Vediamo ora una critica contrastiva: quella di A. Schopenhauer (1788-1860), il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non insegna la rassegnazione, la rinunzia e la negazione della volontà. Sentiamo il filosofo anti-idealista e anti-storicista che Nietzsche, nella terza delle Considerazioni inattuali, quattordici anni dopo la sua morte (1874), esaltò come il solo educatore della nuova Germania.
“Il nostro godimento della tragedia non appartiene al sentimento del bello, ma a quello del sublime; anzi è il più alto grado di quel sentimento. Poiché, come noi alla vista del sublime nella natura ci togliamo dall’interesse della volontà, per mantenerci puramente contemplativi; così nella catastrofe tragica ci rivolgiamo via dalla stessa volontà alla vita. Nella tragedia dunque ci viene presentato il lato terribile della vita, lo strazio dell'umanità, il dominio del caso e dell'errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio (...) A tale vista noi ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla vita, a non volerla e a non amarla più (…) Nel momento della catastrofe tragica sorge in noi, più chiara che mai, la persuasione che la vita sia un affannoso sogno, dal quale dobbiamo destarci (…) Ciò che dà al tragico, in qualunque forma esso si presenti, la vera spinta alla sublimità, è il sorgere della conoscenza che il mondo e la vita non possano concedere vera soddisfazione, quindi non meritino il nostro attaccamento: in ciò consiste lo spirito tragico: esso perciò conduce alla rassegnazione"[1].
Tale rassegnazione secondo Schopenhauer non è messa abbastanza in rilievo dalla tragedia greca, e non è assoluta: “Ammetto che nella tragedia degli antichi questo spirito di rassegnazione raramente appaia e venga espresso in modo diretto. A Colono Edipo muore invero volontariamente e rassegnatamente; però lo consola la vendetta contro la sua patria. Ifigenia giovinetta è assai disposta a morire; però è il pensiero del bene della Grecia che la consola e produce il mutamento del suo animo, per cui ella accetta volontariamente la morte, alla quale voleva prima in tutti i modi sfuggire. Cassandra, nell'Agamennone del grande Eschilo, muore di buon grado, ajrkeivtw bivo" (v. 1306)[2]; ma anche ella è consolata dal pensiero della vendetta.
Ercole, nelle Trachinie, cede alla necessità, muore tranquillo, ma non rassegnato" [3]. Anche Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra dedizione al fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma nessuna rinunzia alla volontà di vivere”[4] .
“Edipo, dal canto suo, scende tra i morti tutt’altro che pacificato: non ha assolto chi lo ha offeso, non ha chiesto perdono per i suoi misfatti (il perdono e la riconciliazione, in ogni caso, sarebbero concetti anacronistici, applicati alla cultura greca di età classica)”[5].
Meglio dunque, secondo Schopenhauer fa la "tragedia cristiana" in quanto"espone la rinunzia di tutta la volontà alla vita, il lieto abbandono del mondo, nella coscienza della sua vanità e nullità". Quindi:"Shakespeare è molto più grande di Sofocle: in confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella di Euripide. Le Baccanti di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione dell vita in generale (…) Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[6]" .
La tragedia classica in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis all’Alcesti giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron); e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi”[7].
Più avanti, negli stessi Supplementi, Schopenhauer mette in rilievo che “i greci assumevano per eroi della tragedia sempre persone regali; e per lo più anche i moderni”. Poi continua: “Anche la tragedia borghese non è da rigettarsi incodizionatamente. Le persone però di grande potenza e di grande prestigio sono le più appropriate alla tragedia, perché la infelicità, nella quale noi dobbiamo riconoscere il destino della vita umana, deve avere una sufficiente grandezza, per apparire terribile allo spettatore, chiunque esso sia. Euripide stesso dice: feu`, feu`, ta; megavla megavla kai; pavscei kakav [8], “ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi.
(Stob. Flor., II, 299).
..Alle persone borghesi manca quindi l’altezza di caduta”[9].
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Nel terzo libro di Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer indica alcune tragedie “cristiane” come esemplari in quanto aiutano a squarciare l’ingannevole velo di Maja : “Una è identica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda”[10]. Non senza grande dolore. In alcuni individui la conoscenza “purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l’inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium individuationis, viene visto bene addentro; e perciò l’egoismo che su questo si fonda è spento, sì che motivi prima poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione dell’essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all’intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo un lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe Costante di Calderón; così Margherita nel Faust[11]; così Amleto…così ancora la Pulcella d’Orléans[12], la Fidanzata di Messina[13]: tutti muoiono purificati dal dolore, ossia quando in loro la volontà di vivere è già morta…Il vero senso della tragedia è la cognizione...che l'eroe non sconta i suoi peccati personali, ma il peccato universale, ossia la colpa stessa dell'essere:
Pues el delito mayor
del hombre es haber nacido [14],
come apertamente afferma Calderón. ..Il rappresentare una grande sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di tre specie.
Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccare gli estremi limiti della possibilità, d’un carattere, il qual diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III, Jago dell’Otello, Shylock nel Mercante di Venezia, Franz Moor[15], la Fedra di Euripide, Creonte nell’Antigone e così via.
Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la Fidanzata di Messina.
La sventura può essere cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti…Quest’ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due: imperocché ci fa apparire la più grande delle sventure non come un’eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità, dall’azione e dai caratteri degli uomini ; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stessi…Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo all’inferno”[16]. Quale perfetto modello del genere tragico Schopenhauer indica il dramma Clavigo di Goethe. Poi continua: “Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte ed Ofelia; anche il Wallenstein[17] ha questo merito; tale è pure il Faust, se si considera soltanto ciò che accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca nondimeno l’esito tragico, che invece si trova nell’analoga situazione di Max rispetto a Tecla nel Wallenstein”[18].
Diversi anni dopo le Considerazioni inattuali, Nietzsche rifiuta questa interpretazione e confessa il proprio pentimento per " avere oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[19].
Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi :"Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la "rassegnazione". Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte pessimistica. L'arte afferma"[20].
Possiamo trovare una nota addirittura ottimistica nelle Supplici di Euripide, del 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Teseo, il re di Atene, confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce.
Dunque il Pericle in vesti eroiche elogia quello tra gli dèi che ha regolato la nostra vita da confusa e bestiale (p. 25) che era (ejk pefurmevnou[21]- kai; qhriwvdou" ) innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza, poi dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da capire la voce (vv. 201-205).
Nelle Supplici Teseo elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte, re, anzi tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota non è comandata da un uomo solo, ma è libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Teseo è lo stratego ideale: il messo che racconta la battaglia contro i Tebani conclude la sua rJh`si~ elogiando il re ateniese che ha vinto la battaglia ma non ha voluto distruggere Tebe: bisogna proprio scegliere un comandante come Teseo che misei` uJbristh;n laovn (v. 728), odia la massa tracotante la quale, se ha successo, cerca di salire sul gradino più alto[22] e distrugge il vantaggio conseguito prima. E’ un appello ai cittadini perché non eleggano un altro Cleone il quale dopo il successo di Sfacteria aveva indotto gli Ateniesi a rifiutare proposte di pace ed era succeduta la disfatta di Delio in Beozia (424).
Concludo questa introduzione con un’idea di Freud sull’eroe e sull’origine della tragedia. Freud presenta un catalogo di eroi : “ I nomi più noti della serie che comincia con Sargon, sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre ai quali, tuttavia, Rank[23] ha raccolto un grande numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla leggenda, cui viene attribuita, interamente o in frammenti ben riconoscibili, la stessa vicenda giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle, Gilgamesh, Anfione e Zeto, e altri…Eroe è colui che coraggiosamente si leva contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il bambino contro la volontà del padre e lo fa salvo nonostante le cattive intenzioni di questi. L’esposizione nella cassetta è una inconfondibile raffigurazione simbolica della nascita: la cassetta è il grembo materno, l’acqua è il liquido amniotico…Nella forma tipica della leggenda la prima famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta…Solo nella leggenda di Edipo questa differenza scompare. Il bambino esposto da una famiglia regale è accolto da un’altra coppia regale[24]”.
Nel terzo saggio di L’uomo Mosè e la religione monoteistica[25], Freud richiama alcune affermazioni di Totem e tabù (1912-1913): “La mia costruzione si fonda su un asserto di Charles Darwin e comprende una congiuntura di Atkinson[26]. Essa dice che in tempi primitivi l’uomo primigenio viveva in piccole orde…Il maschio robusto era signore e padrone di tutta l’orda, il suo potere, che esercitava con violenza, non aveva limiti. Tutte le femmine erano sua proprietà, sia le donne e le figlie della sua orda, sia forse quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando essi suscitavano la gelosia del padre, venivano trucidati o evirati o espulsi”[27]. Gli espulsi formarono altre orde. I più piccoli restarono nella prima orda, protetti dalla madre prima, poi cercando di succedere al padre. Successivamente quelli scacciati unirono le loro forze “per sopraffare il padre e, secondo il costume di quei tempi, lo divorarono crudo”[28]. Al parricidio seguirono le lotte per l’eredità paterna, poi “persuasisi dei pericoli e dell’infruttuosità di queste lotte” i fratelli addivennero “a una sorta di contratto sociale. Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale, il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Il singolo rinunciò all’ideale di acquisire per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Di qui il tabù dell’incesto e l’imposizione dell’esogamia”.
Buona parte del potere assoluto tolto al padre passò alle donne, e “venne il tempo del matriarcato…In questo periodo di “alleanza fraterna”, la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto…Nel rapporto con l’animale totemico fu mantenuta interamente la dicotomia originaria della relazione emotiva col padre (ambivalenza)”. In sintesi il totem in un primo tempo era venerato poi “veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù riunitisi insieme…Questa grande festa era in realtà una celebrazione trionfale della vittoria riportata sul padre dai figli che avevano stretto un’alleanza tra loro”[29]. A questo punto interviene la religione: “Al posto degli animali subentrarono dèi umani, della cui derivazione dal totem non si fa mistero. Il dio è ancora raffigurato o in forma animale o almeno con faccia d’animale, oppure il totem diviene il compagno preferito del dio…Si era frattanto compiuto un grande rivolgimento sociale. Il matriarcato era stato sostituito dal ristabilirsi di un ordine patriarcale. I nuovi padri non raggiunsero in verità mai il potere assoluto del padre primordiale; erano in molti e vivevano associati in raggruppamenti più grandi dell’orda di un tempo; dovevano mantenere buoni rapporti reciproci ed erano limitati da norme sociali”. Ma torniamo alla religione: “E’ verosimile che le divinità materne avessero origine al tempo della restrizione del matriarcato, per compensare le madri messe in disparte. Le divinità maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri, e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figure paterne. Questi dèi maschili del politeismo rispecchiano i rapporti dell’epoca patriarcale. Sono numerosi, si limitano a vicenda, occasionalmente sono subordinati a un dio supremo che li sovrasta. Il passo successivo, però, conduce al tema di cui ci stiamo occupando, ossia al ritorno di un solo dio-padre, unico e illimitato signore”[30].
Freud pensa che il monoteismo fu introdotto tra gli Ebrei da Mosé, un Egiziano seguace della religione voluta da Amenofi IV, che era “salito al trono intorno al 1375 a. C.”[31] e adorava “il sole (Atòn) non come oggetto materiale ma come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi”[32] solari. Il faraone eretico si cambiò il nome in Ekhanatòn cancellando la presenza del dio Amòn dal culto, dalla propria persona e da tutte le iscrizioni.
“Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, sconosciuta all’antichità prima di allora e per molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico proscritta…Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu Egizio e se egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di Ekhanatòn, la religione di Atòn”[33]. Freud cerca di avallare questa tesi con vari indizi : entrambe le religioni “sono forme di rigido monoteismo”; inoltre “l’assenza nella religione ebraica di una dottrina concernente l’aldilà e la vita ultraterrena, che pure, sarebbe stata compatibile col più rigoroso monoteismo” corrisponde al rifiuto di tale presenza anche nella religione di Ekhnatòn che “aveva bisogno di combattere la religione popolare nella quale il dio dei morti Osiride aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del mondo superiore”. Terzo indizio: Mosè introdusse presso gli Ebrei “la consuetudine della circoncisione”[34]. Ebbene: “Erodoto, il “padre della storia”, ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare in Egitto”. Dunque Mosè “non era ebreo ma egizio, e allora la religione mosaica fu probabilmente una religione egizia” [35]. Arriviamo infine alla religione cristiana e torniamo alla tragedia greca. “Vaste porzioni del passato, che qui sono concatenate in un tutto, sono storicamente attestate, come il totemismo e le alleanze maschili. Altre si sono conservate in ripetizioni illustri. Così più di un autore ha fatto osservare quanto fedelmente il rito della comunione cristiana, in cui il credente incorpora in forma simbolica il sangue e la carne del suo dio, ripeta il senso e il contenuto dell’antico pasto totemico”[36]. Con il monoteismo si ebbe “ la reintegrazione del padre primigenio nei suoi diritti storici”, quindi “ anche altri pezzi della tragedia preistorica premevano per il riconoscimento. ..Si direbbe che un crescente senso di colpa s’impadronì del popolo ebraico, e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico, prendendo a giustificare un agitatore politico-religioso, fornì l’occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa riconducendolo correttamente alla sua prima fonte storica. Chiamò questa il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva essere espiato…In effetto questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato. Ma non si ricordava l’assassinio, si fantasticava piuttosto la sua espiazione, e perciò questo fantasma poteva essere salutato come un messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, essendo stata compiuta l’uccisione del padre…Il fatto che il redentore si fosse sacrificato senza colpa era una deformazione palesemente tendenziosa, che offriva difficoltà all’intelligenza logica: come può infatti, chi è innocente dell’assassinio prendere su di sé la colpa degli assassini consentendo di essere ucciso? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava Il “redentore” non poteva essere altri che il primo colpevole, il caporione della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre”
Può essere, continua Freud, che il caporione primigenio non ci sia effettivamente stato; in ogni caso ciascuno della banda dei fratelli avrebbe voluto commettere il misfatto. “Pertanto, se non vi fu tal condottiero, Cristo è l’erede di una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, in questo punto va ritrovata l’origine della rappresentazione dell’eroe: l’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide. Qui sta anche il vero fondamento della “colpa tragica” dell’eroe nel dramma, altrimenti difficilmente dimostrabile. E’ quasi certo che l’eroe e il coro della tragedia raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli, e non è senza significato che nel Medioevo il teatro riprenda a vivere con la rappresentazione della storia della Passione”[37].
Concludo riferendo le differenze che Freud fa notare tra la religione ebraica e quella cristiana: “Il giudaismo era stato una religione del padre, il cristianesimo diventò una religione del figlio”. Inoltre: “La religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio per collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure del politeismo, dissimulate appena…Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnatòn dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta”[38].
Sentiamo G. Steiner:“ Nel politeismo, dice Nietzsche, consisteva la libertà dello spirito umano, la sua poliedricità creativa. La dottrina di una singola divinità…è “il più mostruoso di tutti gli errori unani” (“die ungeheuerlichste aller menschlichen Verirrungen”). In una delle sue ultime opere, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud attribuì questo “errore” a un principe e veggente egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono chiesti perché abbia cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel supremo fardello di gloria…Uccidendo gli ebrei, la cultura occidentale avrebbe sradicato quelli che avevano “inventato” Dio…L’Olocausto è un riflesso, ancor più completo in quanto lungamente inibito, della coscienza sensoriale naturale, degli istintivi bisogni politeistici e animistici… Quando, durante i primi anni di regime nazista, Freud cercava di scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’ “invenzione” di Dio, stava facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una disperata mossa propiziatoria, sacrificale. Stava tentando di strappare il parafulmine dalle mani degli ebrei. Troppo tardi. La lebbra della scelta di Dio-ma chi aveva scelto chi?-era troppo visibile su di loro…
Insomma l’antico e il nuovo Testamento propongono e ordinano ideali impraticabili
Anche il marxismo ha riproposto ideali troppo difficili da praticare.
“Anche quando si proclama ateo, il socialismo di Marx, di Trockij, di Ernst Bloch discende direttamente dall’escatologia messianica. Nulla è più religioso, nulla si avvicina al sacro furore di giustizia dei profeti più della visione socialista che contempla la distruzione della Gomorra borghese e la creazione per l’uomo di una città nuova e pura… Monoteismo del Sinai, cristianesimo primitivo, socialismo messianico: sono i tre momenti supremi in cui la cultura occidentale viene posta di fronte a quelle che Ibsen chiamava “pretese dell’ideale….l’ideale continuava a bussare a insistere con forza terribile e molesta. Tre volte la sua eco si diffuse, e ogni volta dallo stesso centro storico. (Alcuni politologi calcolano che la percentuale degli ebrei coinvolti nello sviluppo ideologico del socialismo messianico e del comunismo si aggiri sull’80 per cento). Tre volte il giudaismo lanciò un appello alla perfezione e cercò di imporlo al corso normale della vita occidentale. Una profonda avversione si radicò nel subconscio sociale, presero forma rancori omicidi…Noi odiamo in sommo grado coloro che ci propongono un modello, un ideale, una promessa visionaria che non siamo in grado, pur tendendo i muscoli all’estremo, di raggiungere…Nella sua esasperante “estraneità”, nella sua accettazione della sofferenza come condizione di un patto con l’assoluto, l’ebreo divenne, per così dire, la “cattiva coscienza” della storia occidentale…Scagliandosi contro gli ebrei, il cristianesimo e la civiltà europea si scagliarono contro l’incarnazione-sia pur spesso indocile e inconsapevole-delle proprie speranze più alte…Nell’Olocausto vi fu sia un folle castigo, uno sferrar colpi alla cieca contro le intollerabili pressioni della visione idealistica, sia una larga componente di automutilazione. La società europea moderna, laica, materialista, bellicosa, cercava di estirpare, da sé stessa e dal proprio bagaglio ereditario, germi d’ideale arcaici, ormai ridicolmente obsoleti e tuttavia in certo qual modo inestinguibili. L’accezione nazista di “parassiti” e “disinfestazione” rivela brutalmente la natura infetta della moralità. Uccidiamo l’esattore, uccidiamo colui che ci ricorda la somma dovuta, e l’annoso debito sarà estinto. Il genocidio che si consumò in Europa e in Unione Sovietica negli anni 1936-45 (l’antisemitismo sovietico fu forse la manifestazione più paradossale dell’odio che la realtà nutre contro l’utopia naufragata)…fu l’attuazione di un impulso suicida della civiltà occidentale; fu un tentativo di livellare il futuro o, più precisamente, di rendere la storia commisurata alla naturale barbarie, al torpore intellettuale e agli istinti materiali dell’uomo non evoluto. Usando metafore teologiche…è possibile dire che l’olocausto ha rappresentato un secondo peccato originale…Con il tentativo maldestro di uccidere Dio e il tentativo quasi perfettamente riuscito di uccidere quelli che l’avevano “inventato”, la civiltà entrò, esattamente come Nietzsche aveva predetto, nella “notte sempre più notte””
”[39]
Ma torniamo a Freud.
L’orda primordiale ha lasciato diverse tracce nel genere umano, anzi sopravvive ancora nella massa che è una “reviviscenza dell’orda primordiale”[40] mentre l’individuo capace di comandarla corrisponde al capo dell’orda: “I singoli componenti la massa erano soggetti a legami, allora come lo sono oggi, ma il padre dell’orda primordiale era libero. Pur essendo egli isolato, i suoi atti intellettuali erano liberi e autonomi, la sua volontà non aveva bisogno di essere rafforzata da quella degli altri. Per conseguenza noi supponiamo che il suo Io fosse scarsamente legato libidicamente, che non amasse alcuno all’infuori di sé medesimo e che amasse gli altri solo se e in quanto servivano ai suoi bisogni…All’inizio della storia umana fu lui il superuomo che per Nietzsche possiamo aspettarci solo dal futuro. Gli individui appartenenti alla massa hanno bisogno tuttora dell’illusione di essere amati in uguale e giusta misura dal capo, mentre lui, il capo, non ha bisogno di amare alcuno, può avere la natura del padrone ed essere assolutamente narcisistico, eppure sicuro di sé e autosufficiente”[41]. Il capo primordiale, e pure quello recente, cattura emotivamente la massa: “non ha bisogno di rendere logiche le proprie argomentazioni, deve dipingere a fosche tinte, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa”[42]. Inoltre c’è il legame libidico trasferito: “il padre primigenio vietava ai propri figli il soddisfacimento dei desideri sessuali diretti; li costrinse all’astinenza e perciò a quei legami emotivi con lui stesso e fra loro che potevano scaturire dagli impulsi la cui meta sessuale era inibita. Li immise per così dire con la forza nell psicologia collettiva. La sua gelosia sessuale e la sua intolleranza divennero in ultima analisi la causa della psicologia delle masse”[43].
Si leggano in Sofocle queste parole di Edipo che, entrato in scena nel prologo della tragedia, si informa sullo stato d’animo del suo popolo colpito dalla peste e dalla sterilità: “ su vecchio, racconta, poiché sei adatto/a parlare per questi:in quale modo siete disposti:/avendo concepito timore oppure amore? Poiché vorrei bastare/io ad aiutarvi in tutto: infatti sarei disumano/se non avessi compassione di tale seduta ( Edipo re, vv. 9-13).
Il re di Tebe considera se stesso quale nodo, somma e sintesi di tutti i sentimenti di tutti i Tebani: “O figli degni di compassione, cose conosciute, e non sconosciute a me/siete venuti a domandare con desiderio; io infatti so che/state male tutti, e pur stando male, come me,/non c'è tra voi chi sta male in ugual misura./ Infatti il dolore vostro colpisce uno solo,/per sé, e nessun altro, ma la mia/mente compiange la città e me e te, tutto insieme” (Edipo re, vv. 58-64).
In 1984 di Orwell è descritta una situazione assimilabile alla repressione sessuale ipotizzata da Freud nell’orda primitiva. Nel romanzo c'è una ragazza, Jiulia, che comprende e si ribella facendo l'amore con gioia, e spiega: “Quando fai all'amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo (...) Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido (All this marching up and down and cheering and waving flags is simply sex gone sour). Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate? (If you are happy inside yourself, why should you get excited about Big Brother and the Three –Year Plans and the Two Minutes Hate and all the rest of their bloody rot?)"[44].
Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà" (p.133). Il protagonista del romanzo, Winston, vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito (...) un atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva pieno di ammirazione, quindi le dice:"Sta' a sentire. Con più uomini sei stata e più ti voglio bene. Hai capito?"[45].
Leggiamo qualche parola in inglese: “Their embrace had been a battle, the climax a victory. It was a brow struck against the Party. It was a political act” (p. 133), il loro amplesso era stata una battaglia, l’apice una vittoria. Era una raffica scagliata contro il Partito. Era un atto politico.
Quesiti sull’introduzione al dramma.
1 Quali sono secondo te i concetti fondamentali della Poetica di Aristotele?
2 In che cosa si differenzia essenzialmente la poesia dalla storia?
3 Che cosa sono la peripezia e il riconoscimento di cui parla Aristotele? Fai almeno un esempio dell’una e dell’altro.
4 Quali sono le cosiddette unità aristoteliche e quale valore hanno?
5 Come devono essere i caratteri secondo Aristotele?
6 Ricorda in sintesi qual è la funzione del coro tragico secondo alcuni interpreti.
7 Quali sono i pregi del linguaggio poetico secondo Aristotele?
8 Che cosa è la metafora e perché è significativa dell’intelligenza di chi la impiega?
9 Enumera le “parti quantitative” della tragedia.
10 Perché il trimetro giambico è il metro più adatto alle parti dialogate della tragedia?
11 In che cosa consiste la collisione tragica tra due unilateralità di cui parla Hegel nell’Estetica ? Fai almeno un esempio.
12 Per quale ragione Schopenhauer preferisce la tragedia cristiana a quella greca?
13) Qual è la caratteristica di tanti eroi mitici secondo Freud e come, dal mito e dalla storia, si sviluppa la tragedia?
Bologna 3 febbraio 2024 ore 18, 51 giovanni ghiselli
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[1] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 112.
[2] Basta la vita! In realtà è il v. 1314. A questa espressione sconsolata di Cassandra se ne può accostare una simile dell'Elettra di Sofocle che del resto desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo: "tou' bivou d j oujdei;" povqo" "(Elettra, v. 822), non ho nessun desiderio di vivere. ndr
[3] Schopenhauer, Supplementi, pp. 112-113.
[4] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 113..
[5] G. Guidorizzi, Op. cit., p.XIV.
[6] A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.
[7] Di Marco, Op. cit., p. 129.
[8] E’ un frammento (Nauck, 80) dell’Alcmeone: “ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. Ndr.
[9] Schopenhauer, Supplementi, p. 116
[10] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 341.
[11] Di Goethe ovviamente ndr.
[12] Di F. Schiller, 1801 ndr.
[13] Pure di F. Schiller, 1802 ndr.
[14] poiché il delitto maggiore dell'uomo è essere nato, La vita è sogno , I, 2.
[15] Personaggio di I masnadieri (1781) di Schiller.
[16]A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, pp. 341- 343.
[17] Trilogia di F. Schiller.
[18] . Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, III. 51, p. 344
[19] Tentativo di autocritica ( aggiunto nel 1886) alla Nascita della tragedia (del 1876) , p. 12.
[20] Scelta di frammenti postumi, primavera 1888-14, p. 229.
[21] Participio perfetto medio passivo di fuvrw. La confusione anche qui è emblema di male.
[22] Come Capanno, poi colpito dal fulmine di Zeus.
[23] Nella pagina precedente Freud dà questo chiarimento “Nel 1909 Otto Rank-allora subiva la mia influenza- pubblicava per mio incitamento uno scritto dal titolo Il mito della nscita dell’eroe.”
[24] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, primo saggio, in Freud Opere, 1930-1938, pp. 340-342..
[25] E’ l’ultimo scritto di Freud, insieme con il Compendio di psicoanalisi del resto incompiuto. Uscirono entrambi nel 1938. nota p. 26
[26] C. Darwin, The Descent of the Man (Londra 1871) vol. 2, pp. 362 sg.; J. J. Atkinson, Primal Law, nel volume a cura di A. Lang, “Social Origins” (Londra 1903) pp. 220 sg.
[27] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, terzo saggio, in Freud Opere, 1930-1938, p. 403.
[28] S. Freud, Op. cit., p. 404.
[29] S. Freud, Op. cit., p. 405.
[30] S. Freud, Op. cit., p. 405.
[31] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 349
[32] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 350.
[33] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 353.
[34] Più avanti (Terzo saggio, p. 439) Freud ne dà un’interpretazione: “La circoncisione è il sostitutivo simbolico dell’evirazione, che un tempo il padre primigenio nella pienezza del suo potere assoluto aveva inflitto ai figli; chi accettava questo simbolo, mostrava con ciò di essere pronto a sottomettersi al volere del padre se questi gli imponeva il sacrificio più doloroso”.
[35] S. Freud, Op. cit., secondo saggio, p. 355.
[36] S. Freud, Op. cit., terzo saggio, p. 408.
[37] S. Freud, Op. cit., terzo saggio, p. 409.
[38] S. Freud, Op. cit., terzo saggio, p. 410.
[39] Gerorge Steiner, Nel castello di Barbablù, p. 39 sgg.
[40] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (del 1921) in Freud Opere, 1917-1923, p. 311.
[41] S. Freud, Opera e pagina citate sopra.
[42] S. Freud,, Op. cit., p. 269.
[43] S. Freud,, Op. cit.,, p. 312.
[44]G. Orwell, 1984 , p. 142. Edizione inglese p. 139.
[45]G. Orwell, 1984, p. 134.
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