Una
parte della prossima lezione che terrò il 5 marzo dalle 17 alle 19 in via
Zamboni 32 (Istituto di Italianistica e Filologia classica, aula Guglielmi).
Sommario.
La funzione del Coro. Hegel, Leopardi, Manzoni,
Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray.
Pregi del linguaggio poetico. La metafora. Idealismo
di Sofocle e realismo di Euripide.
Le parti quantitative della tragedia: prologo, parodo,
episodi, stasimi, commo, esodo.
Il ritardare è
epico. L’Estetica di Hegel. Tragedia
e Commedia. La critica di A. Schopenhauer. Ancora Nietzsche. In L’uomo
Mosè e la religione monoteistica Freud spiega l’origine della tragedia
attraverso la storia dell’umanità primitiva.
Mimesi e Catarsi
Aristotele, Poetica.
La tragedia è dunque
imitazione di azione seria e compiuta (mivmhsi~ pravxew~
spoudaiva~ kai; teleiva~) che, con
una certa estensione e con parola ornata (hJdusmevnw/
lovgw/)……rappresentata
con attori che agiscono e non raccontata, per mezzo di pietà e terrore,
compie la purificazione da tali affezioni"(di j ejlevou kai;
fovbou peraivnousa th;n tw'n toiouvtwn
paqhmavtwn kavqarsin, 1449b, 28).
Il poeta è un imitatore: “ ejsti mimhth;~ oJ poihthv~ ” (1460b, 8), come un pittore (wJsperei; zwgravfo~) o un altro ritrattista (eijkonopoiov~); allora è necessario che egli imiti in uno dei tre
modi che ci sono: o come le cose erano o sono, o come dicono e sembrano, o come
dovrebbero essere (1460b, 10). Ebbene Sofocle diceva che rappresentava gli
uomini come devono essere, Euripide come sono"(1460b, 34).
Questa famosa affermazione attribuita dal filosofo
stagirita al poeta di Colono dà un'idea della differenza tra l'idealismo
eroicizzante di Sofocle, e il realismo di Euripide che comincia a degradare
l’eroe[1].
Euripide porta lo spettatore sulla scena.
“Prima di Euripide, si aveva a che fare
con uomini eroicamente stilizzati,
dei quali subito si riconosceva l’origine dagli dèi e dai semidei della
tragedia più antica…Con Euripide balza
sulla scena lo spettatore, l’uomo nella realtà della vita di ogni giorno.
Lo specchio, che in precedenza aveva riflesso solo i caratteri grandi e nobili,
si fece più realistico e perciò più volgare…Quella figura assolutamente tipica
dell’uomo greco, la figura di Odisseo,
Eschilo l’aveva innalzata al livello d’un Prometeo magnanimo, astuto e nobile;
tra le mani dei nuovi poeti decadde al ruolo dello schiavo domestico bonario e
scaltro che così spesso sta al centro del dramma come grande intrigante.
Ciò che Euripide nelle Rane di Aristofane si attribuisce a
merito, cioè d’aver svuotato l’arte
tragica e la sua gravità attraverso una cura termale, vale anzitutto per la
figura degli eroi; in sostanza, lo
spettatore, sulla scena euripidea vedeva e ascoltava il suo doppio, sia pur
coperto dell’abbigliamento sfarzoso della reteorica”[2].
Secondo Aristotele dunque l'arte è essenzialmente mimèsi,
imitazione della realtà e proprio per questo il teatro ne costituisce la
quintessenza. Il poeta però, diversamente dallo storico che racconta cose
avvenute, deve volgersi a quello che potrebbe sempre avvenire secondo
verosimiglianza e necessità: “dio; kai; filosofwvteron kai; spoudaiovteron poivhsi~ iJstoriva~
ejstivn” (1451b, 5), e perciò la poesia è più filosofica e più
importante della storia. Infatti la poesia esprime piuttosto l’universale[3],
la storia il particolare.
Anche Polibio[4],
ma da storico, distingue la tragedia
dalla storia. Questa non deve tragw/dei'n, rappresentare
tragedie. Lo scopo
della storia e della tragedia non è lo stesso ma è opposto ("to; ga;r tevlo"
iJstoriva" kai; tragw/diva" ouj taujtovn, ajlla; toujnantivon", Storie, II, 56, 11) in
quanto la tragedia deve impressionare e affascinare
momentaneamente gli spettatori attraverso i discorsi più persuasivi ("dei' dia; tw'n piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to;
paro;n tou;" ajkouvonta"", II, 56, 11)
La storia invece deve istruire e
convincere per sempre con fatti e
discorsi veritieri coloro che vogliono imparare ("dia; tw'n ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to;n pavnta crovnon didavxai kai; pei'sai tou;"
filomaqou'nta""
).
Nella storia ha la precedenza il vero, per
l'utilità di quelli che vogliono imparare ("tajlhqe;"
dia; th;n wjfevleian tw'n
filomaqouvntwn",
II, 56, 12). Quest’ultima affermazione è una delle tante leggi tucididee[5]
presenti in Polibio.
Catarsi e mimesi nell’Amleto di Shakespeare.
Non molto diversamente
l’Amleto di Shakespeare che dice: “I have
heard-that guilty creatures, sitting
at a play,-have, by the very cunning of the scene,-been struck so to the soul that presently-they have proclaim’d their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle
persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità della
scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro
misfatti.
Più avanti anche la teoria
della mimesi è espressa dall’Amleto di Shakespeare: egli definisce “the purpose of playing”, lo scopo dell’arte drammatica, “ whose end, both at the first and now, was
and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature” ( Hamlet, III, 2), il cui
fine, all’inizio come ora, è sempre stato quello di reggere, per così dire, lo
specchio alla natura.
Sentiamo le parole di Bertrand Russel, citato da Murray, sulla
catarsi: “What was eager and grasping,
what was petty and transitory, has faded away. The things that were beautiful
and eternal shine out like stars in the night”[6],
quanto c’era di avido e cupido, quanto c’era di insignificante e transitorio, è
svanito. Le cose che erano belle ed
eterne brillano come stelle nella notte.
Questo è il potere di
trasfigurazione della poesia, e in particolare della tragedia greca.
Ecco allora che la tragedia,
ben lungi dall'assecondare gli impulsi irrazionali come afferma Platone[7], opera una depurazione dalle passioni e un
rasserenamento.
Aristotele
chiarisce meglio di che si tratta quando spiega che il protagonista non può
essere un perfetto malvagio, se deve suscitare pietà, invece di
soddisfazione, né può essere una persona
ottima quella che finisce in rovina, poiché in questo caso provocherebbe
ripugnanza. Insomma il personaggio
tragico deve soffrire per un errore (di j aJmartivan
tinav, 1453a, 10) un difetto intellettuale più che
morale; soffre piuttosto che per un crimine voluto, per un misfatto compiuto
senza saperlo, come quello di Edipo che ha ucciso il padre suo e sposato la
madre sua che non conosceva ; inoltre è necessario che questo disgraziato, e
delinquente per sbaglio, non sia troppo
lontano dalla medietà: poiché la pietà è per chi non si merita i tormenti, il
terrore per chi ci somiglia (e[leo~ me;n peri; to;n ajnavxion, fovbo~ de; peri; to;n o{moion, 1453a, 5).
“Nella Retorica Aristotele colloca
l’aJmartiva a metà strada tra sfortuna (ajtuvchma) e ingiustizia (ajdivkhma): l’aJmavrthma presuppone un atto volontario ma senza malvagità (mh; ajpo; ponhriva~), Rhet.
1374b”[8].
Racine nella Prefazione alla sua Fedra
(1677) scrive che il carattere della protagonista : “ possiede
tutte le qualità che Aristotele esige dall’eroe tragico e che sono adatte a
provocare la compassione e il terrore. In
verità Fedra non è del tutto colpevole né del tutto innocente. Essa è
trascinata dal suo destino e dalla collera degli Dei in una passione
illegittima, della quale è lei per prima ad essere inorridita”.
Leopardi nota che “la poesia, i drammi, i
romanzi, le storie, le pitture ec. ec. non possono durevolmente né molto
dilettare se versano sopra uomini di costumi, opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra…onde
Aristotele non voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe…Da per tutto l’uomo cerca il suo simile,
perché non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso…”[9].
Tragedia e
commedia
L'arte dunque è mimèsi, e,
all'interno di tale categoria, la
tragedia, la sofoclea in particolare, si propone, come Omero, di imitare
personaggi migliori di quelli reali; la commedia peggiori.
Nel prologo del film Melinda e Melinda di Woody
Allen c’è una battuta azzeccata
sulla differenza fra tragedia e commedia: “tragedy
confronts, comedy escapes”, la tragedia istituisce confronti, la commedia è
evasione. Dopo la fine (lieta) delle vicende di Melinda, il medesimo
personaggio della cornice teorica, un commediagrafo, conclude: “we laugh because it masks our real terror
about mortality”, noi ridiamo per mascherare il reale terrore della nostra
mortalità.
“Una tarda testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus
sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la
recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente
colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla declamazione potente
l’altra”[10].
Qualche cosa di analogo dice
Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira
coturnos;/ usibus e mediis soccus habendus erit”[11], i tragici hanno un suono forte: l’ira si addice ai
coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.
Di nuovo Aristotele
Tragedia e commedia nacquero
da un principio di improvvisazione (ajp j ajrch'~ aujtoscediastikh'~, Poetica,
1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo:"ajpo; tw'n ejxarcovntwn to;n
diquvrambon”[12],
mentre la commedia da quelli che dirigevano i canti fallici i quali rimangono
ancora oggi in uso in molte città"(Poetica
, 1449a, 12).
L'origine
del dramma sarebbe dunque da collegarsi
al culto dionisiaco e ai connessi riti della fertilità.
Questi celebrano la nascita, la vita, la morte
e la resurrezione. Dioniso impersona
tutte le fasi dell’alterna vicenda: “ Dioniso è un dio universale-dio della
vita, di ogni rinascita primaverile in piante, animali e uomini, ma anche dio
dei morti. Dio gentile, delizioso,
piacevole e sorridente; dio terribile, distruttore, feroce massacratore.
Dio buono e dio cattivo. Ogni dio antico ha in germe queste due facce…Dioniso è
entrambe le cose al massimo grado: è delizia e terrore… In Dioniso si manifesta
più chiaramente che in tutte le altre divinità ciò che per i greci-e non solo
per i greci-è il tratto principale degli
dèi: il loro essere inquietanti, il non saper mai come reagiranno, il non
sapere che cosa faranno. Per questo Esiodo parla di “inquietante casta degli
dèi”[13].
Si tratta comunque di arte
per il popolo e di contenuto
fondamentalmente religioso. "Il dramma perfetto è la messa", ebbe
infatti a scrivere Eliot, non ricordo dove.
Posso invece citare Richard Wagner : “L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un atto religioso vero e proprio; e in quest’atto, paragonato alla
semplicità delle cerimonie religiose primitive, già s’affacciava il desiderio
di rappresentare collettivamente e deliberatamente il ricordo comune…La tragedia fu dunque il trasformarsi di
una cerimonia religiosa in opera d’arte”[14].
Quindi Thomas Mann: “un artista che, come Wagner, era abituato a
maneggiare simboli e ad innalzare ostensori, doveva finire per sentirsi fratello del sacerdote, sacerdote egli
stesso”[15].
Aggiungo Jacob
Burckhardt: “ il dramma greco non era sorto come divertimento e
passatempo…bensì quale parte di un importantissimo culto della polis. Non era una risorsa, e neppure
uno svago per una élite di
“intellettuali” e di annoiati, ma un altissimo interesse di tutta la
cittadinanza in festa”[16].
Leopardi svaluta il dramma.
Opposta è l’opinione di G.Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo
e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e
per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua…. Trattenimento
liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la
lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235-4236).
Ma torniamo ad Aristotele.
All'inizio nel dramma dovette
essere di gran lunga preponderante la parte corale[17],
poi, da Eschilo in avanti, questa si restrinse. Aristotele ricorda che Eschilo portò il numero degli attori da uno a
due, ridusse la parte del coro, e rese protagonista la parola (kai; ta; tou' corou' hjlavttwse
kai; to;n lovgon prwtagwnistei'n pareskeuvasen, Poetica, 1449a, 15-18
).
Infatti il dramma greco
rispetto al melodramma moderno è logocentrico.
Con lovgo~ intendo più la parola parlata che quella scritta: “Il
mondo greco era anzitutto il mondo della parola parlata”[18].
Gli attori erano tutti maschi; ciascuno usava una
maschera (provswpon, cfr. lat persona[19]) e poteva
interpretare più parti in una stessa tragedia.
La tragedia complessa presenta peripezia e
riconoscimento. Infine c’è la catastrofe.
"Peripezia (peripevteia) è il
cambiamento repentino di ciò che accade nel suo opposto, cosa che deve avvenire
in maniera verosimile e necessaria"(Poetica, 1452a, 11).
Questo capovolgimento che
inganna le attese ottimistiche è tipica dei drammi di Sofocle: "In quattro tragedie, e cioè Antigone,
Aiace, Edipo re, Trachinie, poco prima della catastrofe, il Coro, convinto
o illuso che le cose stiano cambiando in meglio, si abbandona a una danza
allegra, l'iporchema. Teatralmente è una trovata geniale. Il pubblico che
è, per così dire, preveggente in quanto conosce la trama della vicenda, soffre
per la cecità del Coro, per la sua incapacità di prepararsi al peggio…La
tragedia di Sofocle è il resoconto di un assedio a cui il protagonista è
sottoposto, per lo più in modo terribile, e che si conclude con l'espugnazione
del suo mondo. Si può individuare una linea che ora ascende e ora discende, c'è un momento in cui l'eroe sembra
spuntarla sul male e sui nemici. Almeno così ritiene il Coro in quattro
tragedie su sette. Il suo comportamento
sottolinea l'inadeguatezza della ragione umana nel cogliere i movimenti
profondi del divenire"[20].
“Forse è un decreto della
provvidenza che ci colga l’euforia quando stiamo davanti all’abisso”[21].
Ora veniamo al riconoscimento.
Esso è, come dice la parola ejx ajgnoiva~ eij~ gnw'sin
metabolhv (1452a, 30 ) un cambiamento
dalla non conoscenza alla conoscenza.
. Ci sono diversi tipi di
riconoscimento.
Kallivsth de; ajnagnwvrisi~ è quello che avviene insieme con la peripezia (o{tan a{ma peripeteiva/ gevnhtai, 1452
a , 32-33) come per esempio nell’Edipo re.
I caratteri
devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la
donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché,
precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco conto (fau'lon).
“Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune
anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione”[22].
La seconda
qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si
addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton
gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh;n ei\nai, 1454a, 23).
Quanto
all’essere deinhv della
donna, Medea impersona invece queste terribilità: così la presenta la Nutrice nel Prologo della
tragedia: “ Siccome è tremenda (deinh; gavr): nessuno
certo che abbia stretto/odio con lei, intonerà facilmente il canto della
vittoria (Medea, vv. 44-45).
Aristotele procede indicando modelli negativi: Menelao
nell'Oreste[23]
di Euripide costituisce un esempio di malvagità di carattere non necessaria,
mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia
in Aulide[24]
è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).
Tornerò su questi aspetti del dramma, ma intanto
chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e crudeltà i personaggi
identificabili come “Spartani" nelle tragedie rappresentate durante gli
anni della Guerra del Peloponneso[25],
con lo scopo di dare un'immagine negativa della città nemica di Atene.
Quanto a Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla successiva"
(1454a, 32).
Interessante è anche la
condanna del mostruoso, to; teratw'de~ ( 1453b, 9):
coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso ( to; foberovn) , "non hanno nulla in comune con la
tragedia".
Ho riferito questa
affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte
del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà,
insomma il ritorno e la rivincita del Caos:"se
l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[26]
che era un idiota squartatore di prostitute, pensa il raffinato e indolente
protagonista del romanzo di Musil.
Del resto il truculento e il
mostruoso entra in nella tragedia in gran quantità con Seneca e procede con
Shakespeare.
La funzione del coro.
Senofonte, Demostene, Hegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray.
Chi è interessato a questa parte può chiedermela.
Torniamo alla Poetica
di Aristotele con un altro argomento. Degne di nota sono le considerazioni sul linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai;
mh; tapeinh;n ei\nai” (1458a, 18
). Pregio del linguaggio è essere chiaro e non pedestre.
Il poeta deve discostarsi dall’usuale. Il linguaggio
si scosta dall’ordinario quando usa espressioni peregrine:“xeniko;n de; levgw glw'ttan kai; metafora;n kai; ejpevktasin kai; pa'n to;
para; to; kuvrion” (1458a, 22 ), con peregrino intendo la glossa, la
metafora, allungamento e ogni forma contraria all’usuale. Glossa è la locuzione
non comune, quella di cui non tutti fanno uso (1457b, 4). Metafora è
l’applicazione di un nome altrui: “metafora; dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7). La città fluttua (povli~ …saleuvei, Edipo re, 22-23
“E’ in questo senso che un
poeta dice: “La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora”.
La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai
lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che
produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e
l’isolamento delle cose”[27].
“Le due realtà,
identificandosi nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente,
si neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica
mentale”[28].
Nella Retorica Aristotele dà
questo suggerimento :"bisogna rendere peregrino il linguaggio (dei' poie'n xevnhn th;n
diavlekton), poiché gli uomini
sono ammiratori delle cose lontane"
(III, 1404b).
Un'affermazione che trova echi nello Zibaldone di Leopardi
dove leggiamo:"le parole lontano ,
antico , e simili sono poeticissime e
piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e
confuse"(1789). E, più avanti (4426):"il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel
lontano, nell'indefinito, nel vago".
Diamo l’ esempio di una bella sequenza polimetaforica
dei Persiani di Eschilo
dove l’u{bri~ è congiunta all' a[th :" u{bri" ga;r ejxanqou's j
ejkavrpwse stavcun--a[th", o{qen pagklauvton ejxama'/ qevro"" ( vv.821-822) la prepotenza
infatti fiorendo dà per frutto una spiga di/ accecamento, da dove falcia una
messe tutta di lacrime.
Infine Aristotele giunge a un giudizio comparato
tra epica e dramma, assegnando il primo posto alla tragedia, poiché essa
contiene tutti gli elementi dell'epopea e in più lo spettacolo scenico e la
musica. Inoltre il dramma ha maggiore vivezza di rappresentazione e riesce
più gradito anche perché è meno diluito: l'Edipo re consta di un numero
di versi dieci volte inferiore a quello dell'Iliade (da 1500
a 15000 circa). “To; ga;r ajqrowvteron h{dion h] pollw'/ kekramevnon tw'/
crovnw/ ” (1462b, 1), in effetti ciò che
è concentrato è più gradevole di quanto è diluito in molto tempo.
Sappiamo che "il ritardare è epico"[29],
mentre il tragico si affretta alla conclusione; l'epos e il suo corrispettivo moderno, il romanzo, sono stati
paragonati a grandi fiumi dal lento fluire, il dramma potremmo assimilarlo
a un impetuoso torrente montano che precipita di roccia in roccia offrendo lo
spettacolo di catastrofi fatte di sangue e fragore il cui rombare prima ci
stordisce, poi ci libera dalla parte oscura e irrazionale.
Hegel
menziona le cosiddette unità aristoteliche,
notando che nella Poetica non c'è traccia di quella di luogo,
contraddetta del resto dalla prassi dei tragediografi: "nelle Eumenidi di Eschilo e nell'Aiace di Sofocle la scena cambia"(Estetica, p.1543).
Aristotele raccomanda solo l’
unità di azione: "la tragedia-afferma-è imitazione di un'azione
compiuta e intera che abbia una certa grandezza"(1450b, 24-25), e questa
non deve essere eccessiva né da una parte né dall'altra, ma offrire con la sua
giusta misura una buona sinossi, o visione d'insieme (1451a, 4 ).
Caratteristica del dramma è la collisione, interna o esterna, tra due unilateralità che dopo
aspra lotta possono distruggersi oppure arrivare ad una sintesi finale
corrispondente al "divino stesso come totalità in sé" (Estetica, p.1540).
Hegel sostiene che l'Antigone
di Sofocle rappresenta al meglio
tale collisione:"Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei,
Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere
pubblici".
“L'esito tragico non ha però sempre bisogno della
morte dei protagonisti per sopprimere
le due unilateralità ed il loro grande onore. E' noto infatti che le Eumenidi
di Eschilo non terminano con la
morte di Oreste o con la rovina delle Eumenidi, queste vendicatrici del
sangue materno e della pietà di fronte ad Apollo, che vuole salvaguardare la
dignità e il rispetto del capo di famiglia e del re e che ha istigato Oreste ad
uccidere Clitennestra; ma ad Oreste la punizione viene condonata e ad entrambe
le divinità è fatto onore"[30].
Tanto il tragico quanto il
comico devono giungere a conciliare le
contraddizioni sulle quali bisogna che, attraverso l'agire umano, prevalga
"una realtà in sé armonica" (p. 1595).
Nella drammaturgia antica si
trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il sacrificio
degli individui:"p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi di Eschilo, concede il diritto alla
venerazione ad entrambe le parti, ad Apollo e alle vergini vendicatrici. Anche
nel Filottete
si giunge ad appianare con l'apparizione divina ed il consiglio di
Eracle la lotta fra Neottolemo e Filottete"(p.1595).
L’ultima
parte dell’Orestea[31] giunge ad una
conciliazione tra la religione dei padri e quella delle madri, tra le
ragioni di Oreste che ha ucciso la madre vendicando il padre tradito e assassinato
da lei, e quella delle Erinni, venerande dee che proteggono i vincoli di
sangue, soprattutto il più forte: quello madre-figlio violato dal giovane il
quale viene processato e assolto, non senza però che le sue accusatrici
ricevano culti e onori dagli Ateniesi.
Nel Filottete[32] il rientro dell'eroe ferito nell'armata dei Greci che
l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e sono rappresentati dal
subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli le armi necessarie alla
presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di Eracle che, disceso dal cielo quale deus
ex machina , promette al protagonista la guarigione e il primo posto
nell'esercito acheo (vv.1420 e sgg.).
Nella commedia si trova a proprio agio la soggettività che "certa di se stessa può sopportare la
dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni"(p. 1591).
L'ultima grande poesia della
Grecia è la commedia di Aristofane
il quale rappresenta figure come Strepsiade e Socrate (Nuvole ), Bacco (Rane),
Cleone (Cavalieri ) piene di presunzione, e risibili per la
"sicurezza ingenua della soggettività"; essi hanno verso loro stessi
una ridicola"fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci
di eseguire ciò che intraprendono"(p.1618).
L'etico e il divino sono abbandonati
al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori sintomi della
decadenza della Grecia"(p.1619).
Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come
stolti” delle commedie di Aristofane: “ Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei
debiti; così per Socrate che si
offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo
sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che
vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc.” Sono personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno
in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci
di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni…che non
perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”[33].
Oggi, dopo le elezioni del febbraio 2013, si può pensare a Bersani.
Woody Allen fa dire a un personaggio del film Crimini e misfatti (1989): “Comedy is tragedy plus time”, la
commedia è la tragedia più del tempo, nel senso che con il passare del tempo i
fatti tragici possono diventare ridicoli.
Potremmo aggiungere che alla
commedia antica di Aristofane manca
quello che Pirandello chiamerà, "il sentimento del contrario". “Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate
ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale”[34].
Il comico richiede contrasti che
possono derivare da sforzi seri indirizzati verso fini meschini, come quando l'avaro prende quale scopo"la morta
astrazione della ricchezza, il danaro", oppure da persone frivole che mirano a bersagli importanti e difficili:"di
tale natura sono, p. e., le Ecclesiazuse di Aristofane, perché qui le donne, che
vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione, conservano tutti i loro
capricci e passioni di donne"(p. 1592).
Nelle Ecclesiazuse[35]
le donne a parlamento fanno un colpo di Stato, prendono il potere, quindi
aboliscono la famiglia e la proprietà instaurando il comunismo della roba e del
sesso. Prassagora, la capobanda, prescrive che "tutti abbiano tutto in
comune"(v.590), la terra, il denaro e quante altre cose ognuno possiede
(v.598). Anche le femmine sono messe in comune per i maschi, a una condizione:"le
più insignificanti e rincagnate staranno accanto alle belle;/poi, chi ha voglia
di una buona, prima deve sbattersi la brutta"(vv. 616-617). Insomma si è
provveduto "perché nessuna resti a buco vuoto"( o{pw~ a}n-mhdemia`~ truvphma
kenovn. vv. 623- 624).
Vediamo ora una critica
contrastiva: quella di A. Schopenhauer,
il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non insegna la rassegnazione,
la rinunzia e la negazione della volontà.
Cassandra,
nell'Agamennone del grande Eschilo,
muore di buon grado, ajrkeivtw
bivo" (v. 1306)[36];
ma anche ella è
consolata dal pensiero della vendetta.
Ercole,
nelle Trachinie, cede alla necessità,
muore tranquillo, ma non rassegnato" [37].
Anche Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra
dedizione al fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma
nessuna rinunzia alla volontà di vivere”[38].
Meglio dunque, secondo Schopenhauer fa la "tragedia cristiana" in
quanto"espone la rinunzia di tutta la volontà alla vita, il lieto
abbandono del mondo, nella coscienza della sua vanità e nullità". Quindi:"Shakespeare
è molto più grande di Sofocle: in confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella
di Euripide.
Le Baccanti
di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti
drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi
repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete.
Quasi tutti mostrano il genere umano
sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione
da ciò provocata e di ciò redentrice. l’esortazione alla rinunzia della volontà
alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[39]"
.
Diversi anni dopo la terza delle Considerazioni inattuali[40], Nietzsche confuta
Schopenhauer e confessa il proprio pentimento per " avere oscurato e
guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[41].
Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi :"Schopenhauer sbaglia
quando fa di certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non
insegna la "rassegnazione".
Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto
di potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte
pessimistica. L'arte afferma"[42].
Possiamo
trovare una nota addirittura ottimistica nelle Supplici di Euripide, del 422, quando si profilava la pur
malsicura pace di Nicia. Teseo, il re di Atene, confuta quanti sostengono che
il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il
male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce.
Dunque il
Pericle in vesti eroiche elogia quello tra gli dèi che ha regolato la nostra
vita da confusa e bestiale (p. 25) che era (ejk pefurmevnou[43] kai; qhriwvdou" ), innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza, poi
dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da capire la voce (vv.
201-205).
Nelle Supplici
Teseo elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato
da Creonte, re, anzi tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota non
è comandata da un uomo solo, ma è libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Concludiamo questa introduzione con un’idea di Freud sull’eroe e sull’origine della tragedia. Freud
presenta un catalogo di eroi : “ I nomi
più noti della serie che comincia con
Sargon, sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre ai quali, tuttavia, Rank[44]
ha raccolto un grande numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla
leggenda, cui viene attribuita, interamente o in frammenti ben riconoscibili,
la stessa vicenda giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle,
Gilgamesh, Anfione e Zeto, e altri…Eroe è colui che coraggiosamente si leva
contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito
insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il
bambino contro la volontà del padre e lo fa salvo nonostante le cattive
intenzioni di questi. L’esposizione nella cassetta è una inconfondibile
raffigurazione simbolica della nascita: la cassetta è il grembo materno,
l’acqua è il liquido amniotico…Nella forma tipica della leggenda la prima
famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la
seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta…Solo nella leggenda di
Edipo questa differenza scompare. Il bambino esposto da una famiglia regale è
accolto da un’altra coppia regale[45]”.
Del resto Edipo è stato salvato dalla compassione di
un pastore.
“Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà
dimenticata, in questo punto va ritrovata l’origine della rappresentazione
dell’eroe: l’eroe che sempre si ribella
al padre e in qualche forma lo uccide. Qui sta anche il vero
fondamento della “colpa tragica” dell’eroe nel dramma, altrimenti difficilmente
dimostrabile. E’ quasi certo che l’eroe
e il coro della tragedia raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei
fratelli.”[46].
Concludo riferendo le differenze che Freud fa notare
tra la religione ebraica e quella cristiana: “Il giudaismo era stato una religione del padre, il cristianesimo
diventò una religione del figlio”. Inoltre: “La religione cristiana non
mantenne l’altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo. Non era più
strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti
simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio per collocare,
seppure in posizione subordinata, molte figure del politeismo, dissimulate
appena…Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di
Ammone sul dio di Ekhnatòn dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una
scena più vasta”[47].
Giovanni Ghiselli http://giovannighiselli.blogspot.it/
[1] Cfr. F. Nietzsche: “mentre Sofocle dipinge ancora
caratteri interi, aggiogando il mito al loro raffinato sviluppo, Euripide
dipinge ormai solo grandi tratti caratteristici, che sanno rivelarsi in
violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto maschere con una sola espressione, vecchi frivoli,
lenoni gabbati, schiavi scaltri in instancabile ripetizione” (La nascita della tragedia, p. 117).
[2] Nietzsche,
Socrate e la tragedia (conferenza del 1870), in Verità e menzogna, p. 52.
[3] “ Deve necessariamente esservi una differenza tra la
vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa differenza? Su questo
punto molte cose sono state scritte specialmente dagli ultimi critici
tedeschi…Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo carattere
“d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 118.
[4] 200ca-118 ca a. C
[5] Tucidide legiferò (" oJ d j ou\n
Qoukidivdh"...ejnomoqevthse")
afferma Luciano (Come si deve scrivere la
storia, 42). La legge della verità divenne ineludibile per i suoi seguaci.
Nell'ultimo capitolo del suo opuscolo
Luciano aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su;n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto alla speranza futura
piuttosto che con adulazione mirando a
compiacere quelli elogiati al momento presente ("pro;" to; hJdu; toi'"
nu'n ejpainoumevnoi"", 63).
[7] “Bisogna concedere che Omero sia sommamente poetico e
il primo dei poeti tragici, ma sapere che
si devono ammetere nella città solo inni agli dèi ed encomi per i buoni.
Se invece accoglierai la Musa
drogata (th;n
hJdusmevnhn Mou'san), in canti lirici ed
epici, piacere e il dolore regneranno nella tua città al posto della legge e
del ragionamento che di volta in volta sembri essare il migliore per la
comunità”, Platone, Repubblica,
607a.
[8] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 325.
[9] Zibaldone,
1848.
[10] M Di Marco, Op.
cit., p. 90.
[11] Remedia amoris,
375-376.
[12] Definito da Archiloco :"il bel canto di Dioniso
signore" fr. 120 West.
[13] Ortega Y Gasset, Idea
del teatro, p. 88. Ortega rimanda al
v. 44 della Teogonia: “qew'n
gevno~ aijdoi'on” che io tradurrei
piuttosto “stirpe veneranda degli dèi.
[14] R. Wagner, L’opera
d’arte dell’avvenire (del 1849), p.
252.
[15] Dolore e grandezza di Wagner in Nobiltà dello spirito
e altri saggi, Meridiani Mondatori, p. 1023
[16] J. Burckhardt, Storia
della civiltà greca (pubblicato nel 1898 da lezioni tenute tra il 1872 e il
1875), 1, p. 1139.
[17] “Il coro originariamente è tutto”, J. Burckhardt, Storia della civiltà greca, 1, p. 1140.
[18] M. Finley, La
democrazia degli antichi e dei moderni, p. 18.
[19] “Un’opinione accreditata e diffusa vuole inoltre che
il nome latino di “maschera” (persona)
non sia che il greco provswpon passato ai Romani attraverso l’etrusco (donde la
diversità delle due forme)” . Prefazione di C. Questa a Plauto Anfitrione, p. 14.
[20] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 51 e p.
251.
[21] C. Wolf, Medea, p. 181
[22] G. Murray, Le
origini dell’Epica Greca, p. 30.
[25] 431-404
a . C. Fa eccezione l’Elena
(del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della
guerra di Troia combattuta per un fantasma.
Tale giudizio contro la guerra si trova anche
alla fine
dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando,
insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è
mai andata, “Zeu;~
d j, wJ" e[ri" gevnoito
kai; fovno" brotw'n,- ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” ( Elettra, vv.
1282-1283), ma Zeus mandò a Ilio
un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra
e strage dei mortali.
[26] L'uomo senza
qualità, p.71.
[27] E. Morin, La
testa ben fatta, p. 94.
[28] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 48.
[29] “Goethe e Schiller, che, verso la fine dell'aprile
1797 ebbero uno scambio di lettere...sul "ritardare" in genere nei
poemi omerici, lo misero addirittura in contrasto con la tensione; essi
veramente non usano questa espressione, ma è chiaro che cosa intendano quando
indicano il procedimento del ritardare come propriamente epico in opposizione a
quello tragico (lettere 19, 21, 22 aprile). Sembra anche a me che il ritardare
mediante digressioni stia nei poemi omerici in opposizione con l'anelito ad un
fine, e senza dubbio Schiller ha ragione per Omero quando pensa che questi ci
dia "soltanto la presenza e l'azione tranquilla delle cose secondo la loro
natura" e che il suo scopo sia "già in ogni punto del suo
movimento". Ma entrambi, tanto Schiller quanto Goethe, innalzano il
procedimento omerico a legge della
poesia epica in generale; e le parole ora citate di Schiller devono valere per
i poeti epici in opposizione ai tragici" (E. Auerbach, Mimesis , p. 5).
[30]Hegel, Estetica
, pp. 1612-1613
[33] Hegel, Estetica,
p. 1618.
[34] Pirandello,
L’umorismo, p. 45.
[36] Basta la vita!
In realtà è il v. 1314.
A questa espressione sconsolata di Cassandra se
ne può accostare una simile dell'Elettra
di Sofocle che del resto desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo:
"tou'
bivou d j oujdei;" povqo" "(Elettra, v. 822),
non ho nessun desiderio di vivere. ndr
[37] Schopenhauer, Supplementi, pp. 112-113.
[38] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione,
in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto
edizioni, p. 113..
[39] A. Schopenhauer, Supplementi,
p. 113.
[40] Schopenhauer
come educatore, III inattuale (1874), p. 166.
[41] Tentativo di autocritica ( aggiunto nel 1886)
alla Nascita della tragedia (del 1876) , p. 12.
[42] Scelta di frammenti postumi, primavera
1888-14, p. 229.
[44] Nella pagina precedente Freud dà questo chiarimento
“Nel 1909 Otto Rank-allora subiva la mia influenza- pubblicava per mio
incitamento uno scritto dal titolo Il
mito della nscita dell’eroe.”
[45] S. Freud, L’uomo
Mosè e la religione monoteistica, primo saggio, in Freud Opere, 1930-1938, pp. 340-342..
[46] S. Freud, Op.
cit., terzo saggio, p. 409.
[47] S. Freud, Op.
cit., terzo saggio, p. 410.
Lo consiglio soprattutto agli studenti e in generale a chi è interessato alla cultura
RispondiEliminaalessandro