Parte della sesta lezione del seminario. Tenuta a
Bologna, lunedì 18 marzo in
via Zamboni 32, aula Guglielmi.
Introduzione all’Edipo re di Sofocle
L'Edipo re è la
tragedia dell'uomo il quale, dopo avere conseguito un successo con la forza del
suo ingegno, ritiene che l'intelligenza e l'attività umana possano arrivare
dovunque, e siano in grado di risolvere i problemi, indagare i misteri, indipendentemente dagli dei, senza
tenere conto dei segni del loro volere, trasmessi ai profeti attraverso gli
oracoli, le fronde degli alberi, gli uccelli, o in altra maniera.
Uno dei centri
ideologici del dramma è costituito dai versi 396-398:"arrivato io,/ Edipo,
che non sapevo nulla, lo feci cessare/ azzecandoci con l'intelligenza e senza
avere imparato nulla dagli uccelli". Questa affermazione di autonomia, per
Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è u{bri",
dismisura, prepotenza,
cecità intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno
(v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa
(v.877) del castigo e della espiazione.
La bestemmia contro il numinoso che, nel poeta di Colono,
come in Erodoto, aleggia sulla terra assumendo varie forme, viene ribadita dal
protagonista più avanti, in complicità scellerata con la regina Giocasta, al
grido empio della quale:" O vaticini degli dei, dove siete?", il re
fa eco con questa tirata blasfema:" Ahi, perché dunque, o donna, uno
dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli uccelli/ che schiamazzano
in alto?...Gli oracoli che c'erano, li ha presi/ Polibo che giace presso Ade,
ed essi non valgono nulla" (vv.964 e sgg.).
Edipo e Giocasta dunque sono rappresentanti di quel
pensiero laico-sofistico cui Sofocle si oppone con tutta la sua produzione
poetica, e più che mai con questo dramma, dove il coro, portavoce dell'autore,
durante il secondo stasimo, domanda:"Se infatti tali azioni sono onorate,/
perché devo eseguire la danza sacra?" (vv.895-896). Se gli oracoli vanno
in malora e Apollo è dimenticato, tutti gli dei tramontano (v.910); allora la
stessa rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde
ogni significato e diviene assurda. T. S. Eliot affermò che il dramma perfetto
è la messa.
La presunzione intellettuale dunque è il vero peccato di
Edipo: essa lo porta ad un attivismo smisurato il cui termine è, come per ogni
dismisura, il dolore. Lo ha capito perfettamente un non specialista come Marcel
Proust quando ne Il tempo ritrovato
(p.190) scrive:" E meglio di un coro di Sofocle sull'umiliato orgoglio di
Edipo, meglio della morte stessa e di qualsiasi orazione funebre, il saluto
premuroso e umile del barone alla signora di Saint-Euverte proclamava quanto di
fragile e perituro c'è nell'amore d'ogni terrena grandezza e d'ogni umana superbia"
.
In La nascita
della tragedia (cap.9) Nietzsche ha
sottolineato che il tendere e lo sforzarsi nella vita attiva, ha portato il
figlio di Laio prima alla sventura, poi alla passività di Colono dove il
"paziente", entrato in una sfera di trasfigurazione, raggiunge infine
la sua dimensione benefica riconoscendo
i limiti stretti dell'attività e dell'intelligenza umana.
Sofocle
pertanto è poeta religioso, particolarmente devoto alla deità delfica del
"nulla di troppo" e del "conosci te stesso".
Ma è anche un
moralista, nel senso che suscita forze morali. Il succo del suo messaggio
coincide con la quintessenza dell'etica: che non bisogna ledere la vita
facendole del male e trascorrendola senza quell'equilibrio dovuto all'
accettazione devota della verità e della
misura insita nell'universo.
La difesa dell'uomo vivente arriva al punto che il pio
autore giunge a maledire Ares, il dio della guerra il quale viene deprecato e
abominato come il "senza misura" (v.190) e "il dio disonorato
tra gli dei"(v.215). L'esecrazione di Ares non è nuova: già Omero nell'Iliade (V, 890) lo fa apostrofare da Zeus con queste
parole:" e[cqisto"
dev moiv ejssi qew'n oi} [Olumpon
e[cousin", tu per
me sei il più odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo. Faccio notare per inciso
che e[cqisto" è il superlativo attribuito nel
prologo (v.28) alla peste (loimov")
di Tebe. Nell'Edipo re, Ares è smodato e disonorato poiché impersona il
conflitto fratricida del Peloponneso, condotto senza rispetto della tradizione
cavalleresca e senza riguardo per l'umanità. Un monito alla pace dunque si
leva, tra gli altri, dai versi del poeta nauseato dal massacro del quale
risuonano echi sinistri in questa tragedia.
Sono invece invocati e venerati gli dei che difendono la
vita, la risanano (Apollo è il Paiavvvn,v.154,
il guaritore) quando si ammala e non c'è arma della mente (v.170), ossia
pensiero laico, atta a trovare una terapia per la paralisi che impedisce alle
donne di partorire, agli alberi di fruttificare, agli uomini di amare e di
vivere.
Intanto Artemide
canalizza l'aggressività nelle
gare e nelle cacce su per i monti (v.208), mentre Dioniso allieta l'umanità
(v.211) con il vino.
Insomma nel testo si trova un continuo zampillare di quelle
gocce luminose che costituiscono la voce misteriosa degli oracoli e nello
stesso tempo l'intimità della coscienza religiosa dell'uomo europeo, tanto che
risuona analoga in autori lontani nel tempo e nello spazio. Essa si scontra con
il pensiero antroponomo[1] in una collisione tragica che
tuttavia non esclude un ottimismo di fondo consistente in un assenso alla
volontà divina la quale non può essere cattiva siccome permea questo mondo
bello e sacro, rigoglioso di lauri, olivi e viti, allietato dal dolce canto
degli usignoli numerosi in mezzo alla boscaglia di Colono, il demo natale del
poeta.
E. Rohde, in Psiche
(p.568), scrive: Sofocle "è di quegli uomini molto pii ai quali basta
d'intendere appena la volontà divina per sentirsi pervasi di reverenza, e che
non hanno il bisogno di giustificare questa potente volontà dal punto di vista
dei concetti umani di moralità e di bontà".
Il Dioniso delle Rane
di Aristofane rivela che il poeta
conservò anche dopo la morte quello spirito equilibrato e sereno che lo aveva
caratterizzato sulla terra:"oJ d j eu[kolo" me;n e[nqavd j, eu[kolo" d j
ejkei'", egli è
di buon carattere qua come lo era là (v.82).
Una Vita anonima conservata da alcuni manoscritti e
risalente al tardo ellenismo, ci fa sapere che:"Gevgone de; kai; qeofilh;"
oJ Sofoklh'" wJ" oujk a[llo" (12), fu in rapporti amichevoli con gli dei quant'altri
mai, il che corrisponde alla nostra interpretazione, come del resto un'altra notizia secondo la quale:"To; pa'n me;n ou\n
oJmhrikw'" wjnovmaze (20), chiamava ogni cosa alla maniera omerica.
Sofocle avrebbe
scritto più di cento drammi riportando la vittoria una ventina di volte. Elevò
il numero dei coreuti da dodici a quindici, introdusse il terzo attore e la
scenografia. Divise la trilogia in tre drammi autonomi per mettere in risalto
l'individuo.
Rimangono sette tragedie intere (Aiace, Antigone del 442, Trachinie, Edipo re, Elettra, Filottete (409), Edipo
a Colono (la più lunga tragedia
greca pervenutaci: 1779 versi) rappresentata postuma nel 401 , un migliaio di
frammenti , e parti estese di un dramma satiresco: jIjjjjcneutaiv,
I cercatori di tracce.
Passiamo ad occuparci di alcuni aspetti dell’Edipo re.
Aristotele (Poetica 1452a)
la considera esemplare in quanto presenta una favola complessa con peripezia e
riconoscimento che si producono insieme, in modo verosimile e necessario.
Per la datazione, secondo le nostre osservazioni in nota, i versi contengono echi della
spedizione in Sicilia, quindi fissiamo un termine post quem nel 414.
Ora riferiamo la seconda opinione che utilizziamo come
supporto alla nostra: quella di C. Diano, il quale stabilisce la data del 411.
Egli (Edipo figlio della Tyche, in
"Dioniso" XV,1952, p.82) trova
nei vv.890-891 ("se non si escluderà dai fatti empi/ o stringerà come un
matto le cose intoccabili") "un'aperta allusione alla mutilazione
delle erme e alla profanazione dei misteri". Inoltre, nei vv.56-57 ("infatti
nulla vale, né una torre né una nave/vuota di uomini che non abitano dentro") ci sono parole che
echeggiano quelle di Nicia stratego in Sicilia cui Tucidide (VII,77) fa
dire:"a[ndre"
ga;r povli", kai; ouj teivch oujde; nh'e" ajndrw'n kenaiv, infatti la città è costituita
dagli uomini, non da mura e navi vuote di uomini.
Poi c'è il canto contro il dispotismo, con la
preghiera:"la gara benefica per la città,/ chiedo a dio di non/
interromperla mai".(vv.879-881). Ebbene Sofocle, pur essendo uno dei dieci
Probuli eletti nel 413 per modificare la costituzione in senso oligarchico, nel
411 rivolse questo appello in favore della democrazia troppo duramente minacciata
dai maneggi dei nemici del popolo. Diano conclude (pp.83-84) affermando che
quella preghiera non avrebbe senso se non si riportasse a un pericolo reale: il
terrore scatenato dalle eterie oligarchiche nell'anno della tirannide dei
Quattrocento.
Il genere letterario cui appartiene l'Edipo re è quello
drammatico, nato ad Atene nel quinto
secolo e fiorito sotto il regime democratico che gli consentiva la necessaria parrhsiva, libertà di parola. Gli autori avevano una prospettiva sicura: quella
di un popolo che li ascoltava e osservava con attenzione per approvarli o
rifiutarli. Sappiamo che il nostro fu il più premiato, dunque il più amato dei
tre tragediografi: probabilmente interpretava meglio degli altri i sentimenti e
i gusti degli Ateniesi. A Eschilo nocque
la magniloquenza, soprattutto delle estese parti corali, a Euripide l'eccessiva
modernità: le sue innovazioni e le critiche alla tradizione forse sapevano di
sacrilegio all'uomo comune.
La cornice narrativa è Tebe, fondata dal fenicio Cadmo e
abitata dai suoi discendenti. Edipo apre il dramma chiamando i sudditi:"O
figli, nuova stirpe dell'antico Cadmo".
La povli" è flagellata da peste e sterilità
siccome c'è un misteriosa lordura che la inquina; il re dà subito inizio a una
ricerca che lo porterà a scoprire di essere egli stesso la contaminazione, il mivasma che ha scatenato la malattia e
paralizzato la vita. Durante questa indagine, egli cerca la testimonianza e la
collaborazione del popolo, mentre il cognato Creonte e il sacerdote Tiresia
passano presto, nella immaginazione e nelle parole di Edipo, dal ruolo di
collaboratori a quello di presunti rivali e congiurati per carpirgli il potere.
Nello stesso tempo il buon re-padre del suo popolo degenera in tiranno.
Intanto il coro, che
esprime dolore e inquietudine nell'attesa trepida di sempre nuove sciagure,
assome verso Edipo un atteggiamento protettivo, sebbene nel frattempo cresca il
sospetto della vera identità del re. La
moglie-madre Giocasta ancor più tenta di proteggerlo e usa ogni mezzo a disposizione
per tenerlo lontano dalla verità. D'altra parte anche il vate, appena arrivato,
aveva cercato di dissuaderlo dal procedere nella investigazione.
Ma nessuno può distogliere Edipo dal proposito ferreo di
conoscere mondo esterno il quale costituisce il contorno del nucleo che è la sua persona e il suo
destino. Non lo ferma nemmeno un messo
giunto da Corinto ad annunciare la morte del re Polibo. La notizia
dovrebbe essere risolutiva e togliere l'angoscia al protagonista che si crede
figlio di Polibo e teme di essere predestinato a uccidere il padre suo, secondo
quanto gli ha predetto l'oracolo delfico.
Egli però non si accontenta
dell'annuncio e procede implacabile, fino a interrogare il servo che non solo
aveva assistito alla strage di Laio e
del suo seguito, restandone l'unico sopravvissuto, ma, tanti anni prima, aveva pure ricevuto
l'ordine spietato di esporre sul Citerone il figlio del medesimo re e di
Giocasta, un bambino dai piedi forati; poi, per
compassione, non lo aveva eseguito, e aveva consegnato la creatura
proprio al sopraggiunto corinzio che all'epoca faceva il pastore lassù.
Da un confronto fra
i due, nonostante la riluttanza del tebano, si scopre la verità: quel bambino
era Edipo che ha ammazzato il re suo padre e ha sposato la regina sua madre.
Egli è come una farfalla che gira intorno alla fiamma
finché questa la brucia e dà luce. Giocasta si impicca; Edipo si accieca e
chiede di tornare sul suo Cicerone (v.1452).
La montagna di Tebe
è una specie di personaggio muto che assume vari ruoli a seconda dello stato
d'animo di chi la nomina: da località nutrice di vita (v.1092) e luogo di danze
dionisiache (v.1093), portatore di gioia (v.1094), a sepolcro prestabilito
(v.1453) per il bambino reietto e per il vecchio mendicante. Edipo tuttavia,
nell’ultima tragedia di Sofocle, scomparirà a Colono, nel boschetto delle
Eumenidi
Ora consideriamo la
struttura facendo un riassunto ragionato, mostrando i nodi ideologici, e
anticipando alcuni dei riferimenti letterari presenti nelle note.
Il prologo si
estende per 150 versi.
Edipo esce dal palazzo e vede il popolo che prega per
stornare un flagello. Pur sapendo di che si tratta, chiede a un vecchio
sacerdote di informarlo. Segue la descrizione della "peste
odiosissima" (v.28) che consuma Tebe, e la richiesta di aiuto a chi già
una volta ha saputo risollevare la città. Quindi entra in scena Creonte, il
fratello della regina Giocasta, che era stato mandato a Delfi per interrogare
l'oracolo: questo ha risposto che bisogna allontanare la contaminazione dalla
regione (v.97).
Come il preludio di un'opera lirica, il prologo contiene
diversi motivi che verranno sviluppati nel corso del dramma.
Il resto della tragedia serve a scoprire che la lordura
inquinante è il re stesso impegnato a condurre la ricerca. Sono i delitti da lui commessi, congiunti alla
miscredenza sua e di Giocasta, a rendere improduttiva e malata la terra.
Analogo collegamento
tra empietà e sterilità troviamo in un'altra grandiosa descrizione della
decadenza, nel Satyricon di Petronio: quia nos religiosi non sumus. Agri iacent (44), poiché noi non siamo religiosi. I campi
rimangono abbandonati.
Nella tragedia si sentono echi di riti purificatori con
vittime sacrificali, prede braccate che fuggono invano; e mentre la caccia si
scatena, il re, senza avvedersene si identifica con l'animale espiatorio. Già
al verso 109 scorgiamo una metafora venatoria ancora avvolta nell'oscurità; nel
secondo canto corale essa si chiarifica e precisa nell'immagine del toro del
sacrificio (v.478) che, bandito in solitudine, cerca di allontanare i vaticini
dell'ombelico della terra; ma questi, sempre vivi, gli volano addosso (479-482).
Si tratta proprio di Edipo .
L'affermazione della forza degli oracoli è centrale in
Sofocle quanto in Erodoto: se venissero trascurati o irrisi i loro
responsi, gli stessi dei andrebbero in
malora (v.910).
“Sono gli oracoli a muovere i fili della vicenda…Gli dèi
sono invisibili, la loro volontà è oscura, ma essi agiscono potentemente nella
storia individuale e in quella collettiva. Il destino di Edipo (lo apprendiamo
nell’Edipo a Colono) gli era già
stato rivelato tutto intero quando in gioventù era andato a Delfi per
interrogare Apollo: “tu ucciderai tuo padre e sposerai tua madre” era stata la
prima parte della profezia; “ tu morirai presso un boschetto delle Eumenidi,
accolto dagli dèi” è la seconda che Edipo non aveva mai riferito, ma che ora
rivela ad Antigone. E Ismene ne porta una terza: “la vittoria sarà di quelli
presso i quali sorgerà la tua tomba”. Le tre predizioni si saldano fra loro e
tolgono ogni margine di dubbio al protagonista: non gli resterà che seguire
docilmente il volere di Apollo, contro il quale, da tempo, ha rinunciato a
lottare. Questo fatto sgombra l’orizzonte da ogni ambiguità. Nell’ Edipo Re Apollo era stato il Lossia,
tortuoso e ingannevole; nell’Edipo a Colono è diventato tutto a un tratto
“chiaro” (safhv~)…L’Edipo fiero del suo sapere laico e
razionale nell’Edipo Re, che
polemizzava contro gli oracoli e le argomentazioni dell’indovino Tiresia, lascia
il posto a un Edipo che rinuncia all’orgoglio della ragione. Forse per questo
Apollo ora è più clemente. L’oracolo infatti, per sua natura, non è lì tanto
per palesare la sapienza nascosta degli dèi, quanto per rendere evidente la
distanza che passa tra un uomo e il dio: la sua funzione primaria non è di
rispondere alle domande degli ejfhvmeroi,
coloro che “vivono un giorno”, ma di riaffermare l’incapacità dell’uomo di
comprendere le regole che governano il destino [2]” [3].
Chi fraintende gli
oracoli, o peggio, tenta di calpestarli,
precipita nella rovina. Così la sciagurata Giocasta, così il suo
infelice figliolo, così Creso, il pacchiano re lidio dello storiografo di
Alicarnasso.
Nella Parodo
(vv.151-215), il coro proclama la propria fede negli dei, con un moto di
riconoscenza (v.167 e[lqete
kai; nu'n venite anche
ora ) che è tipica dell'uomo greco in preghiera e ricorda il verso 25 (e[lqe moi kai; nu'n) dell'ode di Saffo (1 LP) simile
nella struttura a un inno cletico. Nella
seconda strofe troviamo una delle idee forti del dramma: contro il male, non
c'è arma di pensiero (v.170) che valga; è necessaria la pietà e l'amore umano
che muova a soccorso quello divino.
Negli scrittori
europei torna periodicamente tale sfiducia nella ragione ogni volta che questa
limitata capacità umana si rivela incapace di accrescere la felicità, o anche
solo di ridurre il fardello del nostro dolore.
Primo episodio (216-242). Edipo ingiunge ai Tebani di denunciare il
colpevole e a questo di autodenunciarsi. In tale proclama risuona sinistramente
l'ironia tragica: il nuovo re afferma che combatterà in difesa del suo
predecessore assassinato, come per suo padre (vv.264-265).
L’ironia una delle caratteristiche della affabulazione
sofoclea: chi pronuncia le parole intende dare loro un significato che arriva
capovolto alle orecchie dello spettatore, come attraverso un'eco rovesciata.
Quindi entra Tiresia, il vate cieco che ribadisce la
sfiducia nel sapere: :"Ahi,ahi, sapere come è terribile quando non giova-a
chi sa !” (vv.316-317).
Il motivo antiintellettualistico, ricorrente in Sofocle,
avrà un'infinità di riprese: da Euripide, il "filosofo della scena",
quando giunge alla stanchezza postfilosofica delle Baccanti , al movimento abbastanza recente dello Sturm und Drang ("il mio
cuore-annota Werther il 9 maggio 1772-è l'unica cosa della
quale sono superbo...Quello che io so, lo può sapere chiunque, ma il mio cuore
lo possiedo io solo". ), fino a Elias Canetti il quale in La provincia dell'uomo afferma che "L'ignoranza non deve impoverirsi
con il sapere...Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda che prima
dormiva appiattata...Le sole risposte inaridiscono il corpo e il
respiro"(pp. 1600-1601).
E' il profeta a nutrire la forza della verità (v.356) che
non è potenza economica né militare, ma nemmeno cerebrale, anzi è
consapevolezza dei limiti angusti che racchiudono le nostre facoltà
intellettive. Egli vorrebbe restare muto, ma il re prima lo costringe a
parlare, quindi lo accusa di complottare contro il suo potere che viene
deplorato con la ricchezza (vv.380 e sgg.) per l'invidia che suscita anche nelle
persone più vicine a chi lo detiene.
Il re ha capito quali mali si annidino nel potere, ma non
ha compreso quale misera cosa sia la sua intelligenza cui rivendica in esclusiva
la vittoria sulla Sfinge (vv.397-398). Pecca di u{bri" come Aiace che nella sua tragedia (vv.768-769) aveva espresso
l'arrogante certezza di conquistare la gloria senza l'aiuto degli dei.
Con tali affermazioni questi personaggi manifestano tutta la
loro colpevolezza, e la critica che attribuisce a Sofocle il compianto per il
dolore degli innocenti presi di mira da dei crudeli, non se ne intende.
Tiresia non si lascia impressionare e ribadisce la sua
profezia di orrori; Edipo del resto rivela un aspetto buono, quello che lo
porterà al riscatto, quando sospende l'ira e comincia a sobbarcarsi il dolore
con le parole:"Ma se ho salvato questa città, non importa" (v. 443).
Questo verso anticipa la trasfigurazione del dolore in
bellezza e in vantaggio della comunità, compiuta attraverso l'accettazione del
destino da parte del figlio di Laio quando, nell’ultima tragedia di Sofocle,
giunge a Colono .
Nel primo stasimo (vv.463-510)
troviamo il motivo dell'animale del sacrificio necessario e imminente, il toro delle
rupi (v.478), il re in persona: lo stesso uomo-toro predestinato a essere
ucciso dell'Agamennone di Eschilo:
"a[pece
th'" boo;"-to;n tau'ron;: ejn pevploisin-melagkevrw/ labou'sa
mhcanhvmati-tuvptei",
tieni il toro lontano dalla vacca: presolo nella rete lo colpisce con il
congegno delle nere corna (vv.1125-1128).
Nel secondo episodio(vv.512-862)
Edipo accusa il cognato Creonte di volere usurpare il suo posto in combutta con
Tiresia. Per negare loro ogni possibilità di successo, espone la sua teoria sul
fondamento del potere che dovrebbe essere costituito dal consenso popolare e
dal denaro, mezzi dei quali i due sono sprovvisti. Creonte ribatte da
cortigiano, dicendo di avere tutti i vantaggi
senza gli inconvenienti del capo, per cui non è suo interesse passare
dal ruolo di vice a quello di tiranno; come si vede parla in maniera logica,
con qualche sfumatura di ipocrisia e di malevolenza che è difficile non
attribuirgli dopo avere letto l'Antigone .
Con il verso 634 debutta Giocasta, la magna mater et magistra , che cerca di mettere pace tra i suoi
uomini, il fratello e il marito-figlio, e di porre fine all'angosciosa ricerca
di Edipo. Per ottenere questo scopo dettato dall'istinto di sopravvivenza, la
sciagurata non si perita di negare valore all'arte profetica (v.709); ma,
mentre racconta la morte di Laio al fine di coonestare la propria empietà, dà
notizie che fanno rabbrividire Edipo, il quale teme di essere l'uccisore del
vecchio , e racconta il suo ricordo della sua strage.
La paura del re è quella di essere l'assassino del
predecessore, e perciò il mivasma della
città. Affinché il massacro compiuto da Edipo e quello subìto da Laio con il
seguito siano due cose diverse, bisogna che l'unico sopravvissuto della scorta
tebana confermi quello che si dice: i predoni uccisori erano più di uno.
Probabilmente una voce fatta mettere in giro dall'ambiente della corte, forse
dalla stessa Giocasta per scagionare il secondo marito il quale le raccontò di avere ammazzato da solo. Di fatto la regina è riluttante a
fare venire il testimone, ma Edipo impone che sia convocato. E' davvero anomalo
questo re-tiranno inteso a dissipare la "nebbia folta" e ad abbattere
il "muro sì grosso" interposto tra il palazzo e la piazza. Vuole fare
chiarezza sulla strage da lui compiuta tanto tempo prima in un trivio. Pensate
alle stragi compiute in Italia da Portella della ginestra in avanti. Su queste
nessun governo ha mai voluto fare chiarezza. Del resto la ragione di tanta
oscura segretezza è chiara.
Nel secondo stasimo (vv.862-910)
il coro raccomanda la purezza sia delle parole sia delle azioni, e l'ossequio a
quelle leggi divine nate nel cielo che
gli uomini non possono cancellare, poichè, come si dice anche nell'Antigone (v.454) non sono scritte e non sono vacillanti.
Piuttosto traballa il tiranno generato dalla prepotenza che
lo fa salire sui fastigi del potere, ma siccome non gli dà una base morale, non
può evitargli la caduta precipitosa negli abissi scoscesi della rovina.
La teoria opposta viene formulata nel Gorgia di Platone dal
personaggio di Callicle il quale sostiene (483a-d) che legge naturale è la prepotenza del più forte e che
la giustizia perequativa è una falsificazione architettata dai deboli, confederati insieme per
contraffare la natura e non lasciarsi schiacciare da chi ne ha le capacità e il
diritto.
Il coro di vecchi tebani prega affinché la tirannide non
prevalga. Il despota non giova a nessuno, tanto meno a se stesso.
Già Esiodo nelle Opere (vv.265-266) aveva scritto che prepara i mali
per sé chi li apparecchia ad un altro, e che il pensiero cattivo è pessimo per
chi l'ha pensato.
Del resto, si domanda Sofocle, se le azioni malvagie sono
onorate, che senso ha questo mio canto? Se gli improbi non vengono confutati,
perdono la loro ragione di essere l'arte, la religione, e gli dei vanno in
malora.
Terzo episodio(vv.911-1086).
Giocasta rivolge una preghiera ad Apollo, ma quando arriva
da Corinto un messo per annunziare che Polibo è morto di morte naturale, la
regina maledice gli oracoli ripetutamente e spinge Edipo ad imitarla. Il
fatidico altare di Delfi dunque ha sbagliato indicando nel figlio di Polibo
l'assassino del padre, e i vaticini pitici giacciono nella tomba con il re
defunto. A Edipo rimane l'angoscia delle nozze con la madre, preannunciate
anch'esse dall'ombelico del mondo, ma questa paura, obietta Giocasta, è vana, siccome fatta della materia di cui sono fatti i sogni.
Interviene però il messaggero corinzio a disilludere la
coppia reale: Edipo non è figlio di Polibo, ma fu portato sulla città
dell'Istmo da lui stesso che lo aveva ricevuto da un pastore tebano. Il corifeo
anzi suppone che questo sia il servo già mandato a chiamare per riferire
sull'assassinio di Laio (vv.1051-1052). La madre ora ha capito e fugge via inorridita.
Edipo crede di
essere un trovatello, e pensa che la
donna si sia allontanata perché si vergogna della sua umile origine , ma
egli si proclama pai'da
th'" Tuvch"
figlio della Fortuna (v.1080), con un'espressione divenuta tovpo" letterario e utilizzata dal classicista
Petronio nella chiacchierata dei liberti: "plane Fortunae filius"( Satiricon,
43).
Il terzo stasimo(vv.1086-1109)
è un inno al Citerone che ha nutrito Edipo; contiene note di esultanza che
devono stridere acutamente con l'esplosione di dolore dei versi successivi. E'
questo un elemento tipico della tecnica sofoclea: il canto trionfale poco prima
della catastrofe si trova anche nell'Antigone,
nell'Aiace e nelle Trachinie.
Mette in rilievo la fragilità delle ipotesi fatte dalle menti umane.
Quarto episodio (vv.1120-1185). Arriva il servo che
vide la strage, e per giunta viene
riconosciuto dal messo corinzio quale il pastore che gli affidò il bambino
ricevuto da Laio e Giocasta. Il vecchio tebano, pur riluttante, non può negare
la certezza del riconoscimento. Così non c'è più posto per l'ambiguità:
l'infante dai piedi gonfi, gettato via dai genitori e sopravvissuto per la
compassione di due pecorai, è diventato Edipo, ha ucciso suo padre e sposato sua madre. Gli oracoli non hanno mai
torto. Come volevasi dimostrare.
Nel quarto stasimo (vv.1186-1122)
il coro compiange la peripezia del re considerandone la vita, emblematica di quella umana, identica
al nulla quando le vicende che appaiono
come successi alla vista miope dei mortali, e invece sono orrori e miserie,
vengono scoperte dal "tempo che tutto vede""(v.1213) e fa
giustizia.
Nell'esodo (vv.1221-1530)
un secondo messo racconta il suicidio di Giocasta e l'accecamento di Edipo
punitore di se stesso, eJauto;n timwrouvmeno".
Quindi appare il re sconciato che attribuisce ad Apollo la
causa delle sue sofferenze, ma rivendica a sé il coraggio di essersele inflitte con le proprie mani.
Nessun altro mortale avrebbe avuto la forza di sopportare mali tanto grandi. Poi
chiede a Creonte che lo faccia tornare sul suo Citerone e che si prenda cura
delle figlie, Antigone e Ismene, per le quali soltanto si accora, trascurando i
maschi, Eteocle e Polinice, e manifestando ancora un legame di simpatia
esclusiva con il mondo femminile, di avversione malata con quello maschile.
Creonte gli fa toccare per l'ultima volta le bambine, poi gliele toglie e lo
congeda.
Il coro chiude la tragedia con i tetrametri trocaici dai
quali Perrotta inferisce la datazione bassa, ma che il Pearson considera spuri.
Se anche sono aggiunti, i versi contengono un monito plausibile e coerente con
questa favola triste; un avvertimento simile a quello che Solone dà a Creso nel
primo libro delle Storie di Erodoto: nessuno ritenga felice un
mortale prima che abbia passato il termine della vita senza avere sofferto
qualche dolore.
Il principale carattere
espressivo di Sofocle è l'uso etimologico della lingua. Facendo affiorare
l'etimo accanto al significato usuale, il poeta evoca quella ambiguità della
parola drammatica che costituisce uno degli aspetti della sua densità e
significazione particolare. Non solo: Sofocle fa un uso radicale della parola
per arrestare quel logoramento della lingua greca che corrisponde alla
degradazione dello spirito religioso e alla degenerazione della morale. Un poco
come il responso oracolare, come la pitica Sibilla eraclitea, l'affabulazione
dell'Edipo re, "non dice e non
nasconde, significa". Il che non vuol dire artificio, se è vero che il
nostro drammaturgo fu il beniamino del popolo, e che la sua carriera teatrale
agli esordi fu propiziata da un personaggio come Cimone ( Plutarco, Vita
, 8) che al pari degli altri Ateniesi "amava il bello con semplicità e la
cultura senza mollezza" (Tucidide, II,40).
I
Cori presentano le maggiori difficoltà siccome concentrano in
sintesi pregnanti, talora vertiginose, contenuti di fede, elementi di storia,
echi di fatti recenti e di tradizioni antichissime, e per di più la visione del
poeta, se è vero che nel dramma la parte corale costituisce quel famoso
"cantuccio" da dove l'autore, ha migliori possibilità di esprimere il
proprio pensiero senza "introdursi nell'azione". Come tutti i grandi
che hanno molto da dire, Sofocle non è privo di pecche, le quali, dal punto di
vista dell'Anonimo Sul sublime (33) consistono in uno spegnimento
e in una caduta dell'ardente impeto poetico. Un difetto che, secondo il critico
antico, lo accomuna a Pindaro. Privo di scorie invece lo giudica F. Nietzsche:
“Nessuno ha ancora spiegato perché gli scrittori greci abbiano fatto dei mezzi
di espressione, di cui disponevano in quantità e forza sbalorditive, un uso
così straordinariamente parco, che al paragone ogni libro posteriore ai Greci appare sgargiante, variopinto e sforzato…Lo
stile sovraccarico in arte è la conseguenza di un impoverimento della forza di
sintesi…Così è per Shakespeare, che, paragonato con
Sofocle, è come una miniera piena di un'immensità di oro, piombo e ciottoli,
mentre quello non è soltanto oro, ma oro lavorato nel modo più nobile, tale da
far dimenticare il suo valore come metallo”[4].
giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it
Nella foto: un momento dell'Edipo Re cui ho assistito il 12 giugno 2013 al Teatro greco di Siracusa
g.ghiselli@tin.it
Nella foto: un momento dell'Edipo Re cui ho assistito il 12 giugno 2013 al Teatro greco di Siracusa
[1] Cfr. Platone, Cratilo (385e) :"w{sper Prwtagovra" e[legen
levgwn--pavntwn crhmavtwn mevtron ei\nai a[nqrwpon", come diceva Protagora che l'uomo è misura di
tutte le cose.
[1] Nel contesto “ quelli” sono gli dèi le cose.
[2]
Guidorizzi, Il mito di Edipo, p. 148.
[3]
G. Guidorizzi, Sofocle Edipo a Colono, p. XXIII
[4]
F. Nietzsche, Umano, troppo umano,
II, p. 43, p. 45, p. 57.
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