Ovidio negli Amores (I,15,15) predice che alla tragedia di Sofocle il tempo non
porterà alcun danno:"Nulla Sophocleo
veniet iactura cothurno ".
I secoli gli hanno dato ragione. Per quale motivo la lettura dell'Edipo
re sofocleo è ancora oggi proficua, produttiva di idee e sentimenti? Non solo
perché è un'opera densa di significati molteplici e tuttora vivi, ma anche per
il fatto che parla di noi tutti e arricchisce l'autocoscienza di ciascuno.
Werner Jaeger in Paideia (I vol. p. 482) afferma che l'idea della misura greca si
può contemplare come da una vetta collocandosi sul punto dove è Sofocle.
Ebbene, tale misura è quella delfica del "nulla di troppo" e del
"conosci te stesso"; è l'ingrandimento dell'Io a spese dell'Es, che,
per dirla con Freud, va bonificato al pari di una palude; è il pio
riconoscimento di una giustizia insita nelle cose, e, in definitiva, è il
reperimento dell'armonia tra se stessi e la vita: valori che si possono
considerare eterni. Un poeta tanto più è universale, quanti più esseri e
situazioni umane la sua opera abbraccia e comprende, quanto più profonde sono
le fosse dell'anima nelle quali si interna.
Questo dramma possiede la forza di condurre chi lo ascolta, o lo legge,
a inabissarsi in se stesso, come può fare un sogno molto denso di significati,
rappresentato però con chiarezza apollinea.
E' il massimo pregio di Sofocle e dell'Edipo re. Se dovessi scegliere un libro
da salvare, salverei questo. Con il mio commento naturalmente
Ci sono tanti aspetti che possono andare
incontro ai bisogni spirituali dei giovani e dei non giovani. C'è la lotta
dell'anima religiosa contro l'illuminismo della sofistica. Questa tendeva a
screditare, smontare o abbattere tutti i monumenti della tradizione sacra, cominciando dagli oracoli attraverso i quali
il popolo devoto sentiva pullulare il numinoso e risuonare la volontà degli dei
intesa a dare una forma e un significato alla vita umana altrimenti caotica e
insensata.
Il poeta tradizionalista ingaggia una
battaglia contro il relativismo gnoseologico diffuso tra gli intellettuali come
Protagora che influivano pure sulla direzione politica della città. All'uomo
misura di tutte le cose, e dunque sfrenato nel proprio arbitrio, Sofocle
contrappone il punto fermo della fede negli dei olimpi che non possono
tramontare né invecchiare senza che il mondo ripiombi nel caos primordiale. Per
lui, misura di tutte le cose è Dio. Tale idea del resto si può trovare in
autori religiosi di altri tempi e di altri luoghi. Tolstoj, in Guerra e pace (p. 1607) scrive:"
Per noi, con la misura del bene e del male dataci da Cristo, non esiste nulla
di incommensurabile e non c'è grandezza là dove non c'è semplicità, bene,
verità".
Certamente il poeta di Colono non poté
cambiare il corso della storia, però ebbe l'ardire di nuotare contro le onde
della moda culturale del suo tempo. La parabola della religione olimpica di
fatto era in fase discendente, ma il bisogno del sacro è insopprimibile nell'uomo,
e l' Edipo re di Sofocle, ancora
oggi, dà voce a questa esigenza, indicando con dito teso le nefandezze cui può
giungere l'intelletto quando presume troppo di sé, e, gonfio di vano orgoglio,
soffoca la vita con la dialettica atea e
con i sofismi.
Il tiranno Edipo è l'antieroe esemplare
dell'individuo che, fidandosi ciecamente della propria intelligenza, produce
una dicotomia tra la sua esistenza effimera e la vita eterna del cosmo
significata da oracoli e profeti. Egli fallisce per miseria morale e per angustia
di visione mentale che si allargherà solo in un secondo tempo, in seguito
alla perdita del potere e della superbia
derivata dai suoi orpelli ingannevoli, e, paradossalmente, anche alla
autosoppressione della percezione oculare[1].
Allora il despota, degradato a mendicante,
comprenderà che nella fase dei presunti successi, quando credeva di capire
tutto e di arrivare dovunque volesse, aveva danneggiato la natura e offeso la
vita. A questa affermazione colpevolista si può obiettare che Edipo ha ucciso
il padre e sposato la madre senza saperlo. Supporto autorevole
a tale difesa è un passo della Poetica
(1453a), dove Aristotele dice che il
protagonista del nostro dramma è tale da suscitare pietà e terrore, e dunque
funziona bene nell'ingranaggio tragico, in quanto si trova in condizione atroce
senza essersela meritata completamente, e piomba sì nell'infelicità con
peripezia precipitosa, ma solo per un qualche errore, di j aJmartivan tinav, un difetto
piuttosto intellettuale che morale. Noi riteniamo che Sofocle abbia voluto
denunciare entrambe le carenze del protagonista: quella etica e quella mentale,
le quali del resto coincidono. Il ragazzo che si allontana da Corinto
misurandone la distanza con le stelle (v.795) ha perpetrato comunque una strage
ammazzando quattro uomini, tra i quali un vecchio che per giunta gli
assomigliava (v. 743), solo perché volevano spingerlo a forza fuori dalla
strada: insomma reagendo a uno sgarbo con
spropositato puntiglio omicida. Così il trovatello "piedone",
divenuto poi principe di Corinto, e quindi vagabondo, ha imbrattato la madre
terra con il sangue delle sue creature e l'ha offesa, per la simpatia organica
che la lega a queste. Già Eschilo nell'Orestea
aveva proclamato che il sangue,
soprattutto se di un genitore, versato al suolo non si raccatta né si riscatta
( Eumenidi vv.260 e sgg.); che vana è
la fatica di spargere tutti i libami per una goccia sola di sangue ( Coefore
vv.520-521); e che il nero sangue di un uomo, una volta caduto sulla
terra, nessuno può chiamarlo indietro con incantesimi (Agamennone vv.1019-1021).
Sulla stessa linea si trova il Manzoni quando, nelle Osservazioni sulla morale cattolica (cap. VII) scrive:" Il sangue di un uomo
solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta
la terra". Se lo ricordino i fautori della pena di morte.
I delitti di Edipo dunque continuano a
girare nel mondo finché egli non viene confutato dalla umiliazione di quel suo
intelletto orgoglioso e violento il quale aveva osato proclamare la propria
superiorità nell'indipendenza dai segni del cielo e della terra che i vati
invece considerano divini (vv.396-397).
Sofocle vuole insegnarci che una vita umana
in disarmonia rispetto al ritmo di
quella cosmica, prima si inalbera in convulsioni atroci, poi diviene identica
al nulla (v.1188). Egli è abilissimo nel condurci passo dopo passo fino alla
soluzione del mistero che avvolge Tebe:
questa ha un ottimo re, paterno e generoso verso i sudditi che lo considerano,
se non proprio uguale agli dei (v.31), certamente il primo degli uomini (v.33).
Eppure questa città soffre di peste e sterilità, i mali che solitamente toccano
alle comunità dominate da un capo cattivo la cui nequizia si riverbera sulla
sua gente. Viceversa un governo di uomini onesti e capaci rende prospera la
popolazione. Si tratta di un tovpo"
letterario già presente e vivo nell'Odissea
(XIX,108-114), e ribadito nelle Opere di Esiodo (vv.240-244). Il lettore, o lo
spettatore, anche solo mediamente colto, sa bene che pure nel caso di Tebe
sconciata,"la mala condotta/ è la cagion che il mondo ha fatto reo".
Ho citato anche Dante (Purgatorio XVI,103-104)
per spiegare Sofocle, con l'intenzione di significare che la sintesi del poeta
di Colono influenza, direttamente o indirettamente, i successivi monumenti
letterari, in quanto tutta la letteratura europea, come dice bene T. S. Eliot,
da Omero in avanti ha un'esistenza simultanea grazie ad autori i quali
utilizzano la tradizione apportandovi il loro contributo e consegnandola ai
successivi rinnovata e arricchita.
La storia di Edipo è già presente nel canto
dei morti dell'Odissea, l'undicesimo (vv.271-280).
La versione del mito però in Omero è differente, a cominciare dal nome della
madre-moglie che si chiama Epicasta. Tale diversità fa venire in mente la
grande madre mediterranea, quella che il Prometeo
incatenato di Eschilo chiama: pollw'n ojnomavtwn morfh; miva (v.210), una sola
forma di molti nomi.
E. Fromm in Il linguaggio dimenticato
considera il parricida Edipo, e Giocasta, quali rappresentanti di quella
civiltà matriarcale, antiautoritaria, antistatale, che viene faticosamente
sconfitta dalla seguente cultura patriarcale, foriera del principio di autorità
impersonato da Creonte. In questo conflitto, il desiderio sessuale del figlio per
la madre non entra: "Nel mito non vi è indizio alcuno che Edipo sia
attratto o si innamori di Giocasta" (p.192). L'interpretazione dello
psicoanalista americano è fondata sulla lettura di parti del Mutterrecht di Bachofen, contaminate con
l'Estetica di Hegel, e polemizza con quella di S.
Freud il quale sostiene che in parecchi miti di vari popoli, l'eroe è il
giovane che sopravvive alla malevolenza del padre, quindi lotta contro di lui
per il possesso della madre fino ad uccidere l'aborrito rivale, realizzando
così il desiderio inconscio di tutti i maschi.
Ma vediamo alcune parole di L'interpretazione dei sogni :"Il
destino di Edipo ci commuove perché sarebbe potuto diventare anche il nostro,
perché prima della nostra nascita l'oracolo ha decretato la medesima
maledizione per noi e per lui. Forse a noi tutti era dato in sorte di rivolgere
il primo impulso sessuale alla madre, il primo odio e il primo desiderio di
violenza contro il padre: i nostri sogni ce ne danno la convinzione. Il re
Edipo che ha ucciso suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta, è soltanto
l'appagamento di un desiderio della nostra infanzia... Davanti alla persona in
cui si è compiuto quel desiderio primordiale indietreggiamo inorriditi, con
tutta la forza della rimozione che questi desideri hanno subito da allora nel
nostro intimo"(p.248).
Sofocle è dunque da un lato poeta
arcaicizzante e omerida siccome ripropone uomini disposti ad affrontare
l'estrema rovina pur di non cedere alla pressione della norma e di salvare la
propria identità minacciata, o anche solo di conoscerla; dall'altro offre spunti e suggerimenti agli autori dei secoli
successivi. Molti ne ho indicati nel commento al testo, e uno ne voglio
aggiungere in questa parte conclusiva: come Edipo trova la sua dimensione positiva
nella passività di Colono, dopo avere fatto soffrire e avere sofferto assai
nella fase dell'attività sconsiderata, così Giovanni Drogo in Il deserto dei Tartari di Buzzati
scopre"l'ultima sua porzione di stelle" (p.250) e sorride nella
stanza di una locanda ignota, completamente solo, mangiato dal male, accettando la più eroica delle morti, dopo
avere sperato invano, per decenni, di battersi"sulla sommità delle mura,
fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera". Invece
il suo destino si compie al lume di una candela, dove "non si combatte per
tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani
donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo".
Del resto gli eroi della passività nella
letteratura moderna sono tanti, da Oblomov di Gončarov, a Zeno di Svevo, per dire solo i più noti, e il
prototipo può essere considerato l'Edipo
a Colono del quale Nietzsche in La
nascita della tragedia (p.67) scrive:" L'eroe
raggiunge appunto nell'attitudine puramente passiva la sua attività suprema, la
quale continua ad agire molto al di là della sua stessa vita, mentre il
cosciente tendere e sforzarsi della sua
vita precedente lo ha condotto solo alla passività".
Non so se Buzzati e gli altri due romanzieri
menzionati conoscessero Edipo. E' probabile. Sono certo però che la poesia di
Sofocle è un momento cruciale della letteratura europea, è una di quelle grandi
arterie dove passa la corrente sanguigna della nostra civiltà, e non è
possibile ignorarla senza anemia culturale.
In occasione della morte di Federico
Fellini, rivisitando Otto e mezzo con la sensibilità attizzata dai drammi di
Sofocle, ho notato un'accettazione edipica del destino e di se stesso anche
nelle parole conclusive del protagonista del film, il regista Guido, alter ego del maestro riminese:"Tutto
é di nuovo confuso. Ma questa confusione sono io; io come sono, non come vorrei
essere".
L'Edipo
re dunque serve a interpretare con qualche consapevolezza non
pochi fatti della vita, privata e politica: le angosce personali, i meccanismi
del potere, l'ascesa più o meno irresistibile e la caduta ineluttabile di uomini arroganti, che, come il re di Tebe,
sono stati portati su alti fastigi dalla miseria dei tempi e dalla loro stessa
tracotanza, ma poi sono precipitati nella necessità scoscesa (cfr. v. 877). Non
solo ai nostri giorni, ma diverse volte nella storia, il re o il tiranno si è
capovolto in farmakov", in capro
espiatorio e mostro deforme. Infatti il tema ricorre nelle opere letterarie, e
l'abbiamo riconosciuto pure in un film
pieno di bellezza e cultura. Mi riferisco a Ludwig
di Visconti che racconta la vita e la morte del "lunatico re"[2]
di Baviera.
E' uno schema che Bachtin, l'interprete di Dostoevskij, ascrive alla letteratura
carnevalizzata e individua nei dialoghi dove campeggia Socrate, nella satira
menippea, e ne L' idiota del romanziere russo. Il carnevale rovescia e
relativizza tutte le situazioni, incorona e scorona il re, rompendo le putride
pastoie della menzogna ufficiale, mostrandolo nudo e indifeso. Così ha fatto la
tragedia greca, prima e meglio di tutta la letteratura seguente.
Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it
P. S
martedì
19 marzo alle ore 18 nella sala Rossini del Caffè Pedrocchi di Padova leggerò e commenterò il secondo stasimo dell’Edipo re di Sofocle (vv. 863-910).
[1] Gli occhi che Edipo
si colpisce da solo sono, secondo Freud,
il simbolo dei genitali:"l'accecamento
con cui Edipo si punisce dopo aver scoperto il proprio crimine è, a quel
che testimoniano i sogni, un sostituto
simbolico dell'evirazione".
Compendio di psicoanalisi, in Freud
Opere , volume 11, p. 617, nota 1
[2] To whose hands have
you sent the lunatic King? Speak ( Shakespeare, Re Lear ,
III, 7) in mano a chi avete messo il re matto? Parlate.
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