Ripresi a pensare:“La sorte è capricciosa, balzana, e fa salti imprevedibili, ma se il valore la imbriglia si lascia guidare.
La mamma talora indifferente o furente, le zie pretificate e fasciste, la nonna imperiosa, le avevo domate tutte dopo la sottomissione subita da bambino; con loro mi ero rifatto quasi completamente. Questa finnica bella e fine sembra dotata di una potere benefico; ma allora, a maggior ragione, potrà, dovrà arrivare ad amarmi, a unirsi con la mia natura, non del tutto ignobile forse, non proprio fiacca, spero. Elena pare una donna di grande formato e levatura; allora, in questo ambiente di giovani disordinati, clerici vagantes dalle idee poco chiare, di uomini grigi e rassegnati, e di vecchi sfiatati, di demoni e coboldi, dove può trovare un uomo, se non proprio in me? Se tutta la natura è imparentata con se stessa[1], questa femmina finnica è particolarmente imparentata con me, mi è congeniale”
Cercavo di rinfrancarmi così.
Esageravo nel denigrare gli altri, facendone un mucchio deforme oltretutto, un impasto tellurico, per mettermi su un altare accanto alla mia dea, quella che si sarebbe rivelata la magna mater, non mediterranea del resto ma iperborea.
Madre anche del mio destino, della mia vita futura.
Invero l’ Università estiva di Debrecen ospitava giovani e meno giovani di qualità superiore alla media, una media per giunta che nei primi anni Settanta non era certo inferiore a quella dei decenni precedenti e successivi: allora tra quelle persone di educazione accademica, circolava maggiore curiosità, cordialità, simpatia e facilità nei rapporti di amicizia e di amore. Si parlava retoricamente e pure politicamente, si cantavano canzoni politiche a preferenza delle goliardiche oscene delle vecchie feste delle matricole parafasciste e delle sentimentali soggettive e lagnose.
Ritenevamo inutile ciò che non era anche politico[2].
Insomma l’ambiente nell’insieme era bello e stimolante. C’erano anche persone valide dalle quali potevo imparare. Soprattutto c’erano tante ragazze squisite.
Ma in quei giorni avevo deciso che la magna mater et magistra , e l’amore, poteva essere solo lei.
Consideravo che c’era un mese davanti a noi e tante lezioni con intervalli tra le ore e diverse altre feste, insomma occasioni varie per avvicinarla e tentare con tutte le forze di piacerle. Sì, perché guardandomi in giro, avevo già visto che se la mancavo, nessun’altra mi avrebbe mai compensato di tale fallimento. Certamente non in questa vita e probabilmente nemmeno nelle prossime cento. “Ragazza spirituale pneumatikh; kovrh”-pensavo- all’epoca senza ironia. “Bella, fine, sublime, predestinata a me ab aeterno.
La sua anima non è come quella dei maiali e di tanti che sembrano uomini”.
Avevo imparato dallo stoico Cleante che i porci hanno l’anima (e[cein th;n yuchvn) invece del sale (ajnq j aJlw`n), solo perché non imputridiscano le loro carni, escrescenze di corpaccioni pigrissimi, come le pance di certi otri ambulanti dalla vanità che nemmeno sembra persona.
“Voglio farmi tornare in mente le cose interessanti che ho imparato e raccontargliele-pensai-Devo impressionarla, vincere l’ indifferenza di lei nei miei confronti.
Dare spettacolo con parole di brevità e di forza, come ho imparato dalle tragedie di Seneca.
Dammela, Dio, dammela. Cosa ti costa? Non l’hai creata tu stesso, con le tue mani, così bella e fine apposta per me? Per chi se no? Dio, se me la dai, te ne sarò grato per sempre; sempre crederò in te e celebrerò il tuo nume ogni due giorni, anzi tutti i giorni che vorrai regalarmi, Dio buono. Il mio altare fumerà sempre di sacrifici santi, per te. Se non me la dai, invece, potrei degradarmi, bestemmiare, ingrassare, e andare con la nera Volkswagen scoperta, sul lungomare di Rimini, a insultare le puttane, forsennato, sconvolto da un doloroso delirio, completamente ubriaco .
Questo magari no, no in ogni caso. Bestemmiare nemmeno, poiché infamare gli dèi è odiosa sapienza[3]. Allora dammela, Dio santo, tu che mi hai aperto anzi tempo[4] le porte del carcere cieco della seconda caserma, quella degli sciacquini, dove mi facevano lavare i piatti di giorno e stare sveglio davanti al muro di cinta con il fucile scarico in spalla quasi tutte le notti perché nella prima caserma dove facevo il Car avanzato nella compagnia atleti avevo detto a un commilitone infame, tal Gariboldi, che ero comunista, e quel fascista aveva fatto la spia. Ma tu, dio della giustizia, mi hai salvato con un anno di anticipo, il 15 maggio scorso. Il trasferimento aborrito con degradazione dunque era stata una “provvida sventura”. Sotto la gioia di quel congedo anticipato la pena gravida di rinascente rancore, era finita. Dopo quei cento giorni di morte civile e sessuale passati in due caserme, voglio ribattezzarmi con gli umori santi del corpo e della mente di Helena,
Ora rendimi interessante agli occhi di questa femmina finnica, una femmina umana di grande formato!
Anzi questa donna è il modello delle forme: ha la bellezza di Afrodite, la mente di Themi, la favella di Atena !”.
Così pregai, con franchezza, senza ironia che non si addice a chi ama.
Dio mi guidò, Dio mi esaudì. Del resto le mie divinità sono state, volta per volta, le donne che ho amato. Dominae e pure femmine umane.
Mentre pregavo così, quasi a mani giunte, la guardavo con aria seria e sospirosa dal tavolo non poco chiassoso degli Italiani. Quello sospiratissimo delle Finlandesi era in vista come una terra o un mare promessi al mio desiderio: Elena parlava pacatamente con un paio di sue connazionali sbiadite. Notai che non fumava. Era perfetta, era la mia dea, il completamento di me, spezzone di essere umano, era lei. Noi, due spezzoni di un essere unano, riuniti insieme avremmo costituito il simbolo, il segno di riconoscimento dell’amore.
Bologna 5 marzo 2025 ore 18, 25
giovanni ghiselli
p. s.
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[2] Tucidide, il creatore della storia politica, fa dire a Pericle:"movnoi ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on nomivzomen" (Storie, II 40, 2), siamo i soli a considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.
[3] Cfr. Pindaro, Olimpica IX : “ejpei; tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva” (vv. 37-38).
[4] Il mio servizio militare è durato un centinaio di giorni: poco più di tre mesi invece di 15. Lo interpretai come il segno di un destino buono. Più tardi lessi con queste parole in un Saggio autobiografico di T. Mann, e me ne compiacqui: “Dovevo fare il mio anno di servizio militare che però si ridusse a tre mesi…Il medico curante di mia madre conosceva l’ufficiale medico competente”. Anche a me è andata così. Più o meno.
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