sabato 15 agosto 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XLI

Anthony Sandys, Medea (1867)

Un esempio didattico pratico: una lezione sulla Medea di Euripide. Luperini: il significato per noi del testo parafrasato, commentato e interpretato; il nesso interpretazione-democrazia. La scelta del teatro classico. Luciano Favini. D’Annunzio: il dramma è un rito. Il commento, molto ampio, del verso 330[1] della tragedia di Euripide con una scheda di approfondimento sull’Amore quale “segno di contraddizione”

Faccio un esempio pratico: una lezione sulla Medea di Euripide. Parto dal mito. Racconto il dramma di Euripide attraverso un riassunto. Ne indico le idee, i tovpoi, le parole e i versi chiave. Lo situo nell'opera dell'autore che poi colloco nella letteratura e nella storia greca. Insomma fornisco una visione generale della cultura del periodo in cui la tragedia è stata composta. Quindi ne traduco alcune parti[2] commentandole dal punto di vista linguistico, metrico, letterario e storico.

“Il commento è lo strumento fondamentale per familiarizzare lo studente con il testo letterario. E, nel commento, ha un’importanza fondamentale la parafrasi[3], la spiegazione, parola per parola, della “lettera materiale” del testo. Solo se il testo è stato capito nel suo contenuto semantico è possibile risalire a significati più complessi…Se il commento rende evidente l’alterità del testo rispetto al lettore, è l’interpretazione che gli dà significato e valore…Proprio la crescente alterità del testo letterario non può che indurre il docente a riproporre ogni volta le ragioni che lo inducono a far leggere in classe un determinato testo. A meno di non far appello solo alla forza coercitiva dei programmi ministeriali, vanno in ogni caso rimotivate le ragioni della lettura. Si tratta perciò di enucleare gli aspetti, i contenuti, i messaggi del testo che consentano di valorizzarlo e di renderlo attuale. Alla fine, a essere decisivo, nella motivazione della lettura, è il suo significato per noi…Da un punto di vista didattico, nel momento del commento al centro della classe sta il testo; nel momento della interpretazione è la classe stessa che diventa il centro…L’abitudine all’interpretazione forma nello studente il cittadino critico e responsabile, rispettoso degli altri e del testo che ha davanti, ma pronto a battersi per la propria idea…Puntare sulla interpretazione e sulla attualizzazione del testo, motivare le ragioni per cui lo leggiamo e lo valorizziamo, significa interrogarsi sul mondo, scommettere su un suo senso possibile, confrontare valori con valori. In una società in cui ogni valore appare azzerato in un magma indifferenziato, la scuola ha oggi il dovere di non arrendersi, di tentare di prefigurare una civiltà come dialogo e come conflitto delle interpretazioni libero da dogmatismi e da verità precostituite. Sta qui-in questo nodo che unisce competenza e libertà, aderenza ai dati e rispetto degli interlocutori, assunzione coraggiosa di responsabilità e consapevolezza della propria parzialità-il nesso che unisce il problema della interpretazione a quello della democrazia [4].

Perché do tanta importanza a Medea e al teatro? Lo posso chiarire attraverso le parole dette da Luciano Favini in una relazione tenuta a Palazzolo Acreide nel maggio del 2002 durante un seminario sulle "Esperienze di teatro classico nella scuola". La Grecia non è solo l'Atene del V secolo, ha ricordato, eppure, ha aggiunto, nel profondo del nostro cuore, noi sappiamo che il classico, e specialmente il teatro antico, valgono di più, contano di più, sono più forti di ogni altra esperienza culturale.
"Quivi l'opera d'arte non appare se non come la religione fatta sensibile sotto una forma vivente. Il drama è un rito"[5].
 Riconosciuta la supremazia del teatro attico, procedo con la Medea di Euripide. La paragono con le altre medee che conosco: con quelle di Apollonio Rodio, di Ovidio, di Seneca, di Grillparzer, di Anouilh, e con quella cinematografica di Pasolini, come si diceva. Aggiungo quella "anomala" di Christa Wolf. Parlo della condizione della donna antica suggerendo analogie e differenze con la moderna, anche con le femmine umane più rappresentative tra quante ne ho conosciute personalmente. L'educatore infatti non può scindere la teoria dalla prassi né prescindere dalla propria esperienza di vita. Infine fornisco ai giovani strumenti bibliografici per arricchire la ricerca[6] e verificare tanto il loro interesse quanto le loro capacità. Quindi do inizio alla lettura dei versi.

Riporto qui sotto, come esempio, una scheda interdisciplinare con la quale è possibile commentare il v. 330 della Medea di Euripide: “ feu' feu' brotoi'~ e[rwte~ w;~ kakovn mevga”, “ahi, ahi, che grande male è l'amore per i mortali!”,

La fobia dell'amore e del sesso.
 Le Argonautiche, che descrivono la fase iniziale dell'amore di Medea per Giasone, sono piene di anatemi di Eros: il dio quando arriva, mandato dalla madre, per costringere Medea ad amare e aiutare Giasone, è invisibile, sconvolgente (tetrhcwv~, Argonautiche, 3, 276), come l’assillo (oi\stro~) che si scaglia sulle giovani vacche[7]. Rapidamente questo dio del dolore[GG1]  prese una freccia dolorosa: “poluvstonon ejxevlet j ijovn” (v. 279). La freccia ardeva profonda nel cuore della ragazza, come una fiamma (flogi; ei[kelon, v. 287), ed ella consumava l’anima in una dolce afflizione: “glukerh'/ de; kateivbeto qumo;n ajnivh/” (v. 290). Quindi ardeva in segreto Eros funesto: “ai[qeto lavqrh/ ou\lo~ [Erw~ ” (vv. 296-297).
Come Giasone appare splendidissimo al desiderio di Medea, il giovane prestante viene paragonato a Sirio che si leva alto sopra l'Oceano, bello e splendente però reca sciagure infinite alle greggi: così il figlio di Esone portava il travaglio di un amore angoscioso (Argonautiche, 3, vv. 957-961). L'infelicità è connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn ajlginovei"", 4, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e preparati in ogni modo a sopportare, per quanto sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “ Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j [Erw", mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn) ", Argonautiche, 4, vv. 445- 449). L'amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità.
Nel primo idillio di Teocrito, Tirsi cantando la morte di Dafni, il quale si ricusa all’amore come a un giogo che lo priverebbe della sua libera natura, attribuisce al pastore morente un assalto verbale a Cipride e ad Eros: “
 Anche Virgilio apostrofa l’amore malvagio che spinge i cuori umani ad atti estremi e orrendi: “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide, IV, 412). Questo è l’amore di Didone, frustra moritura, destinata a morire invano, per Enea.

Nell’Ippolito di Euripide, quando Fedra domanda alla nutrice che cosa è ciò che gli uomini chiamano amore, ella risponde: una cosa dolcissima (h[diston) e nello stesso tempo dolorosa (taujto;n ajlgeinovn q j a{ma, v. 348). Poi Fedra le confessa di essere innamorata di Ippolito: allora la nutrice vede il sovvertimento della bellezza e dei valori: “ejcqro;n eijsorw' favo~ ” (v. 355), odiosa vedo la luce.
 Più avanti però consiglia alla pupilla l’ardimento di amare (tovlma d’ ejrw'sa, v. 476) e poco dopo le dice: non di parole decorose hai bisogno tu, ma di quell’uomo (ouj lovgwn eujschmovnwn-dei' s j, ajlla; tajndrov~, vv. 490-491). La premessa è che Cipride non si può sostenere, quando si abbatte possente: “Kuvpi~ ga;r ouj forhtov~, h]n pollh; rJuh'/” (v. 443) e gli dèi stessi ne sono stati soggetti, come Zeus che amò Semele. Tu non puoi essere più forte degli dèi: cessa di essere arrogante: “ lh'xon d j uJbrivzous j ouj ga;r a[llo plh;n u{bri~ -tavd j ejstiv, kreivssw daimovnwn ei\nai qevlein” (vv. 474-475), non è altro che arroganza questo, voler essere più forte degli dèi. Dunque: “ tovlma d’ ejrw'sa: qeo;~ ejboulhvqh tavde (v. 476), un dio l’ha voluto. Ora infatti è giunto il momento dell’ ajgw;n mevga~- sw'sai bivon sovn (vv. 496-497) e in questa gara suprema non si possono lesinare o riprovare i mezzi per vincerla. Il primo stasimo cantato da donne trezenie canta con sgomento la necessità di venerare Eros, il tiranno degli uomini (tuvrannon ajndrw'n, v. 538) che distrugge (pevrqonta, v. 541) e incede in mezzo a sventure di ogni tipo (dia; pavsa~-ijovnta sumfora'~, 541-542). La madre Cipride non è da meno: ella uccise la madre di Bacco con folgore fiammeggiante e dovunque spiri, terribile (deinav), continua a volare come un’ape (mevlissa oi{a, vv. 563-564). Cioè punge.

Nella Fedra di Seneca la figlia di Pasife, innamorata del proprio figliastro, cerca di giustificarsi con la nutrice denunciando l’onnipotenza del dio alato Amore cui soggiacciono gli stessi dèi maggiori poiché egli ha un potere incontrollato in ogni parte del mondo: “Hic volucer omni pollet in terra impotens (v. 186) e vola parimenti penoso nel cielo e sulla terra: “volitat caelo pariter et terra gravis” (v. 194).

Secondo Christa Wolf invece la negazione della gioia non è implicita nell'amore in sé, ma al contrario deriva dall'odio per la vita. Ecco quanto Giasone nel suo monologo ricorda di avere sentito dalla madre dei suoi figli, la quale gli parlava senza essere stata corrotta dal rancore: "Ma tu, ascolta bene quello che ti dico, non fare del male a Glauce. Perché ti ama, ed è fragile, molto fragile…Non ne proverai gioia. Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno mettendo in un modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma anche quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita. Del resto mi domando se il piacere di distruggere la vita degli altri non dipenda dal fatto che si ricava pochissimo piacere e pochissima gioia dalla propria"[8].
Nella letteratura latina il sermo amatorius pullula di metafore che identificano l'amore con il fuoco, le ferite, la peste, il veleno, la follia, addirittura il cancro: "sed antiquus amor amor cancer est " (Satyricon 42, 7), ma un amore vecchio è un cancro.
Lucrezio nel De rerum natura simboleggia la pena amorosa dei mortali con il tormento di Tizio: "Sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem/quem volucres lacerant atque exest anxius angor " (III, 992-993), ma Tizio è qui in noi, quello che, prostrato nell'amore, gli uccelli dilaniano e un angoscioso affanno divora. "La pena di Tizio-il gigante ucciso da Apollo per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato continuamente roso dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm. 3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell'angosciosa passione amorosa, la cupido"[9].
 Ma i versi più dolorosi sull'amore sono quelli dove il termine vulnus, ferita, non basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene una piaga che potrebbe diventare mortale se non curata: "Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit, /si non prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures/aut alio possis animi traducere motus " (De rerum natura, IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e vigoreggia a nutrirla, la smania cresce di giorno in giorno, e l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi colpi, e le recenti non curi prima, vagando con una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell'animo.
Catullo usa la parola pestis in nesso allitterante con pernicies[10] per definire il proprio amore doloroso dal quale vorrebbe liberarsi, con l'aiuto degli dèi, come da una malattia non meritata (76, 20-22). Nella parola pestis è già implicita l'idea, oggi terroristicamente conclamata, dell'Aids, chiamata la peste del secolo, quando negli incidenti stradali muoiono, in Italia, ottomila persone all'anno[11], ne restano ferite molte di più, e chissà quante altre vengono consumate dal cancro, quello vero, dovuto ai gas di scarico. Se i rapporti umani, in primis quelli amorosi, non venissero sporcati, calunniati, annichiliti, gli uomini non comprerebbero tante macchine e altre schifezze nocive, o quanto meno inutili.
 Sono le distruzioni e le guerre che spingono a comprare. Il consumare è collegato al distruggere, è una sua metafora. Sono le attività empie, le malattie dello spirito che distolgono dall’amore. Nell'Atene dominata dal demagogo guerrafondaio Cleone, Diceopoli, il cittadino giusto compiange la sua città perché gli abitanti non si curano della pace (Acarnesi, v. 27) e pure la odia, mentre ama la pace e rimpiange il suo villaggio dove ciascuno produceva il necessario per sé, mentre nella povli" è onnipresente l'invito a comprare: "privw"[12], che si tratti di carbone, di aceto o di olio (vv. 34-36). Ecco dunque un altro male deleterio dell’amore oltre la guerra: il consumismo e il mercato che uccide gli affetti. Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich in L'uomo senza qualità: " Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci d'Europa" (p. 800). Qualche anno fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava a cercare valori in Oriente, dove infatti sono ambientati alcuni suoi film, siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il comprare.
"In Apollonio e in Catullo era presente la tragedia greca, specialmente Euripide. Anche Virgilio si riattacca ad Euripide direttamente (e non solo attraverso Apollonio e Catullo): il IV libro meglio degli altri dell'Eneide ci mostra come egli utilizzi e fonda suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già tra loro in un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all'estremità di una catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il personaggio di Enea"[13].
Nel IV libro dell’Eneide Didone, “s’ancise amorosa”[14], ma già nelle opere precedenti Virgilio fa bruciare, soffrire e lottare per amore non solo gli uomini e le donne, ma anche gli animali che sono omologati agli umani nel patimento erotico.
Fanno eccezione le api le quali hanno un costume che desta meraviglia in quanto non si concedono all'accoppiamento né sciolgono neghittose i corpi in Venere né producono la prole con le doglie: "quod neque concubitu[15] indulgent nec corpora segnis[16]/in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt " (Georgica IV, vv. 198-199). Nell'ecloga II il pastore Coridone arde d'amore per il bell'Alessi. (Formosum pastor Corydon ardebat Alexin, 1) che non ha pietà di lui. Fin dalle Bucoliche Virgilio è il poeta dell'amore infelice e luttuoso, il cantore della passione sulla quale si proietta un'ombra di morte: " O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas?/nil nostri miserere? Mori me denique coges" (vv. 6-7), o crudele Alessi, non ti curi dei miei canti? non hai compassione di me? Infine mi costringerai a morire, sospira l'innamorato ardente.
Coridone non ha tregua dall'ardore amoroso nemmeno quando il bestiame e, con motivo teocriteo[17] perfino i ramarri, riposano al fresco: "Nunc etiam pecudes umbras et frigora captant / Nunc viridis[18] etiam occultant spineta lacertos " (vv. 8-9), ora anche il bestiame cerca di prendere le ombre e il fresco, ora i rovi spinosi nascondono perfino i verdi ramarri.
Alla fine della II bucolica il tramonto raddoppia le ombre ma non concede pausa all'ardore di Coridone e alla passione che trascina ciascuno sconvolgendo ogni misura: "…trahit sua quemque voluptas... et sol crescentes decedens duplicat umbras;/me tamen urit amor: quis enim modus adsit amori? " (v. 65 e vv. 67-68). Chi è afferrato da Eros ignora la giusta misura siccome l'amore è follia: "A Corydon, Corydon, quae te dementia cepit! ", v. 69.
Nella Georgica III, che tratta l'allevamento del bestiame, la conflagrazione amorosa riguarda, oltre gli umani, anche gli animali: "Carpit enim vires paulatim uritque videndo/ femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbae/ dulcibus illa quidem inlecebris et saepe superbos/cornibus[19] inter se subigit decernere amantis[20], " (v. 215-218) logora infatti le forze a poco a poco e li brucia guardandoli la femmina, e non lascia che si ricordino dei boschi né dell'erba, ma quella certo li attira con dolci seduzioni e spesso costringe i fieri pretendenti a combattere con le corna.
Tale istinto è uguale per tutte le creature viventi: "Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque/et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres/ in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem " (vv. 242-244) così ogni specie sulle terre di uomini e di animali, e la razza marina, il bestiame e gli uccelli colorati si precipitano in ardori furiosi, amore è lo stesso per tutti.
Esso accresce la ferocia delle belve: "Tempore non alio catulorum oblita leaena/saevior erravit campis nec funera volgo/tam multa informes ursi stragemque dedere/per silvas; tum saevos aper, tum pessima tigris;/heu, male tum Libyae solis erratur in agris " (vv. 245-249), in nessun altro tempo, dimentica dei cuccioli, la leonessa ha errato più furiosa per le pianure, né tanti lutti e strage sparsero gli orsi orribili per le selve; allora il cinghiale è furioso, allora la tigre è più feroce che mai; ahi allora si vaga con rischio nei campi deserti della Libia.
Nella letteratura italiana Boccaccio, in un brano di chiara derivazione virgiliana, fa descrivere l'invasamento erotico e bellicoso degli animali dalla dea Venere che vuole convincere Fiammetta ad assecondare la sua passione amorosa e adulterina: "ne' boschi li timidi cervi, fatti tra sé feroci quando costui[21] li tocca, per le disiderate cervie combattono, e, mugghiando, delli costui caldi mostrano segnali; e i pessimi cinghiari [22], divenendo per ardore spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da amore tocchi, vibrano i colli"[23].

Torniamo a Didone la quale, poco dopo avere visto Enea, è già "infelix pesti devota futurae" (Eneide, I, 712), disgraziata, consacrata alla rovina imminente: infatti dopo un altro po’ di tempo lo ama, spiritualmente e carnalmente, quindi muore suicida " misera ante diem" (IV, 697), disgraziata prima del suo giorno, maledicendo l’amante e i suoi discendenti.

La pessima fama del sesso non è assente dalla prosa. Platone rappresenta Sofocle come un vecchio[24] pentito del sesso: Cefalo riferisce di essere stato presente quando a un tale che domandava al poeta di Colono: "pw'"... e[cei" pro;" tajfrodivsia; e[ti oi|ov" te ei\ gunaiki; suggivgnesqai;", come ti va nelle cose d'amore? sei ancora capace di congiungerti con una donna?
 Il tragediografo rispose: "eujfhvmei w\ a[nqrwpe: aJsmenevstata mevntoi aujto; ajpevfugon, w{sper luttw'ntav tina kai; a[grion despovthn ajpodrav"" (Repubblica, 329c), sta' zitto tu, infatti con grandissima gioia me ne sono liberato, come se fossi fuggito da un padrone furente e selvaggio. La vecchiaia, commenta il padrone di casa, significa dunque un liberarsi da moltissimi tiranni numerosi e pazzi: "despotw'n pavnu pollw'n e[sti kai; mainomevnwn ajphllavcqai" (329d). Tra questi, in primis, Eros.
 Questo anatema di Sofocle viene riptuto non senza compiacimento da Catone il Vecchio nel De senectute di Cicerone: " Bene Sophocles, cum ex eo quidam iam affecto aetate quaereret utereturne rebus veneriis: "Di meliora! inquit; libenter vero istinc sicut ab domino agresti ac furioso profugi " (14), opportunamente Sofocle quando, già vecchio e fiaccato dagli anni, un tale gli chiedeva se facesse ancora del sesso, disse: dio ne scampi, volentieri invero sono scappato di lì come da un padrone selvaggio e furioso!
 Nella stessa opera il piacere dei sensi in generale viene smontato: " impedit enim consilium voluptas, rationi inimica est, mentis, ut ita dicam, praestringit oculos, nec habet ullum cum virtute commercium " (12), in effetti il piacere impedisce il giudizio, è nemico della ragione, abbaglia, per così dire, gli occhi della mente e non ha alcun rapporto con la virtù.
Di fatto ancora negli anni Cinquanta del Novecento la pretaglia delle parrocchie di Pesaro diceva ai ragazzini che se uno pensava troppo alle femmine umane, fino a “toccarsi”[25], diventava cieco, e non solo di mente. Tutta gente che non aveva più abbastanza corpo per soddisfare l'anima e si rifiutava di ammetterlo.
Cerchiamo qualche spiegazione di questa congiura, quindi tentiamo una difesa dell'amore e del sesso.
D. H. Lawrence[26] scrive: "C'è un desiderio incoffessato, implacabile, dietro a tutte le teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare completamente il mistero della bellezza. (…) La scienza ha una misteriosa avversione per la bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente nella visione che essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società a sua volta ha una misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce perpetuamente con la organizzazione bene ordinata che l'uomo sociale ha inventato per fare quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che il sesso e la bellezza sono soltanto espressioni dell'istinto di riprodursi. E allora diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e il fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri la bellezza vivente, provi rispetto anche per il sesso… La sventura della nostra civiltà deriva dall'odio morboso che proviamo per il sesso"[27]. Tutto ciò che è morboso è contro la vita.
Sentiamo una riflessione di Giacomo Casanova, personaggio di La recita di Bolzano: “Ma qual era dunque il morbo? Riflettè. Quindi, solo nella stanza, disse a voce alta: l’egoismo. Dietro ogni mal d’amore si udiva sempre la vocina stridula dell’egoismo, che cercava di salvare quanto poteva e pretendeva tutto ciò che un essere umano può pretendere da un altro, possibilmente senza dover offrire in cambio nulla di autentico e di sostanziale”[28].
 Ricordo anche Marcela Serrano[29], una delle nuove voci della narrativa sudamericana: " Sai una cosa? Penso all'amore. Tutto, gira e rigira, ha a che vedere con questo sentimento così comune, fantastico, alienante, sopravvalutato, raro. Ho l'impressione che tutte quante, senza rendercene conto, siamo ferme davanti al nocciolo del dramma di questi tempi, uno dei dilemmi fondamentali di questa fine secolo: la mancanza di un punto d'incontro tra i due sessi"…E' tutto molto moderno. Com'è frigida questa modernità…In tutto e per tutto frigida. Al giorno d'oggi il grande sconfitto è l'amore… Il sistema vuole escludere l'amore e il piacere. Allora bisogna abbattere il sistema, Floreana, come vecchi rivoluzionari"[30].
Wilhelm Reich considera il terrorismo sessuale inflitto ai bambini come un'arma che ammorba la vita erotica e nello stesso tempo annienta per sempre la loro indipendenza: "L'inibizione morale della sessualità naturale del bambino, la cui ultima tappa è una grave limitazione della sessualità genitale del bambino piccolo, rende quest'ultimo pauroso, timido, timoroso dell'autorità, ubbidiente, "buono" ed "educabile" in senso autoritario: l'inibizione morale paralizza, perché ormai ogni impulso libero e vivo è affetto da grave paura e provoca, attraverso la proibizione del pensiero sessuale, una generale inibizione del pensiero e una incapacità critica; in breve il suo obiettivo è la creazione di un suddito che si adatti all'ordine autoritario e lo subisca nonostante la miseria e l'umiliazione"[31].
Non solo il cristianesimo si è adoperato per l'infibulazione mentale delle nostre donne e la castrazione spirituale di noi maschi.
Orwell in 1984 fa un discorso più ampio descrivendo un regime repressivo, tra l'altro, della libertà erotica poiché l'astinenza sessuale produceva isterismo il quale " si poteva facilmente trasformare nell'infatuazione per la guerra e nell'adorazione dei capi…Il partito cercava con ogni mezzo di annullare l'istinto sessuale, ovvero, nel caso in cui non fosse riuscito ad annullarlo, di pervertirlo e insudiciarlo" (p. 70)
Ma c'è una ragazza, Jiulia, che comprende e si ribella facendo l'amore con gioia, e spiega: “Quando fai all'amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo (...) Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido. Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate?"[32].
Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà" (p. 133). Il protagonista del romanzo, Winston, vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito (...) un atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva pieno di ammirazione, quindi le dice: "Sta' a sentire. Con più uomini sei stata e più ti voglio bene. Hai capito?"[33].
La fobia del sesso fa parte della propaganda di qualsiasi regime. L'odio dell'amore si volge facilmente in amore per la guerra.
 Infatti nella Lisistrata[34], che in questa vigilia di guerra[35] gruppi di femministe stanno rappresentando in alcune città americane, la protagonista afferma che se Eros glukuvqumo", delizioso, e Afrodite, spireranno desiderio sui seni e le cosce delle femmine e infonderanno nei maschi una piacevole tensione e turgore di clave (rJopalismouv"), le donne un giorno tra i Greci saranno chiamate Lisimache (vv. 551-553), ossia dissolvitrici di battaglie. Del resto lo stesso nome parlante della protagonista eponima significa "colei che dissolve l'esercito". Qui il discorso funziona a rovescio rispetto a quello di Orwell: nel suo romanzo gli umani vengono inibiti sessualmente perché vogliano fare la guerra; nella commedia antica i maschi devono smettere di fare la guerra, se vogliono fare l'amore con le loro donne. La parola d'ordine di Lisistrata è "bisogna astenersi dal bischero!" (v. 124). Una situazione che la guerra rende comunque necessaria: "monokoitu'men dia; ta;" stratiav" " (v. 592), dormiamo sole a causa delle spedizioni militari, lamenta la stessa Lisistrata, la quale aggiunge che le donne vengono particolarmente penalizzate da queste assenze dovute alla guerra oramai ventennale, poiché per loro il tempo opportuno è breve (th'" de; gunaiko;" mikro;" oJ kairov", v. 596): l'uomo quando torna, anche se è canuto, sposa una giovinetta, mentre l'attempata nessuno la sposa, e resta seduta a fare pronostici (vv. 596-597). Anche in questa commedia, come ai nostri giorni, le pacifiste sono accusate di tramare in favore della tirannide: "ajlla; tau'q j u[fhnan hJmi'n, w\\||ndre", ejpi; turannivdi" (v. 630), ma ci imbastirono queste trame, signori, in favore della tirannide.
La repressione sessuale è funzionale al potere, a qualsiasi potere: "Il padre primigenio vietava ai propri figli il soddisfacimento dei desideri sessuali diretti; li costrinse all'astinenza e perciò a quei legami emotivi con lui stesso e fra loro che potevano scaturire dagli impulsi la cui meta sessuale era inibita…Il capo della massa è ancor sempre il temuto padre primigenio, la massa continua a voler essere dominata da una violenza senza confini, è sempre sommamente avida di autorità, ha, secondo l'espressione di Le Bon, sete di sottomissione…Le pulsioni sessuali inibite nella meta hanno su quelle non inibite un grande vantaggio funzionale. Non essendo propriamente capaci di soddisfacimento completo, risultano particolarmente idonee a creare legami duraturi"[36].
Ora sentiamo alcune voci favorevoli.
 Platone assimila la follia erotica a quella religiosa: nel Fedro ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati.
A proposito della follia dei profeti, profeti, Cicerone nel De divinatione fa derivare divinatioa divis ” e mantikhvut Plato interpretatur a furore” (1, 1) secondo la spiegazione di Platone da pazzia, rivendicando la superiorità dei Romani nel denominare quest’arte prestantissima
 Nemmeno il filosofo ateniese del resto considera negativamente questa "frenesia divina che è molto più saggia della saggezza del mondo"[37]. Anzi Socrate vuole dimostrare, a proposito della pazzia amorosa: "wj" ejp j eujtuciva/ th'/ megivsth/ para; qew'n hJ toiauvth maniva[38] devdotai" (Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più grande fortuna.
Cesare Pavese ribalta la posizione lucreziana del vulnus: per lui è la vita che infligge ferite e l'amore anestetizza il dolore: "Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l'amore goduto è un anestetico e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione?"[39].
Leopardi nella Storia del genere umano lo valuta l’amore come un grande beneficio concesso da Amore, figliuolo di Venere Celeste[40]. E spiega: " Quando viene in sulla terra sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti nobili e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa del tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacergli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l'essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata condizione fosse in alcuno uomo ai migliori tempi".

In chiusura di scheda voglio suggerire una completa riabilitazione di Amore da tante calunnie attraverso alcune parole di Agatone nel Simposio platonico: Eros è il più felice, il più bello e il più nobile fra tutti gli dèi. Ed è anche il più giovane, sicché non derivano da Amore le mutilazioni dei tempi primordiali di cui parlano Esiodo e Parmenide, anzi, se ci fosse stato lui, non sarebbero avvenute quelle ejktomaiv, castrazioni vere e proprie, né incatenamenti reciproci, desmoi; ajllhvlwn, e molte altri prevaricazioni anche violente kai; a[lla polla; kai; bivaia (195c), ma solo amicizia e pace, come ai tempi nostri, da quando Amore regna tra i numi. Inoltre egli è delicato: aJpalov", tant'è vero che cammina e si ferma sulle entità più tenere: infatti ha fondato la sua dimora nei caratteri e nelle anime degli dèi e degli uomini. Anzi ripudia le anime dure e rozze. Inoltre possiede tutte le virtù, compreso il coraggio: infatti neppure Ares tiene testa a Eros (196d) che viceversa tiene in pugno il dio della guerra. Che è poi quanto sosterrà anche l'inno a Venere di Lucrezio (De rerum natura, I, 29-40).





[1]Feu' feu' brotoi'~ e[rwte~ w;~ kakovn mevga”, “ahi, ahi, che grande male è l'amore per i mortali!”.
[2] In un anno scolastico si possono leggere il Prologo, la Parodo, il primo Episodio e il primo Stasimo di seguito, utilizzando le parti successive per commentare queste.
[3] Nel caso nostro la traduzione (ndr).
[4] R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 208 e sgg.
[5] G. D'Annunzio, Il fuoco, p. 133.
[6] "In una classe di liceo, con più tempo, scatenerei una ricerca di fonti e costruirei, con i miei allievi, un dossier, un concerto di voci sul problema che si sceglie come oggetto d'interesse", F. Frasnedi, op. cit., p. 114.
[7] Si pensi a Io la fanciulla trasfigurata in mucca del Prometeo incatenato, tormentata da un assillo appunto (oi\stro~, v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi: “ E subito l'aspetto e la mente furono/stravolti: divenni cornigera, come vedete, e punta/da un assillo dall'acuto morso, con salti furibondi/balzai verso la corrente Cercnea dolce da bere/e alla fonte di Lerna: e il bovaro nato dalla terra/Argo violento nell'ira mi scortava/ spiando i miei passi con occhi fitti” (vv. 673-679).
[8] Medea, p. 203.
[9] Lucrezio, La Natura Delle Cose, testo e commento di Ivano Dionigi, p. 320.
[10]"me miserum aspicite et, si vitam puriter egi, /eripite hanc pestem perniciemque mihi" (76, 19-20), guardate me disgraziato e, se ho passato la vita senza tradire, /strappatemi questa peste e rovina.
[11] L’automobile è una vera e propria arma terroristica usata contro pedoni e ciclisti in primis, poi contro gli stessi automobilisti che si ammazzano a vicenda come i nati dalla terra e dai denti del drago seminati da Giasone nelle Argonautiche (3, 1372 sgg.).
[12] Imperativo dell'aoristo III di privamai, "compro".
[13]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia, p. 357.
[14] Dante, Inferno, V, 61.
[15] Concubitu: forma di dativo che si trova anche nella prosa classica.
[16] segnis=segnes con funzione predicativa.
[17]Cfr. VII, Le Talisie, 22.
[18] =virides.
[19] In questi versi l'istinto amoroso si associa non solo al fuoco ma anche a Eris. 
[20] =amantes.
[21]Amore
[22] Da confrontare con "tum pessima tigris " e " tum saevos aper " visti sopra (Georgica III, v. 248)
[23] Elegia di Madonna Fiammetta, (del 343-1344) cap. 1. E' questa una lunga lettera che la protagonista scrive idealmente a tutte le donne innamorate.
[24] La Repubblica di Platone è ambientata al Pireo, in casa del meteco Cefalo, padre di Lisia e Polemarco, nella primavera del 408 a. C. quando Sofocle (497-406 a. C.) aveva quasi novant'anni. L'episodio raccontato risalirà a qualche tempo prima.
[25] Cfr Amarcord di Fellini
[26] 1885-1930.
[27] Fantasia dell'inconscio e altri saggi sul desiderio, l'amore, il piacere, Mondadori, Milano, 1978. Tratto da Lunario dei giorni d'amore, pp. 427-428.
[28] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 126
[29] Nata a Santiago del Cile nel 1951.
[30] Marcela Serrano, L'albergo delle donne tristi, pp. 75, 168-169, 192..
[31] W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, p. 43.
[32]G. Orwell, 1984, p. 142.
[33]G. Orwell, 1984, p. 134.
[34] Del 411.
[35] 4 marzo 2003.
[36] S. Freud, Psicologia delle masse, in Freud, Opere, vol 9, pp. 312, 315, 325.
[37]A. Taylor, Platone, p. 475.
[38] C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti", profeta, hanno la radice comune man (t) -/mhn-
[39]Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1938.
[40] Per Venere Celeste cfr il discorso di Pausania nel Simposio platonico. (180 c 4-185 c 3). Pausania, fu un discepolo del sofista Prodico, ed esalta l'Eros pederastico. Amore non è unico ma duplice come Afrodite: c'è un Eros Uranio o Celeste, connesso ad Afrodite Urania, figlia del Cielo, quindi derivato solo dal maschio; e c'è un Eros Pandemio, Volgare, legato ad Afrodite Pandemia figlia di Zeus e Dione. Soltanto l'amore celeste deve essere elogiato. Quello volgare infatti ama i corpi più delle anime e si volge tanto ai fanciulli quanto alle donne; inoltre agisce a casaccio senza tendere al bene. Chi segue Eros Celeste invece ama i maschi nei quali ammira la natura più forte e l'intelligenza più viva, l'anima più che il corpo, e tende al perfezionamento dell'amato. E' dunque buona cosa che l'amato conceda i propri favori all'amante in vista della sapienza e della virtù.

1 commento:

  1. Ciao Gianni. Finalmente riesco a leggerti! Mi piace molto. Anch'io penso che l'amore sia il motore dell'evoluzione del pensiero umano .Personalmente ritengo che l'amore diventi dannoso in mano ai cretini,,,,qualsiasi cosa diventa pericolosa in mano agli stupidi,Voglio studiare con più calma e riutilizzare questo bel materiale in classe,anche se insegno ai bambini trovo sempre tanto materiale che metti generosamente a disposizione. Giovanna Tocco

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