Il console Flaminio, da Arezzo si dirige a sud, verso Cortona, mentre Annibale mette a sacco l’Etruria, quindi abbandona la via di Roma e si sposta a est, verso Perugia. Flaminio lo segue. Nel giugno del 217 c’è la battaglia del Trasimeno dove il console Flaminio viene sconfitto e perde la vita. Annibale fa molti prigionieri, ma poi libera gli alleati dei Romani per significare che è venuto a emancipare l’Italia. Polibio dice che Annibale sapeva che Flaminio era un demagogo perfetto (teleiovn, III, 80, 3) ma un incapace come stratego e lo provocò a inseguirlo in luoghi a lui sfavorevoli. Infatti il console temeva per la propria reputazione se l’Etruria veniva devastata. Il comandante militare deve capire i punti deboli del carattere del nemico pou' th'~ yuch'~ eujceivrwtovn ti parafaivnetai (III, 81, 3), vedere dove si presenta una parte della psiche facile da sottomettere.
C’è quello che ha la passione del vino, un altro è soggetto alla lussuria. Flaminio dunque si lascia provocare e non aspetta il collega Servilio. Annibale, avanzando tra Cortona e il Trasimeno, bruciava il paese per esasperare Flaminio.
All’inizio della primavera in Italia c’erano stati altri prodigi: ad Arpi si era visto il sole combattere nel cielo con la luna; a Cere erano sgorgate acque miste di sangue, ad Anzio i mietitori avevano trovato spighe sporche di sangue nella cesta, a Roma sudavano le statue. Una gallina era diventata maschio e un maschio femmina ( gallinam in marem, gallum in feminam sese verrtisse Livio, 22, 1).
Più avanto Livio racconta che tale metamorfosi riguardò anche molti umani
I Baccanali. Una prava religio, religione depravata.
Secondo Tito Livio la religio seguita da Camillo è santa, mentre sono turpi i Baccanali venuti a Roma dall’Etruria attraverso la mediazione di un Graecus ignobilis (39, 8). “Huius mali labes ex Etruria Romam veluti contagione morbi penetravit.” (39, 9), la vergogna di questo male penetrò a Roma dall’Etruria come per il contagio di un morbo.
Nel 186 a. C. il console Postumio fece un’indagine e la schiava Ispala rivelò che si trattava di riunioni notturne promiscue: “nihil ibi facinoris, nihil flagitii praetermissum. Plura virorum inter sese quam feminarum esse stupra. Si qui minus patientes dedecoris sint et pigriores ad facinus pro victimis immolari. Nihil nefas ducere, hanc summam inter eos religionem esse” (39, 13), nessun misfatto, nessuna turpitudine lì erano omessi. I connubi vergognosi tra maschi erano più frequenti che con le donne. Se alcuni erano meno meno disposti a subire il disonore ed erano troppo restii ai misfatti venivano sacrificati come vittime. La perfetta iniziazione era non considerare nulla come illecito.
Il console Postumio riferì in senato e i senatori affidarono ai consoli “quaestionem deinde de Bacchanalibus sacrisque nocturnis extra ordinem” (39, 14), l’inchiesta sui Baccanali e i riti notturni con mandato straordinario.
Quindi Postumio convocò l’assemblea popolare e, salito sulla tribuna (rostrum) informò il popolo. Disse che gli strepiti e gli ululati notturni avevano già fatto avvertire il fenomeno diffuso in tutta Italia ma ancora non ne era conosciuta la turpitudine: “Primum igitur mulierum magna pars est, et is fons mali huiusce fuit; deinde simillimi feminis mares stuprati et constupratores fanatici, vigiliis, vino, strepitibus clamoribusque nocturnis attoniti” (39, 15), dapprima dunque la parte grande la fanno le donne, e tale è la fonte di questo male; poi maschi del tutto simili alla femmine, violentati e violentatori invasati, intontiti dalle veglie, dal vino, dalle urla e dai clamori notturni.
Anche in questo caso fa parte dell’ u{bri" la negazione del principium individuationis: i maschi non si distinguono più dalle femmine.
C’è la confusione e il venir meno del principium individuationis, delle identità. Annibale marciando verso Arezzo, fra le paludi dell’Arno perse un occhio sebbene si trovasse sopra l’unico elefante rimasto vivo (Surus). Comunque devastava la regione tra Fiesole e Arezzo, una delle più fertili d’Italia. Flaminio si sentiva umiliato, e Annibale lo provocava ad assecondare i suoi difetti: “quoque pronior esset in vitia sua, agitare eum atque inritare Poenus parat” (22, 3). Intanto si dirigeva verso Fiesole. Flaminio che si trovava ad Arezzo, non aspetta il collega e balza a cavallo per andare incontro ad Annibale, ma il cavallo cade e fa cadere il console. Era un foedum omen che spaventò la truppa. Un altro brutto segno fu l’annunzio di un’insegna che non si lasciava divellere dal signifero. A chi portò l’annunzio, Flaminio gridò: “num litteras quoque, inquit, ab Senatu adfers, quae me rem gerere vetant? Abi; nuntia effodiant signum, si ad convellendum manus prae metu obturpuerit” (22, 3), forse mi porti anche lettere del senato che mi vietano di combattere? Vai a dire che scavino linsegna con le mani intorpidite dalla paura,
I comandanti erano sbigottiti, ma la truppa fu lieta ferociā ducis.
La battaglia del Trasimeno fu caotica: senza individuazione: “non illa ordinata per principes hastatosque ac triarios (22, 5) e non c’erano gli antesignani davanti alle insegne. Né i soldati osservavano gli ordini di legioni, coorti, manipoli: fors conglǒbat , il caso li ammassa, ed erano tanto confusi che non si accorsero del terremoto qui multarum urbium Italiae magnas partes prostravit, avertitque cursu rapidos amnes, mare fluminibus invexit, montes ingenti lapsu prorǔit, fece entrare il mare nei fiumi e abbattè i monti con immensa rovina Inoltre c’era la nebbia.
A Roma il pretore Marco Pomponio disse : “pugna magna-inquit-victi sumus” (22, 7) . Particolarmente visibili erano le manifestazioni delle donne liete per gli scampati e delle disperate per i caduti: “Feminarum praecipue et gaudia insignia erant et luctus” (22, 7): una morì di gioia abbracciando il figlio insperatamente tornato.
Polibio III 84 racconta che la battaglia avvenne in una giornata inusualmente nebbiosa (ou[sh~ de; th'~ hJmevra~ ojmiclwvdou~ diaferovntw~, III, 84, 1-ojmivclh= nebbia)). Flaminio venne ucciso da un gruppo di Celti. Secondo Livio fu l’Insubro Ducario (22, 6, 3) ad ammazzarlo: “Hic est-inquit popularibus suis- qui legiones nostras cecīdit agrosque et urbem est depopulatus! Iam ego hanc victimam Manibus peremptorum foede civium dabo!”. Polibio dice che nel vallone dell’agguato caddero quindicimila romani. Non fuggirono perché non potevano e anche perché ritenevano importantissimo non fuggire e non abbandonare la schiera peri; pleivstou poiouvmenoi to; mh; feuvgein mhde; leivpein ta;~ tavxei~ (II; 84, 7). Molti vennero spinti dentro il lago e vi morirono annegati. Alcuni cavalieri cercarono di arrendersi ma vennero uccisi, altri si ammazzarono tra loro. Altri fuggirono in un villaggio etrusco dove furono catturati da Maarbale. Annibale distribuì i prigionieri romani tra i vari reparti del suo esercito, mentre lasciò liberi senza riscatto gli alleati, ripetendo quanto aveva già detto: che era lì polhmhvswn oujk ijtaliwvtai~, ajlla;; JRomaivoi~ uJpe;r th'~ ijtaliwtw'n ejleuqeriva~ (II, 85, 4) per combattere non contro gli italici bensì contro i Romani per la libertà degli italici . Perdette solo 1500 uomini, quasi tutti Celti. A Roma il pretore disse dai rostri (tribune degli oratori adorne dei rostri sottratti alle navi degli Anziati nel 338): leipovmeqa mavch/ megavlh/ (III, 85, 8) siamo stati sconfitti in una grande battaglia. I Romani rimasero costernati poiché non erano abituati a perdere. Il Senato tuttavia restò fermo nella opportuna lucidità (suvgklhto~ ejpi; tou' kaqhvkonto~ e[mene logismou' , 10) pensavano a come ciascuno avrebbe dovuto agire la prossima volta.
E’ così che si deve fare cari lettori, ve lo raccomando
Bologna 8 febbraio 2025 ore 10, 42 giovanni ghiselli.
p. s.
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