lunedì 10 agosto 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XXXVIII

Ludovico Toeput (detto "il Pozzoserrato"), Le nove Muse


La bellezza. Il superamento della sapienza silenica attraverso l’arte. La nascita della tragedia di Nietzsche. La dichiarazione d’amore di Euripide alle Grazie e alle Muse. Vivere nella bellezza o nella bellezza morire: la vita bella o la bella morte. Aiace. Il Gimnosofista di Plutarco. Cleopatra di Plutarco (Vita di Antonio), di Shakespeare (Antonio e Cleopatra) e di Orazio (Ode, I, 37). Antigone (vv. 96-97), Neottolemo del Filottete di Sofocle (vv. 94-95) e Polissena dell’Ecuba di Euripide (v. 378). L’eroismo. Secondo il poeta la vita è giustificata dalla luce della bellezza, secondo l’eroe dal premio della gloria dovuto a chi primeggia. Achille e Quinto Metello. La vita eroica degli uomini e delle donne aspira alla gloria: Alcesti

Non bisogna trascurare la componente estetica della civiltà ellenica che si distingue dalle altre anche per il culto della bellezza; secondo Nietzsche i Greci hanno vinto l'orrore del caos e rovesciato la triste sapienza silenica, la quale rifiuta la vita, attraverso la giustificazione estetica dell'esistenza umana, creata dall’arte: "Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l'avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi, fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz'altro immaginarlo così, che dall'originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell'impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l'ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli… Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi-la sola teodicea soddisfacente! L'esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe dire, invertendo la saggezza silenica, " la cosa peggiore di tutte è per essi morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno". Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l'avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie[1], per il tramonto dell'età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come un lavoratore a giornata[2]. Nello stadio apollineo la "volontà" desidera quest'esistenza così impetuosamente, l'uomo omerico si sente con essa così unificato, che perfino il lamento si trasforma in un inno in sua lode"[3].
“ Si tratta di un ideale greco, che sembrerebbe a tutta prima aver poco a che fare con l’Antico e il Nuovo Testamento. Tuttavia, la bellezza si era insinuata nella Bibbia ebraica non appena questa era stata trasportata in greco: laddove la Genesi originale proclamava che Dio vide la luce poi ogni parte della Creazione essere cosa buona (tob), i Settanta traducevano “bella” (kalovn) ”[4].
La giustificazione della vita attraverso la poesia si coglie in questa dichiarazione d'amore che Euripide, nell'Eracle[5], attraverso "il cantuccio" del coro, rivolge a Grazie e Muse le quali allattano[6] i poeti con i succhi della bellezza: "non cesserò mai di unire/le Grazie alle Muse, /dolcissima unione. /Che io non viva senza la Poesia/ma sia sempre tra le corone. /Ancora vecchio l'aedo /fa risuonare la Memoria" (vv. 673-679).

La bellezza, lo stile bello e fine, dunque giustificano e autorizzano la vita, e la loro mancanza tolgono la volontà di vivere. Questo afferma nell'Aiace di Sofocle il Telamonio prima di suicidarsi per non sopravvivere alla degradazione: "ajll j h] kalw'" zh'n h] kalw'" teqnhkevnai- to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve vivere con stile, o con stile morire. (vv. 479-480). Quando si vive fuori dal bello insomma la morte può essere una liberazione. E’ quanto afferma anche il quarto dei Gimnosofisti indiani cui Alessandro Magno aveva fatto domandare perché avesse indotto Sabba alla rivolta: “ajpekrivnato kalw'~ zh'n boulovmeno~ aujto;n h] kalw'~ ajpoqanei'n[7], volendo, rispose, che quello nobilmente vivesse o nobilmente morisse.
 La bellezza e la dignità della morte vengono anteposte alla degradazione della vita da Cleopatra, l'ultima dei Tolomei: lo capisce l'ancella Carmione la quale, al soldato che, vedendo il cadavere della regina, le ha domandato: "kala; tau'ta Cavrmion ;" è bello questo?, risponde con il suo ultimo fiato: "kavllista me;n ou\n kai; prevponta th'/ tosouvtwn ajpogovnw/ basilevwn" (Plutarco, Vita di Antonio, 85, 8), è bellissimo e si confà a una donna che discende da re tanto grandi. Lo stesso personaggio dell'Antonio e Cleopatra di Shakespeare, all'ottuso guardiano (First Guard) che le ha posto la medesima domanda retorica (Charmian, is this well done?), replica: "It is well done, and fitting for a princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier! (5, 2) ", è ben fatto e adatto a una sovrana discesa da tanti nobili re. Ah soldato!
Lo stesso Orazio che pure esulta per la sconfitta e la morte della nemica del suo augusto committente, deve riconoscere il coraggio di questa donna nelle tre strofe[8] conclusive dell'Ode I, 37: " Fatale monstrum: quae generosius/perire quarens nec muliebriter/expavit ensem nec latentis classe cita reparavit oras, / Ausa et iacentem visere regiam/vultu sereno, fortis, et asperas/tractare serpentes, ut atrum/corpore combiberet venenum, // Deliberata morte, ferocior: /saevis Liburnis scilicet invidens/privata deduci superbo, /non humilis mulier, triumpho" (vv. 25-32), il mostro del destino; ella che cercando una morte più nobile, non ebbe, da donna, paura della spada, né con la flotta veloce cercò in cambio lidi nascosti, osando anzi osservare la reggia prostrata con sguardo sereno, e con coraggio, maneggiare i serpenti feroci, per bere il nero veleno con il corpo, più fiera dopo avere deciso la morte: rifiutando evidentemente alle crudeli imbarcazioni liburniche di essere trascinata, come una qualunque, dietro al superbo trionfo, lei donna non ordinaria.

L'aspirazione a una vita egregia dunque fa parte del carattere nobile degli uomini e delle donne. Antigone non cede alle obiezione dettate dal buon senso di Ismene, anzi replica: " io non soffrirò/nulla di così grave da non morire nella bellezza" (w{ste mh; ouj kalw'" qanei'n, Antigone, vv. 96-97).
Neottolemo, il figlio schietto dello schietto Achille, svaluta il
sumfevron (utile) e apprezza il kalovn (bello, e bello morale) contrapponendosi al subdolo Odisseo del Filottete: " bouvlomai d', a[nax, kalw'"-drw'n ejxamartei'n ma'llon h] nika'n kakw'" " (vv. 94-95), preferisco, sire, fallire agendo con nobiltà che avere successo nella volgarità.
Pasolini intervistato da Enzo Biagi in una trasmissione televisione (del 1971) con la classe frequentata al Galvani (c’erano SergioTelmon, Agostino Bignardi e altri compagni di scuola)
Disse che successo non è un bene, anzi è l’altra faccia della persecuzione:
"Ecco che cos'è il successo: una vita mistificata dagli altri, che torna mistificata a te, e finisce col trasformarti veramente"[9].
L'ambiguo splendore del successo in effetti non poche volte provoca l' accecamento.

La principessa troiana Polissena nella tragedia Ecuba di Euripide dice alla madre: per chi non è abituato a mali oltraggiosi è meglio morire: "to; ga;r zh'n mh; kalw'" mevga" povno"" (v. 378), infatti vivere senza bellezza è un grande tormento.
La volontà di vita viene motivata e intensificata non solo dalla bellezza ma anche dall'eroismo che dà gloria, e, se Achille da morto vorrebbe essere vivo, pure a costo di essere un servo di campagna (ejpavrouro", Odissea, XI, 489) al soldo di un indigente, poiché la vita è il valore più alto, durante la vita aveva recepito l'insegnamento che gli eroi davano ai figli: "aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn"[10], primeggiare sempre ed essere egregio tra gli altri.
Abbiamo già detto (cap. 53) che Peleo auspica due primati per il figlio: innanzitutto quello nella parola, poi quello nell'azione. L’eroe in cambio del rischio che corre vuole onore in vita e gloria immortale.
Vediamone una ricaduta latina dove però è l'azione che precede la parola: Quinto Metello nella laudatio funebris tenuta nel 221 a. C. in memoria del padre Lucio mette in evidenza le dieci qualità più grandi e più belle del morto; ebbene le prime due ricordate sono che Lucio Metello fu primarium bellatorem e optimum oratorem, combattente di prim'ordine e ottimo oratore. Il testo scritto ci è stato tramandato da Plinio il Vecchio[11] nella Naturalis historia (VII, 139).
 Se una vita felice è impossibile non lo è quella eroica: “Una vita felice è impossibile: il massimo che l’uomo può raggiungere è una vita eroica. Conduce questa vita colui che, in una maniera o per un motivo qualsiasi, combatte per ciò che in qualche modo giova a tutti, contro le più grandi difficoltà e alla fine vince, ma nel fare ciò è male, o niente affatto, ricompensato”[12]. La Vita eroica tende alla gloria.
Nel Simposio Platone fa dire a Diotima che Alcesti, Achille e Codro hanno dato la vita, non tanto per gli amati e la patria, quanto convinti che immortale sarebbe stata la fama della loro virtù ("ajqavnaton mnhvmhn ajreth'" pevri eJautw'n e[sesqai", 208d). Tutti fanno ogni cosa per la virtù immortale e tale rinomanza gloriosa ("uJpe;r ajreth'" ajqanavtou kai; toiauvth" dovxh" eujkleou'""). In effetti il coro dell'Alcesti di Euripide elogia l'eroina morente con queste parole: " i[stw nun eujklehv" ge katqanoumevnh-gunhv t j ajrivsth tw'n uJf j hjlivw/ makrw'/" (Alcesti, vv. 150-151), sappia dunque che morrà gloriosa/di gran lunga la migliore delle donne sotto il sole. Una gloria che la stessa moribonda rivendica, biasimando i genitori di Admeto ("oJ fuvsa" chJ tekou'sa", v. 290), poiché hanno lasciato perdere l'occasione di salvare nobilmente il figlio e morire con gloria ("kalw'" de; sw'sai pai'da keujklew'" qanei'n", v. 292). “Alcesti è “fida” come lo sono in battaglia i compagni pronti a morire per il capo. La scala dei valori è quella eroica della tradizione aristocratica”[13]
Il modello dell'uomo eroico avido di primato e di gloria pervade tutta la cultura greca e il prototipo è Achille. Alessandro Magno lo ha imitato e venerato. Secondo Jaeger questa aspirazione alla gloria e alla perfezione della virtù viene intesa da Aristotele "quale emanazione d'un amor di sé elettissimo, la filautiva". L'espressione si trova nell'Etica Nicomachea che séguita con questo brano: "Invero vivere breve tempo in somma gioia sarà preferito, da chi sia animato da tale amor di sé, ad una lunga esistenza in pigra quiete. Egli vivrà piuttosto un anno solo per uno scopo elevato, che non condurre una lunga vita per nulla. Compirà piuttosto un'unica magnifica e grande azione, che non molte insignificanti"[14]. L'autore di Paideia conclude così: "In queste parole è espressa la fondamentale concezione della vita dei Greci, nella quale ci sentiamo loro affini d'indole e di razza: l'eroismo"[15].


Amiamo il bello con semplicità. Tucidide. Paideia è formazione (Bildung) non solo scolastica ma anche politica dell’individuo. Marco Lodoli: la semplicità è complessità risolta, non facilità. Gončarov: la semplicità significa intelligenza ed è differente dall’astuzia. Ezra Pound e l’America. Plutarco: Solone e la meschinità di Creso. Luciano (Come si deve scrivere la storia) e l’ajpeirokaliva che induce alla micrologica ciancia. Nigrino e il cattivo gusto degli arricchiti romani che sfoggiano porpore e anelli. Bertolt Brecht: la semplicità difficile a farsi. Euripide: Polinice nelle Fenicie (semplicità e verità), Achille nell’ Ifigenia in Aulide (semplicità e pietà). Winckelmann: la nobile semplicità e la quieta grandezza dei capolavori greci. Leopardi: la semplicità è naturalezza, mancanza di affettazione. Schopenhauer: contro i vuoti ghirigori della filosofia hegeliana. Lucrezio e gli stolidi che ammirano le parole contorte. Cicerone: quae sunt recta et simplicia laudantur. Orazio: simplex munditiis. Marziale (prudens simplicitas) e il Nuovo Testamento (prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae). Ancora Tucidide: la semplicità è il nutrimento dell’anima nobile che viene derisa dalla volgarità della guerra civile. Nietzsche: il desiderio della semplicità inattuale

Può essere vero quello che afferma Pound[16]: "Beauty is difficult ", la bellezza è difficile[17], ma c'è un mezzo per rendere pervie le vie erte e arte che ci portano alla vetta del Bello: questo va coniugato con la semplicità, come dice in sintesi il Pericle di Tucidide: "filokalou'mevn te ga;r met j eujteleiva[18] kai; filosofou'men a[neu malakiva"" (Storie, II, 40, 1) in effetti amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza. Il filosofei'n di Tucidide non è la filosofia di Platone ma quella cultura generale che verrà insegnata nella scuola di Isocrate[19], quella paideia che insegna soprattutto l'uso corretto, efficace, persuasivo della parola.
 Paideia si può identificare, in un certo senso, con formazione politica: “ Uso questo termine non nel suo senso contemporaneo di istruzione scolastica formale ma nel senso antiquato, nell’antico senso greco: per paideia i greci intendevano l’educazione, la “formazione” (la Bildung tedesca), lo sviluppo delle virtù morali, il senso della responsabilità civica, della cosciente identificazione con la comunità, i suoi valori e le sue tradizioni”[20].
La semplicità però non è rozzezza, anzi è una complessità risolta e non si deve confondere con la facilità la quale "invece è una truffa che rischia di impoverire tragicamente i nostri giorni…La nostra cultura ormai scansa ogni sentore di fatica, ogni peso, ogni difficoltà: abbiamo esaltato il trash e il pulp…abbiamo accettato che le televisioni venissero invase da gente che imbarcava applausi senza essere capace a fare nulla; abbiamo accolto con entusiasmo ogni sbraitante analfabeta, ogni ridicolo chiacchierone, ogni comico da quattro soldi, ogni patetica "bonazza"… la Facilità ormai ha dissolto tante capacità intellettuali e manuali, e si parla a vanvera perché così abbiamo sentito fare ogni sera, si pensa e si vive a casaccio perché così fanno tutti"[21].
La semplicità significa intelligenza che è differente dall’astuzia.
“All’astuzia ricorrono soltanto le donne di intelligenza più o meno angusta. In mancanza di vera intelligenza, per mezzo dell’astuzia, esse manovrano le molle della minuta vita quotidiana, intrecciano, come un ricamo, la loro politica familiare, perdendo di vista come si dispongono le principali linee della vita, in quale direzione si orientino e in che punto si incontrino. L’astuzia è una moneta spicciola, con la quale non si può comprare gran che. Come, con moneta spicciola, si può vivere un’ora o due, così con l’astuzia si può nascondere qualche cosa, ingannare qui, alterare il vero là; ma l’astuzia non basta mai ad abbracciare un orizzonte vasto, a comprendere un evento serio e importante. L’astuzia è miope: vede bene soltanto ciò che ha sotto il naso, ma non vede lontano e perciò, spesso, finisce per cadere nella trappola che essa stessa ha teso. Olga era semplicemente intelligente: come aveva risolto con semplicità e chiarezza quello d’oggi, così avrebbe risolto qualunque altro problema. Ella vedeva subito il significato reale di un avvenimento e l’affrontava immediatamente per la via più breve”[22].
Leopardi avverte che la semplicità viene fraintesa dagli imbecilli: “E’ curioso vedere, che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito. (Firenze, 31 Maggio 1831) ”[23].

Ancora Pound: "The thought of what America would be like/if the Classics had a wide circulation/troubles my sleep "[24], il pensiero di come sarebbe l'America, se i Classici circolassero di più, mi turba il sonno. Ci sarebbe, se non altro, meno cattivo gusto.
Plutarco nella Vita di Solone racconta che il saggio legislatore ateniese disprezzava la ajpeirokaliva, l'ignoranza del bello e la mikroprevpeia (27, 20), la meschinità del re che si era presentato coperto di gioielli e d'oro. Luciano in Come si deve scrivere la storia [25] fa questa osservazione: " Vi sono alcuni che trascurano completamente, o appena sfiorano, fatti grandi (ta; megavla) e invece, per rozzezza (uJpo; de; ijdiwteiva"), mancanza di gusto (ajpeirokaliva"), e ignoranza (kai; ajgnoiva") di quello che va detto o quello che va taciuto, si attardano a descrivere nei minimi dettagli le cose più trascurabili (ta; mikrovtata, 27).
L’ajpeirokaliva è lo stesso difetto che il filosofo Nigrino di Luciano attribuisce ai ricchi romani i quali si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro cattivo gusto: "pw'" ga;r ouj geloi'oi me;n oiJ ploutou'nte" aujtoi; ta;" porfurivda" profaivnonte" kai; tou;" daktuvlou" proteivnonte" kai; pollh;n kathgorou'nte" ajpeirokalivan;” (Nigrino, 21), come fanno a non essere ridicoli i ricchi con le loro stesse persone dal momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita delle mani, denunciano il loro cattivo gusto?

 Dopo il poeta “fascista” spiegato con Plutarco e Luciano, sentiamo Brecht che fa l’elogio del comunismo e della semplicità: “ E’ ragionevole, chiunque lo capisce. E’ facile…Non è il caos ma/l’ordine, invece. /E’ la semplicità/che è difficile a farsi”[26]. La semplicità non è difficile: ci si arriva con la naturalezza, il buon gusto e l’onestà.

Nelle Fenicie[27] di Euripide, Polinice afferma la parentela della semplicità con la giustizia e con la verità: "aJplou'" oJ mu'qo" th'" ajlhqeiva"[28] e[fu, -kouj poikivlwn[29] dei' ta[ndic' eJrmhneuavtwn" (vv. 469-470), il discorso della verità è semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate. Invece l' a[diko" lovgo", il discorso ingiusto, siccome è malato dentro, ha bisogno di artifici scaltri: "nosw'n ejn auJtw'/ farmavkwn dei'tai sofw'n" (v. 472).
Chirone, dikaiovtato" Kentauvrwn[30], il più giusto dei Centauri, "nodrì Achille"[31] insegnandogli quella naturalezza e semplicità di costumi che è la quintessenza dell'educazione nobile. Il figlio di Peleo nell'Ifigenia in Aulide riconosce tale alta paideia all'uomo piissimo che l'ha allevato insegnandogli ad avere semplici i costumi: "ejgw; d j, ejn ajndro;" eujsebestavtou trafei;"-Ceivrwno", e[maqon tou;" trovpou" aJplou'" e[cein" (vv. 926-927).
In tal modo il figlio di Peleo si abituò a scartare gli usi degli uomini malvagi (v. 709).
Sulla semplicità dei Greci si è espresso come è noto J. J. Winckelmann: " Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci[32] è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell'espressione…la nobile semplicità e la quieta grandezza delle statue greche costituiscono il vero segno caratteristico degli scritti greci dei tempi migliori…"[33].
Questa formula, già esistente, con l'archeologo tedesco prese nuovo vigore: "Così, quando Winckelmann predicava dell'arte greca la edle Einfalt und stille Grösse, di fatto trascriveva un topos già corrente in Francia; ma la noble simplicité e la grandeur sereine dei Greci celebrate da Fénelon, Du Bos, Mariette, dal giovane Voltaire non avevano mai avuto sui loro lettori un effetto comparabile"[34].
Sentiamo Leopardi che elogia la semplicità e condanna l’affettazione, la quale, come vedremo, ne è l’antitesi: “La semplicità è quasi sempre bellezza sia nelle arti, sia nello stile, sia nel portamento, negli abiti ec. ec. ec. Il buon gusto ama il semplice…La semplicità è bella perché spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si chiama semplice una cosa, non perch’ella sia astrattamente e per se medesima semplice, ma solo perché è naturale, non affettata, non artifiziata, semplice in quanto agli uomini, non a se stessa, e alla natura”[35].
E' pure degna di menzione la polemica di Schopenhauer contro la filosofia (hegeliana) delle università, fatta di "ghirigori che non dicono nulla, e offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più comprensibili"[36].
In latino Lucrezio condanna gli stolti che ammirano e amano quanto rimane nascosto sotto parole contorte: "omnia enim stolidi magis admirantur amantque/inversis quae sub verbis latitantia cernunt " (De rerum natura, I, 641-642), gli stolti ammirano e amano di più tutto ciò che scorgono nascosto sotto parole contorte.
Quindi Cicerone: "quae sunt recta et simplicia laudantur"[37], ricevono lode gli aspetti schietti e semplici.
Orazio rifiuta lo sfarzo che, tipicamente è persiano, nell’Ode I, 38[38]: “ Persicos odi, puer, apparatus…simplici myrto nihil adlabores/sedulus curo” (v. 1 e vv. 5-6), odio, ragazzo, lo sfarzo persiano… non voglio che tu ti affatichi con zelo ad aggiungere alcunché al semplice mirto. E' anche una dichiarazione di poetica siccome "la semplicità del convito è la semplicità dell'arte, che conta molto sulla riduzione dei mezzi espressivi, sull'eliminazione del superfluo e mira ad una classica essenzialità"[39].
Pirra è simplex munditiis, semplice nell'eleganza (Orazio, Ode[40] I, 5, 5).
"Simplex munditiis è un ossimoro, perché i due termini hanno associazioni di significato opposte, la semplicità e la ricercatezza (munditia)... Come ha detto bene Romano, "il concetto classico di semplicità nell'eleganza è scolpito in questo ossimoro che potrebbe essere assunto come motto del programma stilistico di Orazio"[41].
Analogo ossimoro troviamo in Marziale che si augura una prudens simplicitas (10, 47, 7), una semplicità competente.
 La prudenza e la semplicità sono coniugate anche dal Nuovo Testamento: "Ecce ego mitto vos sicut oves in medio luporum; estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae" (Matteo, 10, 16), ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.
Tucidide indica la semplicità come il nutrimento di quell'anima nobile che venne negata dalle guerre civili: a causa di queste ("dia; ta;" stavsei""), fu sancito ogni genere di malizia nel mondo greco e sparì, derisa, la semplicità cui di solito la nobiltà partecipa: "kai; to; eu[hqe", ou| to; gennai'on plei'ston metevcei, katagelasqe;n hjfanivsqh" (III, 83, 1).
In questo contesto la semplicità è “bontà di carattere, bontà d’animo” (eu\ h\qo~).
La semplicità è ancora inattuale: Nietzsche avrebbe desiderato "come educatore un vero filosofo, che…insegnasse di nuovo ad essere, nel pensiero e nella vita, semplice e schietto, quindi inattuale nel senso più profondo della parola; infatti gli uomini oggi sono diventati così molteplici e complicati che debbono diventare insinceri tutte le volte che parlano, sostengono delle opinioni e secondo esse vogliono agire"[42].








[1] Cfr. Iliade, VI, 146: "oi[h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n", proprio quale la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini. (n. d. r.)
[2] Cfr. Odissea, XI, vv. 488-491. (n. d. r.)
[3] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 33.
[4] Piero Boitani, Il Vangelo Secondo Shakespeare, p. 160.
[5] Composta intorno al 415 a. C.
[6] Cfr. Dante, Purgatorio, XXII, 102.
[7] Plutarco, Vita di Alessandro, 64, 6.
[8] Alcaiche
[9] P. P. Pasolini,, dai “Dialoghi con Pasolini” su “Vie Nuove” (1960) in Pasolini saggi sulla politica e sulla società, p. 910.
[10] Iliade, VI, 208,
[11] 24-79 d. C.
[12] F. Niietzsche, Schopenhauer come educatore, p. 197.
[13] G. Aurelio Privitera R. Pretagostini, Storia e forme della letteratura greca, p. 297.
[14]IX, 8, 1169 a 18 sgg.
[15]Paideia, I vol., pp. 46 e 47.
[16] 1885-1972.
[17] Del resto esserne esclusi significa soffrirne la mancanza: "For I am homesick after mine own kind/And ordinary people touch me not/ And I am homesick/after mine own kind that know, and feel/And have some breath for beauty and the arts ", ho nostalgia di gente del mio stampo e la gente dozzinale non mi tocca. Ho nostalgia di gente del mio stampo che conosce e sente e respira il bello e l'arte (E. Pound, Prigioniero, da Personae del 1907).
[18] eujtevleia è’ frugalità, parsimonia, è il basso prezzo facile da pagare (eu\, tevloς) per le cose necessarie, è la bellezza preferita dai veri signori, quelli antichi, e incompresa dagli arricchiti che sfoggiano volgarmente oggetti costosi.
Augusto dava un esempio di frugalità mangiando secundarium panem et pisciculos minutos et caseum bubulum manu pressum et ficos virides (Augusti Vita, 76), pane ordinario, pesciolini, cacio vaccino premuto a mano, e fichi freschi.
 Giorgio Bocca commentò tale abitudine dell’autocrate con queste parole: “Oggi siamo a una tendenza da ultimi giorni di Pompei. Un incanaglimento generale. Forse è il caso di rivolgersi, più che agli uomini di buona volontà, a quelli di buon gusto, forse è il caso di tornare a scrivere sulle buone maniere, sulla buona educazione, sui buoni costumi. L’Augusto più ammirevole è quello che nel Palatino si ciba di fave e di cicoria, da vero padrone del mondo” G. Bocca, Contro il lusso cafone, per motivi morali. Ed estetici, Il venerdì di Repubblica, 27 giugno 2008, p. 11
Senza risalire al 14 d. C., penso alla mia infanzia e alla mia adolescenza, quando, per apprendere e capire, ascoltavo con avidità, alla radio, o anche andando a vederli nella piazza del Popolo di Pesaro, i politici di razza di quel tempo lontano, quali De Gasperi e Togliatti. Imparavo da loro più e meglio che a scuola. In termini di idee, di parole e di stile. Mi è rimasta impressa la frase di De Gasperi, rappresentante dell'Italia vinta: " Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me". 
[19] il quale in A Demonico scrive: "Peirw' tw'/ me;n swvmati ei'jnai filovpono", th'/ de; yuch'/ filovsofo"" (40), cerca di essere amante delle fatiche con il corpo, con l'anima amante della sapienza.
"Non Platone, ma Isocrate si conformava all'uso corrente della lingua... assegnando la parola "filosofia" ad ogni sorta di formazione culturale dell'intelletto, con un senso che, per es., s'incontra anche in Tucidide. Proprio come il Pericle tucidideo (II, 40, 1), egli avrebbe potuto dire che l'aspirazione alla superiore cultura intellettuale (filosofei'n) è la nota distintiva dello stato ateniese nel suo complesso, e qualcosa di simile dice effettivamente nel Panegirico " Jaeger, Paideia., vol. 3, pp. 83-84,.
[20] M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 30.
[21] I miei ragazzi insidiati dal demone della Facilità, Marco Lodoli, in La Repubblica 6 novembre 2002, p. 14.
[22] I. Gončarov, Oblomov, p. 336.
[23] Zibaldone, p. 4523.
[24] Cantico del sole da Quia pauper amavi (1919).
[25]Scritto tra il 163 e il 165 d. C.
[26] B. Brecht, Lode del comunismo (del 1933) vv. 1 e 11-14. Il soggetto è il comunismo.
[27] Composte intorno al 410 a. C.
[28] Seneca cita questo verso traducendolo così: “ut ait ille tragicus ‘veritatis simplex oratio est’, ideoque illam implicari non oportet” (Ep. 49, 12), come dice quel famoso poeta tragico “il linguaggio della verità è semplice”, e perciò non deve essere complicata.
[29] Si ricordi quanto si è detto a proposito della poikiliva (21. 3).
[30] Iliade, XI, 832.
[31] Dante, Inferno, XII, 71.
[32] Viene fatto l’esempio del Laocoonte (Aghesandro, Polidoro, Atanadoro, metà del I sec. a. C. Si trova nei Musei Vaticani): “Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte…Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendinedel corpo…non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento. Il Laocoonte non grida orribilmente come nel canto di Virgilio…Laocoonte soffre; ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest’uomo sublime lo sopporta”. Il verso incriminato di Virgilio è “clamores simul horrendos ad sidera tollit” (Eneide, II, 222), nello stesso tempo lancia grida orrende alle stelle.
[33] J. J. Winckelmann, Pensieri sull'imitazione dell'arte greca (del 1755), p. 29-30 e p. 32.
[34] S. Settis, Futuro del 'classico', p. 48.
[35] Zibaldone, 1411-1412.
[36] Parerga e paralipomena p. 210, vol. I
[37] Cicerone, De officiis, I, 130.
[38] Composta di due strofe saffiche. I primi tre libri delle Odi di Orazio furono pubblicati nel 23 a. C.
[39] A. La Penna (a cura di) Orazio, Le Opere, Antologia, p. 268.
[40] Il metro di questa ode è la strofe asclepiadea quarta.
[41]G. B. Conte, Scriptorium Classicum 3, p. 22.
[42]F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, p. 173

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