lunedì 3 febbraio 2025

Introduzione alla tragedia greca. Parte nona. L’Estetica di Hegel.


 

Prima di passare ai singoli autori, voglio riferire in estrema sintesi, commentare e chiarire con esempi, il succo di quanto si legge nell'Estetica  di Hegel sul dramma antico. Si tratta di uno scritto uscito nel 1838, dopo la morte del filosofo, e ricavato da appunti  e  lezioni tenute a Heidelberg e a Berlino negli anni tra il 1817 e il 1829.

Il dramma dunque costituisce “la fase suprema della poesia e dell'arte”, siccome “riunisce in sé l'oggettività dell'epos con il principio soggettivo della lirica”[1]. 

Per chiarire il significato dell'oggettività del poema epico, quale l'Iliade , si può dire che esso rappresenta spesso lo spirito originario di una nazione che mette alla prova se stessa attraverso una guerra. Hegel nella parte dedicata all'epica sostiene che"la poesia drammatica degli indiani o le tragedie di Sofocle non ci danno un'immagine così totale come il Ramayana  ed il Mahabharata oppure l'Iliade  e l'Odissea " (p. 1383).

L'epos dunque costituisce il fondamento della coscienza di un popolo che viene rappresentato in collisione con un altro popolo, di altra cultura. Anche nel dramma c'è lo scontro, ma al suo centro il più delle volte vediamo un individuo che lotta con un antagonista, o con delle situazioni, o con il destino.

In vero Eschilo nei Persiani rappresenta una guerra tra due popoli, due regimi diversi e due culture differenti; nelle Eumenidi fa prevalere il patriarcato sul matriarcato.

Sofocle nei suoi drammi contrasta da sofistica di moda con l’uomo misura di tutte le cose asserito da Protagora.

Euripide che pure dà maggiore spazio ai contrasti famigliari e tra i sessi, non manca di mostrare lotte politiche  e pure militari  prendendo e motivando anche posizioni sue.

 Nei Persiani [2] di Eschilo chiarisco assistiamo ad una guerra tra due civiltà, la greca e la persiana, che rappresentano rispettivamente la libertà e il dispotismo, l'ordine civile e il caos barbarico. La tragedia greca è sempre politica.

 Il conflitto del resto può essere anche interiorizzato; allora il protagonista ha l'avversario dentro se stesso, e vive in una contraddizione che lo dilania. Medea   soffre con piena coscienza il conflitto tra passione e ragione, e lo teorizza quando afferma il coraggio di uccidere i figli per punire Giasone che l'ha tradita (vv. 1078-1080).

"Questo costante riferimento della realtà nel suo insieme all'interno dell'individuo..costituisce il principio propriamente lirico della poesia drammatica"(  Hegel Estetica , p. 1538).

Nell'Ippolito  di Euripide [3], Fedra, la matrigna  innamorata del figliastro, è  dilaniata da un conflitto interno che  le suggerisce questa considerazione: " il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica- oujk ejkponou`men d j-, alcuni per infingardaggine,/alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio , diletto cattivo, e l'irrisolutezza"(vv. 380-385).

La luce di queste citazioni rende relativamente chiara la proverbiale oscurità di Hegel[4] .

Sentiamo anche Cacciari: “Per l’eroe tragico è necessario il ‘contesto’, è necessario il confronto con l’ethos. La conciliazione tra il carattere dell’eroe e l’ethos comune, lo xynón, diviene problematica già nel corso della tragedia classica, ma è assunta a tema nel dramma moderno”[5]. 

 

Caratteristica del dramma dunque è la collisione, interna o esterna, tra due unilateralità che dopo aspra lotta dovrebbero arrivare ad una sintesi finale corrispondente al "divino stesso come totalità in sé" (Estetica, p.1540).

L'ampia e profonda visione del poeta drammatico giunge a vedere la soluzione delle unilateralità: “ Con eguale chiarezza deve stargli davanti quel che è giusto o è sbagliato nelle passioni che tumultuano nel cuore umano e lo spingono ad agire, affinché, laddove per gli uomini comuni sembra che dominino solo oscurità, caso e confusione, si riveli per lui il reale effettuarsi di quel che è in sé razionale e reale. Quindi il poeta drammatico non deve accontentarsi di una visone meramente indeterminata di quel che si agita nella profondità dell’animo, né deve solo fissare unilateralmente un qualsiasi esclusivo stato d’animo e una limitata parzialità nel modo di sentire e di vedere il mondo, ma ha necessità della più grande apertura e della più comprensiva vastità di spirito. Infatti le potenze spirituali…nel dramma si presentano, secondo il loro contenuto sostanziale semplice, reciprocamente opposte come pathos di individui, per cui il dramma è la soluzione dell’unilateralità di queste potenze che divengono autonome negli individui "(p. 1541).

La collisione tra le unilateralità può risolversi con la distruzione oppure con la conciliazione.

"Nella tragedia gli individui si distruggono per l'unilateralità della loro ferma volontà e del loro saldo carattere oppure devono rassegnarsi ad accogliere in sé ciò a cui si oppongono in modo sostanziale"(p. 1589).

 L'Antigone  viene considerata " l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente"(Hegel, Estetica, p. 1613) [6]. 

Questa tragedia sopprime le due unilateralità in conflitto: quella di Antigone e quella di Creonte.

 " Antigone vive sotto il potere statale di Creonte; ella stessa è figlia di re e promessa di Emone, cosicché dovrebbe ubbidienza al comando del principe. Ma anche Creonte che è dal canto suo padre e sposo, dovrebbe rispettare la santità del sangue e non comandare ciò che è contrario a questa pietà. Così in entrambi è immanente ciò contro cui si ergono rispettivamente, ed essi vengono presi e infranti da ciò che appartiene alla cerchia stessa della loro esistenza.

 Antigone subisce la morte prima di avere gioito della danza nuziale, ma anche Creonte viene punito nel figlio e nella moglie, che si danno la morte, il primo per quella di Antigone, l'altra per quella di Emone. Di tutti i capolavori del mondo antico e moderno-li conosco più o meno tutti ed ognuno dovrebbe e potrebbe conoscerli-l'Antigone  mi pare per quest'aspetto come l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente.

 L'esito tragico non ha però sempre bisogno della morte dei protagonisti per sopprimere le due unilateralità ed il loro grande onore. E' noto infatti che le Eumenidi  di Eschilo non terminano con la morte di Oreste o con la rovina delle Eumenidi, queste vendicatrici del sangue materno e della pietà di fronte ad Apollo, che vuole salvaguardare la dignità e il rispetto del capo di famiglia e del re e che ha istigato Oreste ad uccidere Clitennestra; ma ad Oreste la punizione viene condonata e ad entrambe le divinità è fatto onore"[7].

 

 

Hegel menziona  le unità aristoteliche, notando che nella Poetica  non c'è traccia di quella di luogo, contraddetta del resto dalla prassi dei tragediografi: "nelle Eumenidi  di Eschilo e nell'Aiace di Sofocle la scena cambia"(Estetica, p.1543).

Nella prima tragedia la scena si sposta da Delfi ad Atene; nella seconda, a dire il vero, lo spostamento è scarsamente rilevabile poiché il dramma si svolge tutto nel campo greco sulla riva dell'Ellesponto.

Secondo Hegel  "la legge veramente inviolabile è l’unità di azione" (p. 1545) poiché essa si basa sulle collisioni, e l'unità è necessaria per mostrare quel movimento totale e al tempo stesso eliminare le contraddizioni.

 Un’ altra regola ineliminabile è che la progressione della tragedia sia più veloce di quella epica:"Il corso propriamente drammatico è dato dal progredire continuo verso la catastrofe finale"(p. 1548).

Le scene episodiche, tipiche dell'epos, che "senza portare avanti l'azione, si limitano ad ostacolare lo svolgimento, sono contrarie al carattere del dramma"(p. 1549).

Ho ricordato le decine di versi dedicati da Omero alla genesi della cicatrice di Ulisse nel XIX canto dell’Odissea.

Il poeta non deve dare spazio alle ire sfrenate dei personaggi “e l’orrendo, in particolare, raffredda più che non infiammi” (p. 1554).

Si può ricordare il to;  teratw'de~ il mostruoso della Poetica (1453b, 9).  Questo è presente soprattutto nelle tragedie di Seneca.

 

 “E non giova niente al poeta descrivere le passioni in modo così commovente; il cuore si sente soltanto lacerato, e ci si volge altrove. Infatti vi manca il positivo,  la conciliazione, che non deve mai essere assente nell'arte. Gli antichi, invece, nelle loro tragedie, operavano soprattutto attraverso il lato oggettivo del pathos, a cui al contempo non manca neppure, nella misura in cui l’antichità lo richiede, l’individualità umana. Anche i drammi di Schiller posseggono questo pathos di un animo grande, un pathos che penetra profondamente ed ovunque si mostra e si esprime come base dell’azione."(p. 1555).

Questo mi sembra un arzigogolo.

 

 Per quanto riguarda la metrica, Hegel riconosce l'opportunità, nelle parti dialogate, del giambo: “Al metro drammatico conviene una via di mezzo fra il calmo ed uniforme scorrere dell’esametro e la misura sillabica più rotta e frazionata della lirica. A questo proposito si raccomanda su tutti il metro giambico”[8].

 In effetti il trimetro giambico si confà all'apprendimento mnemonico del testo per il ritmo con il quale viene letto.

“Se si prescinde dalle melodie e dai kommoí che erano composti in metro lirico e dunque implicavano una resa affidata al canto, gli attori interpretavano le parti loro assegnate recitando in trimetri giambici, assai più raramente in tetrametri trocaici catalettici: questi ultimi venivano forse resi in parakataloghé (recitativo) nelle scene di più acuta tensione. I loro interventi prevedevano talora anche sequenze (in recitato o in recitativo) composte in metro anapestico. Le parti recitate erano in dialetto attico, con la mistione di alcuni elementi di ionico. E ciò, oltre al metro, contribuiva a differenziarle dalle sezioni liriche, in primis da quelle corali, caratterizzate da una lieve coloritura dorica[9].

 

Il trimetro giambico “sembra evolvere , nel corso del tempo, nella direzione di una sempre maggiore flessibilità: il trimetro euripideo, ad esempio, soprattutto nelle tragedie più tarde, conosce una percentuale di “soluzioni” (scioglimento dell’elemento lungo in due brevi, per cui il “piede” finisce col constare di tre sillabe) molto più elevata di quella del trimetro di Eschilo e di Sofocle. Proprio fondandosi sul presupposto che all’aumento dei “piedi trisillabici” corrisponda una fase di composizione più recente-il che sembra avvalorato, in linea generale, dall’evidenza delle tragedie di cui sappiamo con certezza la data di rappresentazione-vari studiosi hanno tentato di fissare la cronologia relativa dei drammi euripidei. E’ evidente tuttavia che il criterio non può essere applicato in modo meccanico: vero è, ad esempio, che, secondo le statistiche di Ceadel, nell’Andromaca ( rappresentata nei primi anni della guerra del Peloponneso, tra il 429 e il 425 a. C.) la percentuale di soluzioni è dell’11%, nelle Troiane (416 a. C.) è del 21,2% e nell’Oreste (408 a. C.) è del 39, 4% ”; ma nelle Baccanti e nell’Ifigenia in Aulide , che pure  sono posteriori all’Oreste, le percentuali decrescono rispettivamente al 37, 6% e al 34, 7%”[10].

 

 “La capitale richiesta al poeta drammatico è che egli debba pervenire ad una visione sommamente profonda dell’essenza dell’agire umano e del governo divino del mondo, e ad un’altrettale visione di una manifestazione chiara e viva di questa eterna sostanza di tutti i caratteri, le passioni ed i destini umani” ( Estetica, p. 1564).  Parole generiche e inutili.

 

Vediamo  alcune osservazioni di Hegel sulla commedia.

Il poeta deve suscitare l'interesse del pubblico, ma non è necessario che lo assecondi sempre:"in numerose epoche soprattutto la poesia drammatica è anche servita ad introdurre in modo vivo nuove idee riguardanti il campo della politica, dell'etica, della poesia, della religione ecc. Già Aristofane polemizza nelle sue prime commedie contro le condizioni interne di Atene e la guerra del Peloponneso" (Estetica, p.1564).

 

 Il commediografo in effetti indirizza strali satirici contro il cretinismo parlamentare e i demagoghi guerrafondai beniamini del popolo, sopra tutti Cleone raffigurato, nei Cavalieri[11], nel personaggio del ladro, violento, volgarissimo Paflagone.

 

Negli Acarnesi  dell'anno precedente l'autore aveva mosso guerra alla guerra voluta dalla maggioranza. 

La commedia offre maggiore spazio all'attualità e alla soggettività:"così nelle parabasi Aristofane spesso si dà da fare con il pubblico ateniese, sia perché non nasconde le sue opinioni politiche sugli avvenimenti e le situazioni del giorno..sia perché cerca di mettere a tacere i suoi avversari e rivali in arte"(p. 1565).

La parabasi comica è  una specie di intermezzo nel quale il coro si toglie la maschera ed espone direttamente al pubblico l'opinione del poeta sulla poetica o la politica o sul costume.

 

Nella parabasi delle Nuvole [12] p. e. Aristofane rivendica la propria forza creativa, il coraggio, e la  nobiltà del proprio animo dicendo al pubblico:

" non cerco di ingannarvi rappresentando due o tre volte la stessa storia/anzi mi ingegno per portarvi sempre nuove idee/

per niente uguali tra loro e tutte intelligenti/io che colpii nel ventre Cleone quando era al massimo della potenza/ e non ebbi la sfrontatezza di calpestarlo quando era caduto"(vv. 546-550).

  In effetti Aristofane come opinionista fu assai critico nei confronti dei colleghi, dei concittadini e dei governanti, e la tolleranza di cui fruì è un esempio di assoluta parrhsiva , libertà di parola, nell'Atene degli anni compresi tra il 425 e il 415. Poi questa un poco alla volta viene limitata e con lei sparisce la parabasi. L'ultima è quella degli Uccelli del 414.

 Interessanti sono alcune osservazioni sull'attore il quale deve essere"lo strumento su cui suona l'autore, una spugna che assorbe tutti i colori e li restituisce immutati. Presso gli antichi-aggiunge Hegel-questo era più facile perché...le maschere[13] coprivano i tratti del volto"(Estetica, p.1575), e il lato mimico era reso obbligatorio dalla musica che accompagnava i canti del coro. Volendo fare un confronto con l'Opera moderna, la differenza principale è che in questa la musica sovrasta la parola; inoltre nella tragedia antica non c'era lo sfarzo scenografico e la "pompa sensibile" dell'addobbo che da una parte "è segno dell'inizio della decadenza dell'arte autentica", dall'altra corrisponde a trame intessute di meraviglioso, fantastico, favoloso, “avulsi dalla connessione intellettuale; e l’esempio condotto a termine con maggior misura ed arte ci è dato a tale proposito da Mozart con il suo Flauto magico” (p. 1580).

Il realismo invece è cosa greca.

 

Nella commedia si trova a proprio agio la soggettività che "certa di se stessa può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni"(p. 1591). Il comico richiede contrasti  che  possono derivare da sforzi seri indirizzati verso fini meschini, come quando l'avaro prende quale scopo"la morta astrazione della ricchezza, il danaro", oppure da persone frivole che mirano a bersagli importanti e difficili:"di tale natura sono, p. e., le Ecclesiazuse  di Aristofane, perché qui le donne, che vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione, conservano tutti i loro capricci e passioni di donne"(p. 1592).

 

 In questa commedia, del 393, le donne all’assemblea fanno un colpo di Stato, prendono il potere, quindi aboliscono la famiglia e la proprietà instaurando il comunismo della roba e del sesso. Prassagora, la capobanda, prescrive che "tutti abbiano tutto in comune"(v.590), la terra, il denaro e quante altre cose ognuno possiede (v.598). Anche le femmine sono messe in comune per i maschi, a una condizione:"le più insignificanti e rincagnate staranno accanto alle belle;/poi, chi ha voglia di una buona, prima deve sbattersi la brutta"(vv. 616-617). Insomma si è provveduto "perché nessuna resti a buco vuoto"(v. 624).

“Il comico è la parola che lavora con la propria impotenza, l’azione che si sa immobile, il pensiero che pensando se stesso “porta in contraddizione e dissolve il proprio agire” (Hegel)”[14].

 

 Anche la commedia però, continua Hegel, deve mettere in evidenza il razionale "come ciò che neanche nella realtà lascia vincere o sussistere fino alla fine la stoltezza e l'irrazionalità...Aristofane non si fa gioco di ciò che di veramente etico c'è nella vita del popolo ateniese, né dell'autentica filosofia, della vera fede religiosa, dell'arte genuina; ma quel che egli ci pone dinnanzi nella sua stoltezza che da se stessa si distrugge sono le aberrazioni della democrazia, da cui sono spariti l'antica fede e gli antichi costumi, è la sofisticheria, il tono lamentevole e pietoso della tragedia, le chiacchiere volubili, la litigiosità ecc., questa nuda contropartita di una vera realtà statale, religiosa, artistica"(p.1593).

 

Tanto il tragico quanto il comico devono giungere a conciliare le contraddizioni sulle quali bisogna che, attraverso l'agire umano, prevalga "una realtà in sé armonica" (p. 1595).

Nella drammaturgia antica si trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il sacrificio degli individui:"p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi  di Eschilo, concede il diritto alla venerazione ad entrambe le parti, ad Apollo e alle vergini vendicatrici. Anche nel Filottete  si giunge ad appianare con l'apparizione divina ed il consiglio di Eracle la lotta fra Neottolemo e Filottete"(p.1595).

 

 L’ultima parte dell’Orestea[15] giunge ad una conciliazione tra la religione dei padri e quella delle madri, tra le ragioni di Oreste che ha ucciso la madre vendicando il padre tradito e assassinato da lei, e quella delle Erinni, venerande dee che proteggono i vincoli di sangue, soprattutto il più forte: quello madre-figlio violato dal giovane il quale viene processato e assolto, non senza però che le sue accusatrici ricevano culti e onori dagli Ateniesi. Nel Filottete[16] il rientro dell'eroe ferito nell'armata dei Greci che l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e sono rappresentati dal subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli le armi necessarie alla presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di Eracle che, disceso dal cielo quale deus ex machina , promette al protagonista la guarigione e il primo posto nell'esercito acheo (vv.1420 e sgg.).

 

Presupposto della tragedia è una condizione del mondo eroica, l'opposto della situazione moderna dalla quale scaturisce l'ironia.

La tragedia è fatta di contrasti: “L’opposizione principale, trattata in modo bellissimo particolarmente da Sofocle sull’esempio di Eschilo, quella dello Stato, della vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica"(p. 1607).

 

 Hegel ribadisce che l'Antigone  di Sofocle  rappresenta al meglio tale collisione:"Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici". Quindi aggiunge:"  Il medesimo conflitto si trova anche nell'Ifigenia in Aulide , nell'Agamennone, nelle Coefore e nelle Eumenidi di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. Agamennone come re e capo dell'esercito sacrifica la figlia all'interesse dei Greci e della spedizione contro Troia, distruggendo così il vincolo dell'amore per la figlia e la sposa, che Clitemnestra come madre conserva nel profondo del cuore, apprestando la vendetta di una uccisione ignominiosa al reduce sposo. Oreste, figlio e figlio del re, onora la madre, ma deve difendere il diritto del re, del padre, e colpisce il seno che lo ha generato"(p.1608).

 

L'ultima grande poesia della Grecia è la commedia di Aristofane il quale rappresenta figure come Strepsiade e Socrate (Nuvole ), Bacco (Rane), Cleone (Cavalieri ) piene di  presunzione, e risibili per la "sicurezza ingenua della soggettività"; essi hanno verso loro stessi una ridicola"fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono"(p.1618).

L'etico e il divino sono abbandonati al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori sintomi della decadenza della Grecia"(p.1619).

 

Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “ Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc.” Sono personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni…che non perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”[17].

Potremmo aggiungere che alla commedia antica di Aristofane manca quello che Pirandello chiamerà, "il sentimento del contrario".  “Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale[18].

Sul saggio di Pirandello torneremo più avanti.

 

Intanto sentiamo Pasolini: “Il popolo non è umorista, nel senso che possiamo attribuire all’umorismo degli scrittori del Seicento, di Cervantes, di Dickens, ecc.

Il popolo è comico, spiritoso…L’umorismo è distacco dalla realtà, atteggiamento contemplativo di fronte alla realtà, e quindi dissociazione tra sé e questa realtà”[19].

 

Bologna 2 febbraio 2025 ore 12. giovanni ghiselli

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[1] Estetica, p. 1533-1534.

[2] Del 472 a. C.

[3] Del 428 a. C.

[4] Tanto che Schopenhauer scriveva:"il fatto insomma che il suo contenuto si riducesse alla chiacchiera più vuota e più priva di senso, di cui mai si siano pasciuti gli imbecilli, e che la sua esposizione...fosse il più disgustoso e più assurdo dei guazzabugli..", Parerga e Paralipomena , I, p. 206.

Si può per lo meno notare una contraddizione nell’Estetica di Hegel tra la “fase suprema” costituita dal dramma e l’”immagine totale” data dall’epica. Nota p. 19

 

[5] Hamletica, p. 83.

[6] “Il culto per Sofocle, retaggio dell’umanesimo classicistico di Lessing e di Winckelmann, dilagava fra i filosofi così come fra i filologi, concordi nel celebrare i tre drammi sul ciclo di Edipo come massimo picco dell’arte tragica greca. Fra gli stessi maestri e amici di Droysen , né Hegel, né Boeckh, né Wilcker, né Bergk erano immuni dalla venerazione per Sofocle e dalla diffidenza verso Euripide. Perciò doveva destare quasi stupore il fatto che Droysen, traduttore entusiasta di Eschilo, s’impegnasse in una riabilitazione di Euripide. Beninteso, egli condivideva il giudizio estetico dei suoi contemporanei circa la superiorità dei due tragici più anziani; tuttavia rivalutava l’arte di Euripide dal punto di vista storico e filosofico” (J. G. Droysen, Aristofane, a cura di G. Boncina, p. 56 dell’Introduzione.

 

[7]Hegel, Estetica , pp. 1612-1613

[8] Hegel, Estetica , p. 1555.

[9] Di Marco, Op. cit., p. 217.

[10] Di Marco, Op. cit., p. 218.

[11] Del 424 a. C.

[12] Del 423 a. C. A noi è giunto il testo rimaneggiato successivamente dall’autore.

[13] Sulla maschera leggiamo anche queste osservazioni di Ortega Y Gasset: “Coloro che si dedicavano al culto di Dioniso si mascheravano…ci troviamo di fronte a un altro dato sorprendente della preistoria del teatro, ovvero che la maschera, assieme alla danza, lo stupefacente e la pantomima, è una delle invenzioni più antiche dell’umanità. La prima forma umana che ci ricordi un po’ la nostra è quella del paleolitico, e già qui vediamo come l’uomo utilizzi la maschera. E’ dunque la maschera sorella e coetanea dell’ascia di selce, della pietra grezza” (Idea del teatro, p. 102).

Sentiamo anche Di Marco: “L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli, ivi compresi quelli femminili: un espediente al quale era inevitabile fare ricorso in un teatro che utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel quale, come abbiamo visto, vigeva una norma che limitava a tre il numero massimo di attori a disposizione di ciasun tragediografo…Le maschere erano fatte di lino-talvolta anche di cartapesta o di cuoio-su cui veniva  passato dello stucco: una volta divenute rigide, si procedeva a dipingerle: secondo una precisa convenzione “realistica”  in uso nella pittura contemporanea, quelle femminili di bianco, quelle maschili di un colore più scuro. Opportunamente fissate al mento o alla nuca con delle stringhe, coprivano l’intero volto; ad esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana” (Op. cit., p. 95).

 

[14] M. Cacciari, Hamletica, p. 102.

[15] Del 458 a. C

[16] Del 409 a. C. 

[17] Hegel, Estetica, p. 1618.

[18] Pirandello, L’umorismo, p. 45.

[19] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1443.

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