15] Cfr. Eneide, 2, vv. 309-310: “ Tum vero manifesta fides Danaumque patescunt/insidiae”, allora davvero è evidente la lealtà e si scoprono gli inganni dei Danai. E’ il momento della scoperta dell’inganno del cavallo di Troia. Invano Laocoonte aveva cercato di mettere in guardia i Troiani gridando: “equo ne credite, Teucri. /Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis” (Eneide, 2, vv. 49-50), non dovete credere alla storia del cavallo, Teucri. Qualunque cosa sia questa, temo i Danai anche quando portano doni.
[16] Tito Livio, Storie, XXI, 4.
[17] Remo Bodei, Immaginare altre vite, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 100.
[18] T. Livio, Storie, 21, 4.
[19] “Sileno di Kalé Akté. Sileno, che feci venire io stesso dalla Sicilia perché scrivesse le mie imprese, era sottile e astuto, insinuante e indiretto…Da buon Siceliota, egli era più pratico dello spartano, e soprattutto era di lui assai più portato all’uso sistematico della metis, quel misto di saggezza, di spregiudicatezza e di astuzia che dev’essere patrimonio di statisti e uomini di guerra” (G. Brizzi, Annibale Come un’autobiografia, p. 32).
[20] G. Brizzi, Scipione e Annibale, p. 21. Laterza, Roma-Bari 2007.
[21] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.
[22]F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, 2, p. 107
[23] Plauto visse tra il 255 ca e il 184 a. C.
[24] Sotto il nome di Teognide, vissuto nel VI, ci è giunta la Silloge teognidea, un corpus di 1389 versi in distici elegiaci non tutti dell'autore.
[25] Dissertazione su Teognide di Megara, p. 167.
[26] Di là dal bene e dal male (Che cosa è aristocratico), p. 186.
[27] Don Giovanni, Mozart-Da Ponte, I, 8. 

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