sabato 10 marzo 2018

Ifigenia. Il telegramma



Il telegramma

Il giorno seguente, martedì 2 agosto, finite le ore di lezione, tornai in collegio e trovai un telegramma che riattizzò la bruciante manìa e mi spinse di nuovo nelle reti inestricabili della giovane, fiorente donna italiana.
Avevo i pensieri stravolti e pure l’aspetto, come la sera lontana del luglio del 1966, quando arrivai a Debrecen per la prima volta.
Ma quella mattina di agosto, tredici anni e venti giorni più tardi, lo stravolgimento volgeva la mia persona cangiante al lato più bello.
Con l’anima e la mente in tumulto, lessi queste parole:
“Ti amo. Mi manchi. Mi fido. Fidati. Zazzì. Un bacio. Tua Ifigenia. Aspetta mio espresso. Ifigenia”.
Zazzì nel nostro gergo di coppia significava quello che tu immagini già, malizioso lettore: ho una voglia bestiale di fare l’amore con te: almeno tre volte. Che poi negli otto mesi precedenti era solo la sufficienza.

Misi in tasca il foglio verde e andai a camminare nell’orto botanico dove il destino mi aveva più volte indicato con dito diritto i suoi decreti e il prosieguo del mio tortuoso, accidentato cammino. Ma in quel momento non vedevo ostacoli né vie oscure, erte o arte: nulla di inameno turbava la gioia che mi aveva inondato. Il luogo era tutto sacro e pieno di dèi.  
Tutta la multiforme vegetazione era viva e luminosa: ogni pianta, ogni cespuglio, ogni fiore e filo di erba mi parlava di amore, di felicità, di poesia; lo Jiuniperus communis, una specie di edera, aveva qualcosa di antico, misterioso e fatato: volevo incoronarmene come facevano le baccanti durante le sante orge in onore di Dioniso. Sulla strada al di là della rete passavano alcuni dei “simpatici burattini” menzionati da Cornelia la sera prima. Li salutai con la mano e mormorai: “stefanou'sqe kissw'/[1].
Danilo, mezzo morto di sete, contraccambiò il saluto: mi lanciò uno sguardo desolato mentre capovolgeva una bottiglia di sangue di toro già vuota. Disse che stava andando a ricaricarla, cara da Dio!
Ezio a sua volta mosse il piede rapido, a balzi, come una menade[2]. Il dio Dioniso mi stava approvando.

Passati gli amici bizzarri, tornai a osservare le piante strane: la tunica saxifragata aveva qualcosa di carneo e voluttuoso: l’accarezzai come fosse stata una mano di Ifigenia. Avrei voluto pure baciarla, ma passarono due anziani signori, probabilmente docenti della Nyári Egyetem e, vedendomi inginocchiato, uno dei due disse all’altro: “guarda quell’uomo pieno di alcol, ed è appena mezzogiorno! Vergogna!”
In effetti avevo gli occhi velati di lacrime. Quando i due accigliati Catoni furono passati, mi stesi a terra e gridai: “ecco io mi prostro, Ifigenia, al suolo” [3].
Quindi mi rovesciai e, da resupino, alzai gli occhi all’alta chioma di una quercus robur antica e maestosa come quella sacra di Dodona sorvolata da colombe profetiche: le sue fronde, sonore al vento quasi fresco mi sembrarono preannunciare un altro autunno di gioia con la mia baccante splendidissima e santa. Promisi che sarei arrivato in bicicletta all’antichissimo oracolo. Avrei sciolto quel voto dodici anni più tardi, osservando i voli degli alati diretti da Dio e interpretandoli per decifrare la direzione del “grande” amore di turno.
Ma quel 2 agosto pensavo: “Tu sei la donna migliore dell’universo. Il poco male che c’è stato tra noi, sparirà, il tanto bene rimarrà eternamente vivo su questa terra. Creatura mia, figlia, amante, madre, sorella, ti amo come amo la vita da quando tu mi hai donato la tua”
Non avevo fame siccome ero pieno di gioia e andai in piscina per digerirla e assimilarla tutta.

giovanni ghiselli


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[1] Euripide, Baccanti, 106, incoronatevi con l’edera
[2] Cfr. Euripide, Baccanti, 166
[3] Cfr.Lleopardi, All’Italia, 127-128

1 commento:

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