venerdì 7 marzo 2025

IV capitolo. prima parte. Il picnic crepuscolare. Elena alla finestra.

Il giorno seguente cercai distrazione dalla dolce, materna Marjantola parlando e giocando con gli amici e i conoscenti che in quel luogo e in quel tempo erano già, e ancora, molti; insomma feci un tentativo di togliere significati speciali a quella donna che era bella, fine e buona quanto si vuole, ma poteva  pure  essere incinta di un altro uomo.

Magari era stata ingravidata da un gonzo durante un intervallo tra una sbornia e la successiva, in un letto freddo, in un amplesso senza passione né attenzione, pensavo.

 Comunque l’immagine di lei, eternamente viva[1], mi volteggiava sempre davanti e mi assillava.

Non potevo essere più forte di Zeus che ha potere sul cosmo, eppure è schiavo di Afrodite. Del resto la mia intenzione in quella circostanza non era lo scatenato libertinaggio del dio che è stato il primo dongiovanni della storia. Volevo essere amato dalla donna che amavo.

La tenacia del sentimento e del proposito  voleva dire che Elena, anche solo pensandola, mi insegnava più cose e più importanti di quante ne potevo imparare dal resto dell’ambiente di studio e di eros, dove, in seguito a quattro estati di varie esperienze, avrei potuto passare un quinto mese piacevole con una ragazza gradevole, lieta e disinvolta, come avevo fatto l’anno precedente con la finnica Katina, o anche vivere un amore mensile allegro  con una femmina umana già conosciuta o con una ragazza carina ancora intentata, una che significasse qualcosa, ma  non mi obbligasse a pensarla continuamente e spietatamente al pari di Elena, intensa e piena di simboli come un’opera d’arte, e pure problematica da ogni punto di vista.

Non volevo soffrire troppo  JElevnh~ e[nek j hjukovmoio[2], per Elena dalla bella chioma, eppure non riuscivo a staccare il mio pensiero da lei, e ne dedussi che lasciar trascorrere invano quel mese importante, ossia ricco di rapporti con il passato e ponte di passaggio verso un futuro migliore, come lucidamente  prevedevo, trascorrerlo con una qualsiasi, anzi con qualsiasi altra donna, non era destino per me e non mi conveniva; allora dovevo impegnare tutte le mie forze in un rapporto pur faticoso e travagliato con  Elena Marjantola perché mi guidasse a conoscere nuovi e reconditi aspetti dell’anima mia.

Non potevo eliminare questa donna che non doveva eliminare me[3].

Ci sono difficoltà e ascese impervie che non dobbiamo evitare poiché ci salvano da cadute retrograde in precipizi scoscesi. Ci troviamo davanti a  problemi, problhvmata, veri ostacoli che dobbiamo in ogni modo affrontare e superare.  

Nel pomeriggio venne a cercarmi Katalin. Mi invitò a una cena in un giardino situato nella zona universitaria. Con noi ci sarebbero stati altri ungheresi; io potevo portare Claudio che piaceva a una sua amica , una montagna di donna con i fianchi enormi cinti di drappi coloriti, un “porcone, un maiale doppio[4]”, la definì impietosamente il compagno come la vide. Subito dopo però aggiunse: “questa ingrassa campando a lardo e burro, tuttavia grugnisce di voglia anche erotica: potrei levargliela facendo la cosa più degenerata della mia vita  ”.

Parole prive di carità, com’era spesso l’amico, il più colto di tutti noi del resto.

Comunque avremmo arrostito della carne e, probabilmente seduti, o distesi, sull’erba del prato ameno, avremmo dato spinta e incentivo all’ orgia estatica bevendo il noto vino rosso della terra magiara, l’Egribikavér, ossia il “sangue di toro di Eger”.

 Dopo cena, siccome il marito di Katalin era andato, per affari suoi, sul lago Balaton, cioè agli antipodi della peraltro piccola terra magiara, io e la bella sposa lasciva avremmo potuto fare  quasi tranquillamente il comodo nostro. Il programma mi lusingava e, per dirla tutta, mi stuzzicava. Il destino mi offriva il destro concreta di sfuggire a un amore pieno di problemi quanto una tragedia greca. “Molte sono le cose inquietanti, e nulla è più inquietante di Elena”, pensai[5].

 

 Katalin non era una cima, ma, te lo rammento lettore, era una vera bellezza. La donna più bella tra quante, del resto non tante, non ho conosciuto del tutto mentre avrei potuto. Libertino a metà, dimidiatus impudicus.

 Con questo stato d’animo inquieto, mi recai al picnic sul prato. Era il tramonto di una sera estiva, “piena di voli”[6] e propizia all’oblio della finlandese pregnante oppure malata: una di quelle sere di luglio nelle quali si gode la potenza dell’estate matura,  scemata ancora di poco rispetto al culmine di giugno, eppure in misura  percettibile dalla posizione del sole occidente già retrocesso, e dai colori meno vivaci; comunque si preannunciava una di quelle notti ancora brevi e calde, dall’aria liscia, calma e odorosa dove è piacevole indugiare a oltranza, anche fino all’aurora, per non perdere, con lungo, sconsolato rimpianto, nell’autunno tetro e piovoso, un dono di Dio raro, bello e fugace come la gioventù, come l’amore, come  la  stessa vita.  Garrivano tutt’intorno le rondini, le rane remote del laghetto  gracidavano alla boscaglia il loro verso brekekeke;x koa;x koavx [7] . Le azzurre cetonie ronzavano ancora nell’aria che si imbrunava colorandola di piccoli lampi verdi. Alle carezze del vento caldo, ondeggiava adagio il mare della grande, felice  foresta.

Si respirava con gioia la dolce e piena tranquillità della bella stagione suscitata dall’aurea Afrodite che ama il sorriso. Quanto a fare l’amore con Katalin, avrei deciso più tardi. Avevo intenzione di mangiare e bere non troppo, studiando la situazione, e considerando bene se mi conveniva, e piaceva davvero lasciare cadere il sentimento forte, inquietante appunto, e molto difficile da concretizzare, per l’artistica, pierfrancescana signora del parto, in cambio di un’orgia non dionisiaca, né apollinea, insomma non santa, con una ragazza tanto giovane e bella, quanto  stonata e confusa. Veramente la sera prima avevo promesso a Elena che sarei andato a cercarla, ma questo, casomai, potevo farlo più tardi, anche molto più tardi. Erano appena le otto. “C’è tempo per mangiare, bere, osservare e decidere”, pensai. “Tutto il tempo”.

Ma quando ebbi assaggiato un poco di carne arrostita e bevuto un bicchiere di sangue di toro, sentivo angoscia per quanto dicevano quei giovani consumisti magiari, seriamente occupati a parlare di vestiti, di motori, di scarpe. Lo facevano in modo tale da disturbare la mia sensibilità estetica ed etica, mentre il fumo della carne arrostita contaminava la dolce aria notturna con volute dense e acri che prendevano a schiaffi il cielo e   nascondevano quasi tutte le stelle . “Eschilo sostiene che Giustizia brilla nelle case dal povero fumo”[8], pensai, “ma questo fumo, prima che povero, è brutto e irritante”  Lì, nonostante la bellezza di Katalin, non c’era cosmo, ma guazzabuglio e  stupidità. Aleggiava la sventura su quel prato di ottenebrati dall’ignoranza.

A un tratto mi alzai per allontanarmi da quella gioventù traviata, segno oltretutto del fallimento educativo di un regime che avrei voluto molto migliore del nostro. Io già allora auspicavo una società di donne e uomini  inclini alla spiritualità, alla cultura. Un popolo  di persone buone, non desolate dal bisogno di cose inutili, solidali tra loro e contente.  

  L’uguaglianza  è legge di natura,  è legge cosmica cui si sottopone perfino la luce:" l'oscura palpebra della notte e la luce del sole infallibile, percorrono uguale il ciclo annuo”, dice Giocasta[9] ammonendo il figlio Eteocle che ha fatto l’elogio della tirannide, un’ingiustizia fortunata[10] secondo la madre.

“Questi non sono comunisti”-pensai. “ Sono consumisti frustrati.

 Se il comunismo non è capace di educare i giovani, non potrà durare a lungo.

I  suoi teorici dovrebbero rammentare  Platone oltre che Marx: “ nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti né la violenza, né l’ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi. Erano buoni[11] in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità” [12] .

 Uno di quei poveretti mi domandò  quanti cavalli avesse la mia “bella macchina nera”. Non lo sapevo, proprio non lo sapevo, e non mi interessava saperlo. “Uno bianco e uno nero e io sono solo il vetturino”, risposi. Contro la  stonatura, l’unico argomento è l’ironia. Grazie alla coscienza che stavo prendendo dalla finnica mia, la volgarità mi appariva più volgare, la stoltezza più stolta.

 Pensai del resto che i poveri saranno sempre fregati finché ammireranno e cercheranno di scimmiottare  i reputati ricchi, veri o presunti che siano.

La pubblicità gioca su questa misera mimesi dei miserabili. 

 Di bere altro vino, pur buono, in mezzo a quella greggia stremata, di fare l’amore con Katalin, pur bella e disponibile  in quanto la poveretta, errando, vedeva in me un giovin signore dell’agognato mondo capitalistico, non mi andava.

Il desiderio mio unico e fisso era lei: Elena. Ero  pieno dello spirito santo di quella signora, anche se alcuni presenti vedendomi tanto distratto potevano pensare che fossi pieno di mosto. Si stava compiendo il giorno della mia Pentecoste[13].

Sentivo con dolore la mancanza e l’atroce bisogno di quella mirabile donna finlandese, delle parole, dello stile, dell’aspetto di lei. Mi scusai con Katalin, poco cortesemente, anzi un poco crudelmente, ma del tutto sinceramente: non potevo rimanere, poiché mi mancava una persona che a sua volta aveva bisogno di me. Parlavo senza imbarazzo, siccome dicevo parole sentite profondamente. “Senti Katalin-dissi con aria compunta- tu sei splendida e sicuramente un giorno rimpiangerò di non avere fatto l’amore con te. Adesso però sono innamorato di un’altra e devo, e voglio andare da lei. Non posso fare diversamente”. Ci rimase male, ma non cercò di trattenermi. Balbettò alcune parole insignificanti, che non ricordo. La memoria è un affresco scrostato delle parti meno belle. O di quelle migliori, secondo il carattere.

Gli altri crapuloni, sparsi nel prato del fumo che oscurava le stelle, nemmeno si accorsero che me ne andavo, sicchè , alzata appena una mano per un saluto collettivo e generico,  mi lanciai di corsa verso la radura del laghetto illuminato dalla luna scoperta. 

Soffrivo la mancanza di una relazione amorosa profonda, mi sentivo come viene descritto Eros, figlio di Penia[14], nel Simposio di Platone: un  mendicante dell’amore e della bellezza.

 Passai, sempre  correndo, sopra il ponticello di legno che risuonò non cupamente al battito svelto dei miei agili piedi, attraversai d’impeto il piazzale con la fontana dagli zampilli variopinti, come la mia vita, pensai,

vedendo l’acqua che luceva  policroma per i raggi  lanciati da fonti di luci diverse.

La luce che mi sentivo dentro però veniva da Elena.

In poco tempo arrivai sul prato antistante il collegio dove la mia compagna, speravo, mi stava aspettando. Se non era già andata via. Speravo,  temevo, pregavo. La terra è in mezzo alle stelle  che danzano gioiosamente guidate da Dio chiunque egli sia, e sulla terra, qui a Debrecen, ci sei tu Elena, e forse mi pensi, e mi aspetti, e sei innamorata di me.

Infatti, infatti Elena c’era: era stata provvida la rinuncia a ubriacarmi, a ingozzare tanta carne degli spiedini di porco, e ben fatta la rinuncia  a lisciare, la carne tornita di Katalin, anche se il premio doveva rimanere soltanto quello: avere visto Elena che mi aspettava in camera sua  affacciata alla finestra aperta sul prato umido di rugiada che luccicava di luna. Innumerevole sorriso dei roridi steli[15].  

Vedere la sua figura  mi riempì di alta letizia. “Dio, accetto l’augurio”, pensai.

“Ciao”, dissi, come giunsi anelo sul rettangolo di erba illuminata non solo dalla casta diva celeste, ma anche dalla luce della finestra che incorniciava Elena. La donna, “sì lieta come bella”[16] aveva un’espressione di contentezza, forse proprio perché mi aveva visto arrivare. Traluceva dagli occhi amabilmente ridenti la gioia dell’attesa appagata. Elena aveva un’anima più buona e meno  contorta della mia. Anche per questo l’amavo.

“Ciao, sono venuto qua di corsa in cerca di te”. Ripresi fiato quasi subito, siccome quell’estate correvo sistematicamente, ossia tutti i giorni, anche due volte al giorno, cinquemila metri allo stadio. In meno di diciannove minuti. Dovevo essere in forma perfetta: ci voleva per l’amore che mi spettava e aspettava.

Era necessario che avessi un aspetto stilizzato  artisticamente.

Ci ero vicino. Sentivo che padroneggiavo il mio corpo, lo dirigevo dove e come volevo, quasi senza fatica. Non ero appesantito da carne che non fosse la mia. Avevo voluto una figura priva di ridondanze, effigies ingenii mei, un’immagine del mio carattere che cercavo di scolpire nella roccia del Bene e del Bello. 

  Fatta una breve pausa, ricominciai: “Scusa, ho dovuto riprendere fiato. Poco fa mi trovavo dall’altra parte del bosco con gente che non mi piaceva, persone poco belle, poco fini, e ho sentito la mancanza, il bisogno della tua nobile semplicità”[17].   

Elena riversò su di me la luce scintillante del volto.

Attraverso l’aria serena brillava la letizia del suo sorriso.

Disse le parole che speravo: “Anche tu mi sei mancato tanto. Nel pomeriggio ho provato a parlare con altri, ma non ho sentito niente di interessante.

Luoghi comuni, stupide banalità, il rovescio dell’intelligenza. Io mi trovo bene, mi sento a mio agio con te, Gianni. Tu hai qualche cosa di speciale, di geniale, per lo meno di congeniale a me. Scusa un momento, mi cambio e vengo. Cosa vuoi che mi metta?”

Le vedevo soltanto una maglia bianca a righe azzurre.

“Vèstiti di bianco, tesoro, di bianco e sportiva, se puoi”.

Mi riferivo a un sua tunica senza maniche, di spugna, che le arrivava un palmo sopra le ginocchia rotonde e le stava magnificamente. Era come la proiezione di un aspetto della sua persona morbida, delicata, accogliente. Io, per godermi in pieno l’aria calda della notte dolce e profumata, e pure, a dirla tutta, per sfoggiare la linea recuperata con fatiche, disciplina e successi davvero olimpici dopo l’ ingrassamento dei tre mesi in caserma, ero uscito in calzoncini succinti e maglietta di cotone, molto attillata. Elena si ritirò dalla finestra. Frattanto levai gli occhi al cielo con gratitudine. Era la prima volta, arrivato a ventisei anni  otto mesi e qualche giorno, che una donna di cui ero innamorato mi contraccambiava e forse, probabilmente, sarebbe venuta a letto con me. Quella notte, ero sicuro, l’avrei almeno baciata. Avrei assaporato la sua lingua materna, nutrice e santa.

Avrei poi raggiunto lo scopo finale con un discorso ricco di pathos persuasivo,  ma non privo di logos convincente né di mythos affascinante e seduttivo

 Una morbida trama inserita in un ordito robusto. 

 

Bologna 7 marzo 2025 ore 20, 23 giovanni ghiselli

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1696006

Oggi284

Ieri383

Questo mese3061

Il mese scorso23432

 

 

 

 



[1] Cfr. Sofocle,  Edipo re, v.482.

[2] Esiodo, Opere e Giorni, 165.

[3] Faccio un gioco di parole tra il verbo eliminare -ejlei`n- e il nome Elena.

 L’ho imparato dall’Agamennone di Eschilo (- eJlevna~, e{landro~- eJlevptoli~, vv. 690-691, quella che distrugge le navi, gli uomini, le città) e dalle Troiane di Euripide.

 In questo dramma Ecuba suggerisce a Menelao di ammazzare Elena  (  J Elevnh)  mhv s j e{lh/ povqw/, v. 891), perché non ti seduca  con il desiderio. Costei, continua Ecuba: “aiJrei` ga;r ajndrw`n o[mmat ,j ejxairei` povlei~- pvimprhsin oi[kou~ , conquista gli occhi degli uomini,  devasta le città, incendia i palazzi (892-893)    

Anche io, come Callimaco “non canto nulla che non sia testimoniato” pur quando racconto fatti miei. Questi devono avere  interesse e assumere valore per tutti.

 

[4] Cfr. doppelt Schwein, Goethe, Faust I, La taverna di Auerbach a Lipsia.

[5] Avevo in mente  lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone :"polla; ta; deina; koujde;n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333).

 

[6] Cfr. Pascoli, Paulo Uccello, 16-17.

[7] Avevo in mente quelle di Arisofane (Rane225)

[8] Divka de; lavmpei  me;n ejn -duskavpnoiς dwvmasin, Agamennone, 773-774.

[9]  Cfr- Euripide, Fenicie, 543-544.

[10] Euripide, Fenicie, 549.

[11] Il personaggio “l’Ateniese” parla degli uomini sopravvissuti al diluvio.

[12] Platone, Leggi, 679b-c.

[13] Cfr. Nuovo Testamento,  Atti degli Apostoli, 2: Et cum compleretur dies Pentecostes repleti sunt omnes Spiritu Sancto…alii autem irridentes dicebant: “Musto pleni sunt isti”.

 

[14] Povertà.

[15] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato,  pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma (vv. 89-90). innumerevole sorriso/delle onde marine  

 

[16] Dante, Paradiso II, 28.

[17] Confronta la nobile semplicità e la quieta grandezza (edle Einfalt und stille Gröbe) delle statue greche in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di J. Winckelann

 

Nessun commento:

Posta un commento