sabato 16 marzo 2013

Introduzione all’ Edipo re di Sofocle


Parte della sesta lezione del seminario. Tenuta a Bologna, lunedì 18 marzo in  via Zamboni 32, aula Guglielmi.

Introduzione all’Edipo re di Sofocle

L'Edipo re è la tragedia dell'uomo il quale, dopo avere conseguito un successo con la forza del suo ingegno, ritiene che l'intelligenza e l'attività umana possano arrivare dovunque, e siano in grado di risolvere i problemi, indagare i misteri, indipendentemente dagli dei, senza tenere conto dei segni del loro volere, trasmessi ai profeti attraverso gli oracoli, le fronde degli alberi, gli uccelli, o in altra maniera.
 Uno dei centri ideologici del dramma è costituito dai versi 396-398:"arrivato io,/ Edipo, che non sapevo nulla, lo feci cessare/ azzecandoci con l'intelligenza e senza avere imparato nulla dagli uccelli". Questa affermazione di autonomia, per Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è u{bri", dismisura, prepotenza, cecità intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa (v.877) del castigo e della espiazione.
La bestemmia contro il numinoso che, nel poeta di Colono, come in Erodoto, aleggia sulla terra assumendo varie forme, viene ribadita dal protagonista più avanti, in complicità scellerata con la regina Giocasta, al grido empio della quale:" O vaticini degli dei, dove siete?", il re fa eco con questa tirata blasfema:" Ahi, perché dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli uccelli/ che schiamazzano in alto?...Gli oracoli che c'erano, li ha presi/ Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla" (vv.964 e sgg.).
Edipo e Giocasta dunque sono rappresentanti di quel pensiero laico-sofistico cui Sofocle si oppone con tutta la sua produzione poetica, e più che mai con questo dramma, dove il coro, portavoce dell'autore, durante il secondo stasimo, domanda:"Se infatti tali azioni sono onorate,/ perché devo eseguire la danza sacra?" (vv.895-896). Se gli oracoli vanno in malora e Apollo è dimenticato, tutti gli dei tramontano (v.910); allora la stessa rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde ogni significato e diviene assurda. T. S. Eliot affermò che il dramma perfetto è la messa.
La presunzione intellettuale dunque è il vero peccato di Edipo: essa lo porta ad un attivismo smisurato il cui termine è, come per ogni dismisura, il dolore. Lo ha capito perfettamente un non specialista come Marcel Proust quando ne Il tempo ritrovato (p.190) scrive:" E meglio di un coro di Sofocle sull'umiliato orgoglio di Edipo, meglio della morte stessa e di qualsiasi orazione funebre, il saluto premuroso e umile del barone alla signora di Saint-Euverte proclamava quanto di fragile e perituro c'è nell'amore d'ogni terrena grandezza e d'ogni umana superbia" .
 In La nascita della tragedia (cap.9) Nietzsche ha sottolineato che il tendere e lo sforzarsi nella vita attiva, ha portato il figlio di Laio prima alla sventura, poi alla passività di Colono dove il "paziente", entrato in una sfera di trasfigurazione, raggiunge infine la sua dimensione  benefica riconoscendo i limiti stretti dell'attività e dell'intelligenza umana.
Sofocle pertanto è poeta religioso, particolarmente devoto alla deità delfica del "nulla di troppo" e del "conosci te stesso".
  Ma è anche un moralista, nel senso che suscita forze morali. Il succo del suo messaggio coincide con la quintessenza dell'etica: che non bisogna ledere la vita facendole del male e trascorrendola senza quell'equilibrio dovuto all' accettazione devota della  verità e della misura insita nell'universo.
La difesa dell'uomo vivente arriva al punto che il pio autore giunge a maledire Ares, il dio della guerra il quale viene deprecato e abominato come il "senza misura" (v.190) e "il dio disonorato tra gli dei"(v.215). L'esecrazione di Ares non è nuova: già Omero nell'Iliade  (V, 890) lo fa apostrofare da Zeus con queste parole:" e[cqisto" dev moiv ejssi qew'n oi}    [Olumpon e[cousin", tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo. Faccio notare per inciso che e[cqisto" è il superlativo attribuito nel prologo (v.28) alla peste (loimov") di Tebe. Nell'Edipo re, Ares è  smodato e disonorato poiché impersona il conflitto fratricida del Peloponneso, condotto senza rispetto della tradizione cavalleresca e senza riguardo per l'umanità. Un monito alla pace dunque si leva, tra gli altri, dai versi del poeta nauseato dal massacro del quale risuonano echi sinistri in questa tragedia.
Sono invece invocati e venerati gli dei che difendono la vita, la risanano (Apollo è il Paiavvvn,v.154, il guaritore) quando si ammala e non c'è arma della mente (v.170), ossia pensiero laico, atta a trovare una terapia per la paralisi che impedisce alle donne di partorire, agli alberi di fruttificare, agli uomini di amare e di vivere.
Intanto Artemide  canalizza l'aggressività  nelle gare e nelle cacce su per i monti (v.208), mentre Dioniso allieta l'umanità (v.211) con il vino.
Insomma nel testo si trova un continuo zampillare di quelle gocce luminose che costituiscono la voce misteriosa degli oracoli e nello stesso tempo l'intimità della coscienza religiosa dell'uomo europeo, tanto che risuona analoga in autori lontani nel tempo e nello spazio. Essa si scontra con il pensiero antroponomo[1] in una collisione tragica che tuttavia non esclude un ottimismo di fondo consistente in un assenso alla volontà divina la quale non può essere cattiva siccome permea questo mondo bello e sacro, rigoglioso di lauri, olivi e viti, allietato dal dolce canto degli usignoli numerosi in mezzo alla boscaglia di Colono, il demo natale del poeta.
E. Rohde, in Psiche (p.568), scrive: Sofocle "è di quegli uomini molto pii ai quali basta d'intendere appena la volontà divina per sentirsi pervasi di reverenza, e che non hanno il bisogno di giustificare questa potente volontà dal punto di vista dei concetti umani di moralità e di bontà". 
  
Il Dioniso delle Rane  di Aristofane rivela che il poeta conservò anche dopo la morte quello spirito equilibrato e sereno che lo aveva caratterizzato sulla terra:"oJ d j eu[kolo" me;n e[nqavd j, eu[kolo" d j ejkei'", egli è di buon carattere qua come lo era là (v.82).
Una Vita  anonima conservata da alcuni manoscritti e risalente al tardo ellenismo, ci fa sapere che:"Gevgone de; kai; qeofilh;" oJ Sofoklh'" wJ" oujk a[llo" (12), fu in rapporti amichevoli con gli dei quant'altri mai, il che corrisponde alla nostra interpretazione, come del resto un'altra notizia secondo la quale:"To; pa'n me;n ou\n oJmhrikw'" wjnovmaze (20), chiamava ogni cosa alla maniera omerica.  
 Sofocle avrebbe scritto più di cento drammi riportando la vittoria una ventina di volte. Elevò il numero dei coreuti da dodici a quindici, introdusse il terzo attore e la scenografia. Divise la trilogia in tre drammi autonomi per mettere in risalto l'individuo.
Rimangono sette tragedie intere (Aiace, Antigone del 442, Trachinie, Edipo re, Elettra, Filottete  (409), Edipo a Colono  (la più lunga tragedia greca pervenutaci: 1779 versi) rappresentata postuma nel 401 , un migliaio di frammenti , e parti estese di un dramma satiresco:  jIjjjjcneutaivI cercatori di tracce.

Passiamo ad occuparci di alcuni aspetti dell’Edipo re.
Aristotele (Poetica 1452a) la considera esemplare in quanto presenta una favola complessa con peripezia e riconoscimento che si producono insieme, in modo verosimile e necessario.
  Per la datazione, secondo le nostre osservazioni in nota, i versi contengono echi della spedizione in Sicilia, quindi fissiamo un termine post quem nel 414.
Ora riferiamo la seconda opinione che utilizziamo come supporto alla nostra: quella di C. Diano, il quale stabilisce la data del 411.
 Egli (Edipo figlio della Tyche, in "Dioniso" XV,1952, p.82)  trova nei vv.890-891 ("se non si escluderà dai fatti empi/ o stringerà come un matto le cose intoccabili") "un'aperta allusione alla mutilazione delle erme e alla profanazione dei misteri". Inoltre, nei vv.56-57 ("infatti nulla vale, né una torre né una nave/vuota di uomini che non  abitano dentro") ci sono parole che echeggiano quelle di Nicia stratego in Sicilia cui Tucidide (VII,77) fa dire:"a[ndre" ga;r povli", kai; ouj teivch oujde; nh'e" ajndrw'n kenaiv, infatti la città è costituita dagli uomini, non da mura e navi vuote di uomini.
Poi c'è il canto contro il dispotismo, con la preghiera:"la gara benefica per la città,/ chiedo a dio di non/ interromperla mai".(vv.879-881). Ebbene Sofocle, pur essendo uno dei dieci Probuli eletti nel 413 per modificare la costituzione in senso oligarchico, nel 411 rivolse questo appello in favore della democrazia troppo duramente minacciata dai maneggi dei nemici del popolo. Diano conclude (pp.83-84) affermando che quella preghiera non avrebbe senso se non si riportasse a un pericolo reale: il terrore scatenato dalle eterie oligarchiche nell'anno della tirannide dei Quattrocento.
Il genere letterario cui appartiene l'Edipo re è quello drammatico, nato ad Atene  nel quinto secolo e fiorito sotto il regime democratico che gli consentiva la necessaria parrhsiva, libertà di parola. Gli autori avevano una prospettiva sicura: quella di un popolo che li ascoltava e osservava con attenzione per approvarli o rifiutarli. Sappiamo che il nostro fu il più premiato, dunque il più amato dei tre tragediografi: probabilmente interpretava meglio degli altri i sentimenti e i gusti degli Ateniesi. A Eschilo  nocque la magniloquenza, soprattutto delle estese parti corali, a Euripide l'eccessiva modernità: le sue innovazioni e le critiche alla tradizione forse sapevano di sacrilegio all'uomo comune.
La cornice narrativa è Tebe, fondata dal fenicio Cadmo e abitata dai suoi discendenti. Edipo apre il dramma chiamando i sudditi:"O figli, nuova stirpe dell'antico Cadmo".
La povli" è flagellata da peste e sterilità siccome c'è un misteriosa lordura che la inquina; il re dà subito inizio a una ricerca che lo porterà a scoprire di essere egli stesso la contaminazione, il mivasma che ha scatenato la malattia e paralizzato la vita. Durante questa indagine, egli cerca la testimonianza e la collaborazione del popolo, mentre il cognato Creonte e il sacerdote Tiresia passano presto, nella immaginazione e nelle parole di Edipo, dal ruolo di collaboratori a quello di presunti rivali e congiurati per carpirgli il potere. Nello stesso tempo il buon re-padre del suo popolo degenera in tiranno.
 Intanto il coro, che esprime dolore e inquietudine nell'attesa trepida di sempre nuove sciagure, assome verso Edipo un atteggiamento protettivo, sebbene nel frattempo cresca il sospetto della  vera identità del re. La moglie-madre Giocasta ancor più tenta di proteggerlo e usa ogni mezzo a disposizione per tenerlo lontano dalla verità. D'altra parte anche il vate, appena arrivato, aveva cercato di dissuaderlo dal procedere nella investigazione.
Ma nessuno può distogliere Edipo dal proposito ferreo di conoscere mondo esterno il quale costituisce il contorno  del nucleo che è la sua persona e il suo destino. Non lo ferma nemmeno un messo   giunto da Corinto ad annunciare la morte del re Polibo. La notizia dovrebbe essere risolutiva e togliere l'angoscia al protagonista che si crede figlio di Polibo e teme di essere predestinato a uccidere il padre suo, secondo quanto gli ha predetto l'oracolo delfico.  Egli però non si  accontenta dell'annuncio e procede implacabile, fino a interrogare il servo che non solo aveva assistito  alla strage di Laio e del suo seguito, restandone l'unico sopravvissuto,  ma, tanti anni prima, aveva pure ricevuto l'ordine spietato di esporre sul Citerone il figlio del medesimo re  e  di Giocasta, un bambino dai piedi forati; poi, per  compassione, non lo aveva eseguito, e aveva consegnato la creatura proprio al sopraggiunto corinzio che all'epoca faceva il pastore lassù.
 Da un confronto fra i due, nonostante la riluttanza del tebano, si scopre la verità: quel bambino era Edipo che ha ammazzato il re suo padre e ha sposato la regina sua madre.
Egli è come una farfalla che gira intorno alla fiamma finché questa la brucia e dà luce. Giocasta si impicca; Edipo si accieca e chiede di tornare sul suo Cicerone (v.1452).
 La montagna di Tebe è una specie di personaggio muto che assume vari ruoli a seconda dello stato d'animo di chi la nomina: da località nutrice di vita (v.1092) e luogo di danze dionisiache (v.1093), portatore di gioia (v.1094), a sepolcro prestabilito (v.1453) per il bambino reietto e per il vecchio mendicante. Edipo tuttavia, nell’ultima tragedia di Sofocle, scomparirà a Colono, nel boschetto delle Eumenidi
Ora consideriamo la struttura facendo un riassunto ragionato, mostrando i nodi ideologici, e anticipando alcuni dei riferimenti letterari presenti nelle note.
Il prologo si estende per 150 versi.
Edipo esce dal palazzo e vede il popolo che prega per stornare un flagello. Pur sapendo di che si tratta, chiede a un vecchio sacerdote di informarlo. Segue la descrizione della "peste odiosissima" (v.28) che consuma Tebe, e la richiesta di aiuto a chi già una volta ha saputo risollevare la città. Quindi entra in scena Creonte, il fratello della regina Giocasta, che era stato mandato a Delfi per interrogare l'oracolo: questo ha risposto che bisogna allontanare la contaminazione dalla regione (v.97).
Come il preludio di un'opera lirica, il prologo contiene diversi motivi che verranno sviluppati nel corso del dramma.
Il resto della tragedia serve a scoprire che la lordura inquinante è il re stesso impegnato a condurre la ricerca. Sono i  delitti da lui commessi, congiunti alla miscredenza sua e di Giocasta, a rendere improduttiva e malata la terra.
 Analogo collegamento tra empietà e sterilità troviamo in un'altra grandiosa descrizione della decadenza, nel Satyricon   di Petronio: quia nos religiosi non sumus. Agri iacent (44),  poiché noi non siamo religiosi. I campi rimangono abbandonati.
Nella tragedia si sentono echi di riti purificatori con vittime sacrificali, prede braccate che fuggono invano; e mentre la caccia si scatena, il re, senza avvedersene si identifica con l'animale espiatorio. Già al verso 109 scorgiamo una metafora venatoria ancora avvolta nell'oscurità; nel secondo canto corale essa si chiarifica e precisa nell'immagine del toro del sacrificio (v.478) che, bandito in solitudine, cerca di allontanare i vaticini dell'ombelico della terra; ma questi, sempre vivi, gli volano addosso (479-482). Si tratta proprio di Edipo .
L'affermazione della forza degli oracoli è centrale in Sofocle quanto in Erodoto: se venissero trascurati o irrisi i loro responsi,  gli stessi dei andrebbero in malora (v.910).
“Sono gli oracoli a muovere i fili della vicenda…Gli dèi sono invisibili, la loro volontà è oscura, ma essi agiscono potentemente nella storia individuale e in quella collettiva. Il destino di Edipo (lo apprendiamo nell’Edipo a Colono) gli era già stato rivelato tutto intero quando in gioventù era andato a Delfi per interrogare Apollo: “tu ucciderai tuo padre e sposerai tua madre” era stata la prima parte della profezia; “ tu morirai presso un boschetto delle Eumenidi, accolto dagli dèi” è la seconda che Edipo non aveva mai riferito, ma che ora rivela ad Antigone. E Ismene ne porta una terza: “la vittoria sarà di quelli presso i quali sorgerà la tua tomba”. Le tre predizioni si saldano fra loro e tolgono ogni margine di dubbio al protagonista: non gli resterà che seguire docilmente il volere di Apollo, contro il quale, da tempo, ha rinunciato a lottare. Questo fatto sgombra l’orizzonte da ogni ambiguità. Nell’ Edipo Re Apollo era stato il Lossia, tortuoso e ingannevole; nell’Edipo a Colono è diventato tutto a un tratto “chiaro” (safhv~)…L’Edipo fiero del suo sapere laico e razionale nell’Edipo Re, che polemizzava contro gli oracoli e le argomentazioni dell’indovino Tiresia, lascia il posto a un Edipo che rinuncia all’orgoglio della ragione. Forse per questo Apollo ora è più clemente. L’oracolo infatti, per sua natura, non è lì tanto per palesare la sapienza nascosta degli dèi, quanto per rendere evidente la distanza che passa tra un uomo e il dio: la sua funzione primaria non è di rispondere alle domande degli ejfhvmeroi, coloro che “vivono un giorno”, ma di riaffermare l’incapacità dell’uomo di comprendere le regole che governano il destino [2]” [3].
 Chi fraintende gli oracoli, o peggio, tenta di calpestarli,  precipita nella rovina. Così la sciagurata Giocasta, così il suo infelice figliolo, così Creso, il pacchiano re lidio dello storiografo di Alicarnasso.
Nella Parodo (vv.151-215), il coro proclama la propria fede negli dei, con un moto di riconoscenza (v.167 e[lqete kai; nu'n venite anche ora ) che è tipica dell'uomo greco in preghiera e ricorda il verso 25 (e[lqe moi kai; nu'n) dell'ode di Saffo (1 LP) simile nella struttura  a un inno cletico. Nella seconda strofe troviamo una delle idee forti del dramma: contro il male, non c'è arma di pensiero (v.170) che valga; è necessaria la pietà e l'amore umano che muova a soccorso quello divino.
 Negli scrittori europei torna periodicamente tale sfiducia nella ragione ogni volta che questa limitata capacità umana si rivela incapace di accrescere la felicità, o anche solo di ridurre il fardello del nostro dolore.
 Primo episodio (216-242). Edipo ingiunge ai Tebani di denunciare il colpevole e a questo di autodenunciarsi. In tale proclama risuona sinistramente l'ironia tragica: il nuovo re afferma che combatterà in difesa del suo predecessore assassinato, come per suo padre (vv.264-265).
L’ironia una delle caratteristiche della affabulazione sofoclea: chi pronuncia le parole intende dare loro un significato che arriva capovolto alle orecchie dello spettatore, come attraverso un'eco rovesciata.
Quindi entra Tiresia, il vate cieco che ribadisce la sfiducia nel sapere: :"Ahi,ahi, sapere come è terribile quando non giova-a chi sa !” (vv.316-317).
Il motivo antiintellettualistico, ricorrente in Sofocle, avrà un'infinità di riprese: da Euripide, il "filosofo della scena", quando giunge alla stanchezza postfilosofica delle Baccanti , al movimento abbastanza recente dello Sturm und Drang ("il mio cuore-annota Werther  il 9 maggio 1772-è l'unica cosa della quale sono superbo...Quello che io so, lo può sapere chiunque, ma il mio cuore lo possiedo io solo". ), fino a Elias Canetti il quale in La provincia dell'uomo  afferma che "L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere...Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda che prima dormiva appiattata...Le sole risposte inaridiscono il corpo e il respiro"(pp. 1600-1601).
E' il  profeta  a nutrire la forza della verità (v.356) che non è potenza economica né militare, ma nemmeno cerebrale, anzi è consapevolezza dei limiti angusti che racchiudono le nostre facoltà intellettive. Egli vorrebbe restare muto, ma il re prima lo costringe a parlare, quindi lo accusa di complottare contro il suo potere che viene deplorato con la ricchezza (vv.380 e sgg.) per l'invidia che suscita anche nelle persone più vicine a chi lo detiene.
Il re ha capito quali mali si annidino nel potere, ma non ha compreso quale misera cosa sia la sua intelligenza cui rivendica in esclusiva la vittoria sulla Sfinge (vv.397-398). Pecca di  u{bri" come Aiace  che nella  sua tragedia (vv.768-769) aveva espresso l'arrogante certezza di conquistare la gloria senza l'aiuto degli dei.
Con tali affermazioni questi personaggi manifestano tutta la loro colpevolezza, e la critica che attribuisce a Sofocle il compianto per il dolore degli innocenti presi di mira da dei crudeli, non se ne intende.
Tiresia non si lascia impressionare e ribadisce la sua profezia di orrori; Edipo del resto rivela un aspetto buono, quello che lo porterà al riscatto, quando sospende l'ira e comincia a sobbarcarsi il dolore con le parole:"Ma se ho salvato questa città, non importa" (v. 443).
Questo verso anticipa la trasfigurazione del dolore in bellezza e in vantaggio della comunità, compiuta attraverso l'accettazione del destino da parte del figlio di Laio quando, nell’ultima tragedia di Sofocle, giunge a Colono .
Nel primo stasimo (vv.463-510) troviamo il motivo dell'animale del sacrificio necessario e imminente, il toro delle rupi (v.478), il re in persona: lo stesso uomo-toro predestinato a essere ucciso  dell'Agamennone  di Eschilo: "a[pece th'" boo;"-to;n tau'ron;: ejn pevploisin-melagkevrw/ labou'sa mhcanhvmati-tuvptei", tieni il toro lontano dalla vacca: presolo nella rete lo colpisce con il congegno delle nere corna (vv.1125-1128).
Nel secondo episodio(vv.512-862) Edipo accusa il cognato Creonte di volere usurpare il suo posto in combutta con Tiresia. Per negare loro ogni possibilità di successo, espone la sua teoria sul fondamento del potere che dovrebbe essere costituito dal consenso popolare e dal denaro, mezzi dei quali i due sono sprovvisti. Creonte ribatte da cortigiano, dicendo di avere tutti i vantaggi  senza gli inconvenienti del capo, per cui non è suo interesse passare dal ruolo di vice a quello di tiranno; come si vede parla in maniera logica, con qualche sfumatura di ipocrisia e di malevolenza che è difficile non attribuirgli dopo avere letto l'Antigone  .
Con il verso 634 debutta Giocasta, la magna mater et magistra , che cerca di mettere pace tra i suoi uomini, il fratello e il marito-figlio, e di porre fine all'angosciosa ricerca di Edipo. Per ottenere questo scopo dettato dall'istinto di sopravvivenza, la sciagurata non si perita di negare valore all'arte profetica (v.709); ma, mentre racconta la morte di Laio al fine di coonestare la propria empietà, dà notizie che fanno rabbrividire Edipo, il quale teme di essere l'uccisore del vecchio , e racconta il suo ricordo della sua strage.
La paura del re è quella di essere l'assassino del predecessore, e perciò il mivasma della città. Affinché il massacro compiuto da Edipo e quello subìto da Laio con il seguito siano due cose diverse, bisogna che l'unico sopravvissuto della scorta tebana confermi quello che si dice: i predoni uccisori erano più di uno. Probabilmente una voce fatta mettere in giro dall'ambiente della corte, forse dalla stessa Giocasta per scagionare il secondo marito il quale   le raccontò di avere ammazzato  da solo. Di fatto la regina è riluttante a fare venire il testimone, ma Edipo impone che sia convocato. E' davvero anomalo questo re-tiranno inteso a dissipare la "nebbia folta" e ad abbattere il "muro sì grosso" interposto tra il palazzo e la piazza. Vuole fare chiarezza sulla strage da lui compiuta tanto tempo prima in un trivio. Pensate alle stragi compiute in Italia da Portella della ginestra in avanti. Su queste nessun governo ha mai voluto fare chiarezza. Del resto la ragione di tanta oscura segretezza è chiara.  
Nel secondo stasimo (vv.862-910) il coro raccomanda la purezza sia delle parole sia delle azioni, e l'ossequio a quelle leggi divine nate nel cielo  che gli uomini non possono cancellare, poichè, come si dice anche nell'Antigone (v.454) non sono  scritte e non sono vacillanti.
Piuttosto traballa il tiranno generato dalla prepotenza che lo fa salire sui fastigi del potere, ma siccome non gli dà una base morale, non può evitargli la caduta precipitosa negli abissi scoscesi della rovina.
La teoria opposta viene formulata nel Gorgia  di Platone dal personaggio di Callicle il quale sostiene (483a-d) che legge  naturale è la prepotenza del più forte e che la giustizia perequativa è una falsificazione architettata  dai deboli, confederati insieme per contraffare la natura e non lasciarsi schiacciare da chi ne ha le capacità e il diritto.
Il coro di vecchi tebani prega affinché la tirannide non prevalga. Il despota non giova a nessuno, tanto meno a se stesso.
 Già Esiodo nelle Opere  (vv.265-266) aveva scritto che prepara i mali per sé chi li apparecchia ad un altro, e che il pensiero cattivo è pessimo per chi l'ha pensato.
Del resto, si domanda Sofocle, se le azioni malvagie sono onorate, che senso ha questo mio canto? Se gli improbi non vengono confutati, perdono la loro ragione di essere l'arte, la religione, e gli dei vanno in malora.
Terzo episodio(vv.911-1086).
Giocasta rivolge una preghiera ad Apollo, ma quando arriva da Corinto un messo per annunziare che Polibo è morto di morte naturale, la regina maledice gli oracoli ripetutamente e spinge Edipo ad imitarla. Il fatidico altare di Delfi dunque ha sbagliato indicando nel figlio di Polibo l'assassino del padre, e i vaticini pitici giacciono nella tomba con il re defunto. A Edipo rimane l'angoscia delle nozze con la madre, preannunciate anch'esse dall'ombelico del mondo, ma questa paura, obietta Giocasta, è  vana, siccome fatta della  materia di cui sono fatti i sogni.
Interviene però il messaggero corinzio a disilludere la coppia reale: Edipo non è figlio di Polibo, ma fu portato sulla città dell'Istmo da lui stesso che lo aveva ricevuto da un pastore tebano. Il corifeo anzi suppone che questo sia il servo già mandato a chiamare per riferire sull'assassinio di Laio (vv.1051-1052). La madre ora ha capito  e fugge via inorridita.
 Edipo crede di essere un trovatello, e pensa che la  donna si sia allontanata perché si vergogna della sua umile origine , ma egli si proclama pai'da th'" Tuvch" figlio della Fortuna (v.1080), con un'espressione divenuta tovpo" letterario e utilizzata dal classicista Petronio nella chiacchierata dei liberti: "plane Fortunae filius"( Satiricon, 43).
Il terzo stasimo(vv.1086-1109) è un inno al Citerone che ha nutrito Edipo; contiene note di esultanza che devono stridere acutamente con l'esplosione di dolore dei versi successivi. E' questo un elemento tipico della tecnica sofoclea: il canto trionfale poco prima della catastrofe si trova anche nell'Antigone, nell'Aiace  e nelle Trachinie. Mette in rilievo la fragilità delle ipotesi fatte dalle menti umane.
Quarto episodio (vv.1120-1185). Arriva il servo che vide la strage, e  per giunta viene riconosciuto dal messo corinzio quale il pastore che gli affidò il bambino ricevuto da Laio e Giocasta. Il vecchio tebano, pur riluttante, non può negare la certezza del riconoscimento. Così non c'è più posto per l'ambiguità: l'infante dai piedi gonfi, gettato via dai genitori e sopravvissuto per la compassione di due pecorai, è diventato Edipo, ha ucciso suo padre e  sposato sua madre. Gli oracoli non hanno mai torto. Come volevasi dimostrare.
Nel quarto stasimo (vv.1186-1122) il coro compiange la peripezia del re considerandone la  vita, emblematica di quella umana, identica al nulla quando le vicende  che appaiono come successi alla vista miope dei mortali, e invece sono orrori e miserie, vengono scoperte dal "tempo che tutto vede""(v.1213) e fa giustizia.
Nell'esodo (vv.1221-1530) un secondo messo racconta il suicidio di Giocasta e l'accecamento di Edipo punitore di se stesso, eJauto;n  timwrouvmeno".
Quindi appare il re sconciato che attribuisce ad Apollo la causa delle sue sofferenze, ma rivendica a sé il coraggio  di essersele inflitte con le proprie mani. Nessun altro mortale avrebbe avuto la forza di sopportare mali tanto grandi. Poi chiede a Creonte che lo faccia tornare sul suo Citerone e che si prenda cura delle figlie, Antigone e Ismene, per le quali soltanto si accora, trascurando i maschi,  Eteocle e Polinice,  e manifestando ancora un legame di simpatia esclusiva con il mondo femminile, di avversione malata con quello maschile. Creonte gli fa toccare per l'ultima volta le bambine, poi gliele toglie e lo congeda.
Il coro chiude la tragedia con i tetrametri trocaici dai quali Perrotta inferisce la datazione bassa, ma che il Pearson considera spuri. Se anche sono aggiunti, i versi contengono un monito plausibile e coerente con questa favola triste; un avvertimento simile a quello che Solone dà a Creso nel primo libro delle Storie  di Erodoto: nessuno ritenga felice un mortale prima che abbia passato il termine della vita senza avere sofferto qualche dolore.
Il principale carattere espressivo di Sofocle è l'uso etimologico della lingua. Facendo affiorare l'etimo accanto al significato usuale, il poeta evoca quella ambiguità della parola drammatica che costituisce uno degli aspetti della sua densità e significazione particolare. Non solo: Sofocle fa un uso radicale della parola per arrestare quel logoramento della lingua greca che corrisponde alla degradazione dello spirito religioso e alla degenerazione della morale. Un poco come il responso oracolare, come la pitica Sibilla eraclitea, l'affabulazione dell'Edipo re, "non dice e non nasconde, significa". Il che non vuol dire artificio, se è vero che il nostro drammaturgo fu il beniamino del popolo, e che la sua carriera teatrale agli esordi fu propiziata da un personaggio come Cimone (  Plutarco, Vita , 8) che al pari degli altri Ateniesi "amava il bello con semplicità e la cultura senza mollezza" (Tucidide, II,40).
I Cori presentano le maggiori difficoltà siccome concentrano in sintesi pregnanti, talora vertiginose, contenuti di fede, elementi di storia, echi di fatti recenti e di tradizioni antichissime, e per di più la visione del poeta, se è vero che nel dramma la parte corale costituisce quel famoso "cantuccio" da dove l'autore, ha migliori possibilità di esprimere il proprio pensiero senza "introdursi nell'azione". Come tutti i grandi che hanno molto da dire, Sofocle non è privo di pecche, le quali, dal punto di vista dell'Anonimo Sul sublime  (33) consistono in uno spegnimento e in una caduta dell'ardente impeto poetico. Un difetto che, secondo il critico antico, lo accomuna a Pindaro. Privo di scorie invece lo giudica F. Nietzsche: “Nessuno ha ancora spiegato perché gli scrittori greci abbiano fatto dei mezzi di espressione, di cui disponevano in quantità e forza sbalorditive, un uso così straordinariamente parco, che al paragone ogni libro posteriore ai Greci appare sgargiante, variopinto e sforzato…Lo stile sovraccarico in arte è la conseguenza di un impoverimento della forza di sintesi…Così è per Shakespeare, che, paragonato con Sofocle, è come una miniera piena di un'immensità di oro, piombo e ciottoli, mentre quello non è soltanto oro, ma oro lavorato nel modo più nobile, tale da far dimenticare il suo valore come metallo[4].

giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it 

Nella foto: un momento dell'Edipo Re cui ho assistito il 12 giugno 2013 al Teatro greco di Siracusa



[1] Cfr. Platone,  Cratilo (385e) :"w{sper Prwtagovra" e[legen levgwn--pavntwn crhmavtwn mevtron ei\nai a[nqrwpon", come diceva Protagora che l'uomo è misura di tutte le cose.
[1] Nel contesto “ quelli” sono gli dèi le cose.
[2] Guidorizzi, Il mito di Edipo, p. 148.
[3] G. Guidorizzi, Sofocle Edipo a Colono, p. XXIII
[4] F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, p. 43, p. 45, p. 57.

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