sabato 14 luglio 2018

Edipo a Colono. Parte 2. FINE

Jean-Antoine Theodore Giroust, Edipo en Colonos


Un' espressione di umanesimo è quella che il vecchio Sofocle attribuisce a Teseo nell'Edipo a Colono: "e[xoid j ajnh;r w[n"(v.567), so di essere un uomo. E' la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile. Il sapere di essere uomo che cosa comporta? Significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo vecchio, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande: "kaiv s j oijktivsa"-qevlw &perevsqai[1], duvsmor& Oijdivpou, tivna-povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou' t& e[cwn", vv. 556-558, e sentendo compassione, voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui. Poi significa ascoltare e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte. "Anche io-dice il re di Atene al mendicante cieco-sono stato allevato fuggiasco come te"(vv.562-563)."Dunque so di essere uomo e che del domani nulla appartiene più a me che a te"(vv. 567-568).
“Teseo arriva ben disposto verso Edipo, di cui conosce la sorte e compiange la miseria-in questo modo connotandosi sin dall’inizio come il rappresentante dei valori civili (pietà, benevolenza verso lo straniero, accoglimento delle suppliche), tipicamente ateniesi, in contrapposizione con la feroce Tebe, che non rinuncia a perseguitare Edipo anche in esilio, ed è espressione di crudeltà e inciviltà, come appare dai suoi rappresentanti, Creonte e Polinice, che compariranno successivamente sulla scena”[2].-
cfr. Edipo a Colono: “qeoi; ga;r eu\ me;n, ojye; d j eijsorw`s j ” (v. 1536), gli dèi vedono bene, ma tardi.“E’ un tema tradizionale della teodicea greca: gli dèi vedono tardi ma vedono bene. Il motivo era presente in Euripide (Bacch. 882 sgg.; ved. anche Sesto Empirico, adv. Math I 287 “i mulini degli dèi macinano tardi (ojyev) ma macinano bene”. L’idea che sta alla base di questa riflessione è che il tempo degli dèi è diverso fa quello degli uomini, e che il loro operare risponde alla legge dell’infallibile inesorabilità, non dell’istaneità della punizione: questo motivo teologico arcaico è ripreso e ampiamente sviluppato nel de sera numinis uindicta di Plutarco (549d)”[3].-
nell’Edipo a Colono è Antigone che suggerisce al padre di attenersi all’uso dei cittadini: “ajstoi`~ i[sa crh; meleta`n” (v. 171), in maniera forse sorprendente rispetto alla protagonista del dramma Antigone.

“Questi versi costituiscono una sorta di “a parte” tra Edipo e Antigone. E’ quasi sorprendente trovarsi in questo caso davanti a un’Antigone conformista, nel suo predicare la necessità di adeguarsi alla morale comune (per una massima di questo genere ved. Euripide, Bacch. 890-3…”non bisogna cercare o praticare nulla che vada al di là delle leggi”). Sofocle vuole presentare un’altra sfaccettatura del personaggio…Sofocle sceglie quindi di fare di Antigone nell’Edipo a Colono non l’inflessibile portatrice di valori assoluti dell’Antigone, ma la mediatrice, un ruolo che assumerà anche in seguito (vv. 1181-203), quando otterrà con le sue preghiere che Edipo riceva l’aborrito figlio Polinice.
Guidorizzi commenta il silenzio (siwphv, Edipo a Colono, v. 1623) nel quale Sofocle fa risuonare e risaltare la voce del dio che chiama Edipo: “La voce divina non può essere inquinata dal lamento funebre, che si colloca nella sfera della morte. C’è bisogno di una pausa di silenzio, un silenzio sacro in cui tutto tace e si manifesta una presenza sovrannaturale, che fa sobbalzare di religioso terrore tutti i presenti, a cui si rizzano in testa i capelli. E’ la stessa situazione, al contempo psicologica e rituale, descritta in Euripide, Andr. 1147 quando una voce si leva dall’interno del tempio delfico di Apollo, poco prima che gli abitanti di Delfi aggrediscano Neottolemo: ti~ ajduvtwn ejk mevswn ejfqevgxato deinovn ti kai; frikw`de~, “qualcuno parlò dai recessi del tempio con voce terribile, che faceva rabbrividire”; in Bacch. 1084 Dioniso parla dal cielo alle Baccanti nel silenzio del monte. In questi casi, la presenza divina che si manifesta con le parole mantiene un contorno indistinto (specifico è l’uso del pronome indefinito ti~), anche se si può intuire chi sia la divinità che parla (Apollo nell’Andromaca, Dioniso nelle Baccanti). Il favete linguis crea uno spazio rituale in cui il sacro fa irruzione nello spazio umano e la voce del dio può in questo silenzio essere intesa”[4].-
L’odio tra Tebani e Ateniesi è riscontrabile in diverse tragedie: in primis l’Edipo a Colono di Sofocle e le Baccanti di Euripide che raffigurano una città malata, un paese guasto.
“Dopo la battaglia di Egospotami il tebano Erianto avrebbe persino proposto di radere al suolo Atene (Plutarco, Lys. 15)”[5].
Plutarco racconta che il tebano Erianto suggerì di radere al suolo la città e abbandonare la campagna come pascolo alle pecore Ma Euripide, che pure era già morto da un paio di anni, salvò Atene; durante un convito un focese cantò alcuni versi della parodo dell’Elettra (167ss. “Figlia di Agamennone, sono giunta nella tua rustica casa”). A sentire questa poesia tutti i comandanti si intenerirono e sembrò troppo crudele distruggere una città così illustre che produceva uomini tanto grandi.

FINE




[1]ejperevsqai: infinito aoristo di ejpeivromai, domando.
[2] Avezzù-guidorizzi, Edipo a Colono, p. 272.
[3] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 365
[4] Guido Avezzù, a cura di, Sofocle Edipo a Colono, p. 377.
[5] Avezzù Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 319.

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