NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 1 marzo 2013

Introduzione alla tragedia greca


 Una parte della prossima lezione che terrò il 5 marzo dalle 17 alle 19 in via Zamboni 32 (Istituto di Italianistica e Filologia classica, aula Guglielmi).

Sommario.
La Poetica di Aristotele. La mimesi.  Differenza tra storia e poesia. Aristotele e la catarsi. Pietà e terrore. Il misfatto deve essere compiuto di j aJmartivan tinav,  per un errore. Origini del dramma. Le rappresentazioni. L’opera drammatica come atto religioso. Il dramma antico rispetto al melodramma è logocentrico. Struttura del teatro. La forma e la metrica della tragedia. Le sei parti qualitative: favola, caratteri, linguaggio, pensiero, spettacolo visivo, musica. Il racconto è parte la più importante. Peripezia e riconoscimento. Vari tipi di riconoscimento. Critiche di Euripide (Elettra)  al riconoscimento di Eschilo (Coefore). Le cosiddette unità aristoteliche. A. W. Schlegel e Manzoni. I caratteri. La verosimiglianza e la  coerenza. Critiche a Euripide. Condanna del mostruoso.
La funzione del Coro. Hegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray.
Pregi del linguaggio poetico. La metafora. Idealismo di Sofocle e realismo di Euripide.
Le parti quantitative della tragedia: prologo, parodo, episodi, stasimi, commo, esodo.
 Il ritardare è epico. L’Estetica di Hegel. Tragedia e Commedia. La critica di A. Schopenhauer. Ancora Nietzsche.  In L’uomo Mosè e la religione monoteistica  Freud spiega l’origine della tragedia attraverso la storia dell’umanità primitiva.

Mimesi e Catarsi
Aristotele, Poetica.
La tragedia è dunque imitazione di azione seria e compiuta (mivmhsi~ pravxew~ spoudaiva~ kai; teleiva~) che, con una certa estensione e con parola ornata (hJdusmevnw/ lovgw/)……rappresentata con  attori che agiscono e non   raccontata, per mezzo di pietà e terrore, compie la purificazione da tali affezioni"(di j ejlevou kai; fovbou peraivnousa th;n tw'n toiouvtwn paqhmavtwn kavqarsin, 1449b, 28).

 Il poeta è  un imitatore: “ ejsti mimhth;~ oJ poihthv~ ” (1460b, 8), come un pittore (wJsperei; zwgravfo~) o un altro ritrattista (eijkonopoiov~); allora è necessario che egli imiti in uno dei tre modi che ci sono: o come le cose erano o sono, o come dicono e sembrano, o come dovrebbero essere (1460b, 10). Ebbene Sofocle diceva che rappresentava gli uomini come devono essere, Euripide come sono"(1460b, 34).
Questa  famosa affermazione attribuita dal filosofo stagirita al poeta di Colono dà un'idea della differenza tra l'idealismo eroicizzante di Sofocle, e il realismo di Euripide che comincia a degradare l’eroe[1]. Euripide porta lo spettatore sulla scena.
“Prima di Euripide, si aveva a che fare con uomini eroicamente stilizzati, dei quali subito si riconosceva l’origine dagli dèi e dai semidei della tragedia più antica…Con Euripide balza sulla scena lo spettatore, l’uomo nella realtà della vita di ogni giorno. Lo specchio, che in precedenza aveva riflesso solo i caratteri grandi e nobili, si fece più realistico e perciò più volgare…Quella figura assolutamente tipica dell’uomo greco, la figura di Odisseo, Eschilo l’aveva innalzata al livello d’un Prometeo magnanimo, astuto e nobile; tra le mani dei nuovi poeti decadde al ruolo dello schiavo domestico bonario e scaltro che così spesso sta al centro del dramma come grande intrigante.
Ciò che Euripide nelle Rane di Aristofane si attribuisce a merito, cioè d’aver svuotato l’arte tragica e la sua gravità attraverso una cura termale, vale anzitutto per la figura degli eroi; in sostanza, lo spettatore, sulla scena euripidea vedeva e ascoltava il suo doppio, sia pur coperto dell’abbigliamento sfarzoso della reteorica”[2].


Secondo Aristotele dunque l'arte è essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il teatro ne costituisce la quintessenza. Il poeta però, diversamente dallo storico che racconta cose avvenute, deve volgersi a quello che potrebbe sempre avvenire secondo verosimiglianza e necessità: “dio; kai; filosofwvteron kai; spoudaiovteron poivhsi~ iJstoriva~ ejstivn” (1451b, 5), e perciò la poesia è più filosofica e più importante della storia. Infatti la poesia esprime piuttosto l’universale[3], la storia il particolare.

Anche Polibio[4], ma da storico, distingue la tragedia dalla storia. Questa  non deve tragw/dei'n,  rappresentare tragedie. Lo scopo della storia e della tragedia non è lo stesso ma è opposto ("to; ga;r tevlo" iJstoriva" kai; tragw/diva" ouj taujtovn, ajlla; toujnantivon", Storie,  II, 56, 11) in quanto la tragedia deve impressionare e affascinare momentaneamente gli spettatori attraverso i discorsi più persuasivi ("dei' dia; tw'n piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to; paro;n tou;" ajkouvonta"", II, 56, 11)
La storia invece deve istruire e convincere per sempre con fatti e discorsi veritieri coloro che vogliono imparare ("dia; tw'n ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to;n pavnta crovnon didavxai kai; pei'sai tou;" filomaqou'nta"" ).
Nella storia ha la precedenza il vero, per l'utilità di quelli che vogliono imparare ("tajlhqe;" dia; th;n wjfevleian tw'n filomaqouvntwn", II, 56, 12). Quest’ultima affermazione è una delle tante leggi tucididee[5] presenti in Polibio.

Catarsi e mimesi nell’Amleto di Shakespeare.
Non molto diversamente l’Amleto di Shakespeare che dice: “I have heard-that guilty creatures, sitting at a play,-have, by the very cunning of the scene,-been struck so to the soul that presently-they have proclaim’d their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità della scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro misfatti.  
Più avanti anche la teoria della mimesi è espressa  dall’Amleto di Shakespeare: egli definisce “the purpose of playing”,  lo scopo dell’arte drammatica, “ whose end, both at the first and now, was and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature” ( Hamlet, III, 2),  il cui fine, all’inizio come ora, è sempre stato quello di reggere, per così dire, lo specchio alla natura.

Sentiamo  le parole di Bertrand Russel, citato da Murray, sulla catarsi:What was eager and grasping, what was petty and transitory, has faded away. The things that were beautiful and eternal shine out like stars in the night[6], quanto c’era di avido e cupido, quanto c’era di insignificante e transitorio, è svanito. Le cose che erano belle ed eterne brillano come stelle nella notte.
Questo è il potere di trasfigurazione della poesia, e in particolare della tragedia greca.

Ecco allora che la tragedia, ben lungi dall'assecondare gli impulsi irrazionali come afferma Platone[7],  opera una depurazione dalle passioni e un rasserenamento.

Aristotele chiarisce meglio di che si tratta quando spiega che il protagonista  non può essere un perfetto malvagio, se deve suscitare pietà, invece di soddisfazione, né può essere una persona ottima quella che finisce in rovina, poiché in questo caso provocherebbe ripugnanza. Insomma il personaggio tragico deve soffrire per un errore (di j aJmartivan tinav,  1453a, 10) un difetto intellettuale più che morale; soffre piuttosto che per un crimine voluto, per un misfatto compiuto senza saperlo, come quello di Edipo che ha ucciso il padre suo e sposato la madre sua che non conosceva ; inoltre è necessario che questo disgraziato, e delinquente per sbaglio,  non sia troppo lontano dalla medietà: poiché la pietà è per chi non si merita i tormenti, il terrore per chi ci somiglia (e[leo~ me;n peri; to;n ajnavxion, fovbo~ de; peri; to;n o{moion, 1453a, 5).
“Nella Retorica Aristotele colloca l’aJmartiva a metà strada tra sfortuna (ajtuvchma) e ingiustizia (ajdivkhma): l’aJmavrthma presuppone un atto volontario ma senza malvagità (mh; ajpo; ponhriva~), Rhet. 1374b”[8].
Racine nella Prefazione alla sua Fedra (1677) scrive che  il  carattere della protagonista : “ possiede tutte le qualità che Aristotele esige dall’eroe tragico e che sono adatte a provocare la compassione e il terrore. In verità Fedra non è del tutto colpevole né del tutto innocente. Essa è trascinata dal suo destino e dalla collera degli Dei in una passione illegittima, della quale è lei per prima ad essere inorridita”.
Leopardi nota che “la poesia, i drammi, i romanzi, le storie, le pitture ec. ec. non possono durevolmente né molto dilettare se versano sopra uomini di costumi, opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra…onde Aristotele non voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe…Da per tutto l’uomo cerca il suo simile, perché non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso…”[9].

Tragedia e commedia
L'arte dunque è mimèsi, e, all'interno di tale categoria, la tragedia, la sofoclea in particolare, si propone, come Omero, di imitare personaggi migliori di quelli reali; la commedia peggiori.

Nel prologo del film Melinda e Melinda di Woody Allen c’è una battuta azzeccata sulla differenza fra tragedia e commedia: “tragedy confronts, comedy escapes”, la tragedia istituisce confronti, la commedia è evasione. Dopo la fine (lieta) delle vicende di Melinda, il medesimo personaggio della cornice teorica, un commediagrafo, conclude: “we laugh because it masks our real terror about mortality”, noi ridiamo per mascherare il reale terrore della nostra mortalità. 
“Una tarda testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla declamazione potente l’altra”[10].
Qualche cosa di analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira coturnos;/ usibus e mediis soccus habendus erit[11], i tragici hanno un suono forte: l’ira si addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.


Di nuovo Aristotele
Tragedia e commedia nacquero da un principio di improvvisazione (ajp j ajrch'~ aujtoscediastikh'~, Poetica, 1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo:"ajpo; tw'n ejxarcovntwn to;n diquvrambon[12], mentre la commedia da quelli che dirigevano i canti fallici i quali rimangono ancora oggi in uso in molte città"(Poetica , 1449a, 12).
 L'origine del dramma  sarebbe dunque da collegarsi al culto dionisiaco e ai connessi riti della fertilità.
 Questi celebrano la nascita, la vita, la morte e la resurrezione. Dioniso impersona tutte le fasi dell’alterna vicenda: “ Dioniso è un dio universale-dio della vita, di ogni rinascita primaverile in piante, animali e uomini, ma anche dio dei morti. Dio gentile, delizioso, piacevole e sorridente; dio terribile, distruttore, feroce massacratore. Dio buono e dio cattivo. Ogni dio antico ha in germe queste due facce…Dioniso è entrambe le cose al massimo grado: è delizia e terrore… In Dioniso si manifesta più chiaramente che in tutte le altre divinità ciò che per i greci-e non solo per i greci-è il tratto principale degli dèi: il loro essere inquietanti, il non saper mai come reagiranno, il non sapere che cosa faranno. Per questo Esiodo parla di “inquietante casta degli dèi”[13].
Si tratta comunque di arte per il popolo e di contenuto fondamentalmente religioso. "Il dramma perfetto è la messa", ebbe infatti a scrivere Eliot, non ricordo dove.
Posso invece citare Richard Wagner : “L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un atto religioso vero e proprio; e in quest’atto, paragonato alla semplicità delle cerimonie religiose primitive, già s’affacciava il desiderio di rappresentare collettivamente e deliberatamente il ricordo comune…La tragedia fu dunque il trasformarsi di una cerimonia religiosa in opera d’arte[14].
Quindi Thomas Mann: “un artista che, come Wagner, era abituato a maneggiare simboli e ad innalzare ostensori, doveva finire per sentirsi  fratello del sacerdote, sacerdote egli stesso”[15].

Aggiungo  Jacob Burckhardt: “ il dramma greco non era sorto come divertimento e passatempo…bensì quale parte di un importantissimo culto della polis. Non era una risorsa, e neppure uno svago per una élite di “intellettuali” e di annoiati, ma un altissimo interesse di tutta la cittadinanza in festa”[16].

Leopardi svaluta il dramma.
Opposta è l’opinione di G.Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella  epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua…. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235-4236).

Ma torniamo ad Aristotele.
All'inizio nel dramma dovette essere di gran lunga preponderante la parte corale[17], poi, da Eschilo in avanti, questa si restrinse. Aristotele ricorda che Eschilo portò il numero degli attori da uno a due, ridusse la parte del coro, e rese protagonista la parola (kai; ta; tou' corou' hjlavttwse kai; to;n lovgon prwtagwnistei'n pareskeuvasen, Poetica, 1449a, 15-18 ). 
Infatti il dramma greco rispetto al melodramma moderno è logocentrico.
Con lovgo~ intendo più la parola parlata che quella scritta: “Il mondo greco era anzitutto il mondo della parola parlata”[18].
Gli attori erano tutti maschi; ciascuno usava una maschera (provswpon, cfr. lat persona[19]) e poteva interpretare più parti in una stessa tragedia.

La tragedia complessa presenta peripezia e riconoscimento. Infine c’è la catastrofe.
"Peripezia (peripevteia) è il cambiamento repentino di ciò che accade nel suo opposto, cosa che deve avvenire in maniera verosimile e necessaria"(Poetica, 1452a, 11).
Questo capovolgimento che inganna le attese ottimistiche è tipica dei drammi di Sofocle: "In quattro tragedie, e cioè Antigone, Aiace, Edipo re, Trachinie, poco prima della catastrofe, il Coro, convinto o illuso che le cose stiano cambiando in meglio, si abbandona a una danza allegra, l'iporchema. Teatralmente è una trovata geniale. Il pubblico che è, per così dire, preveggente in quanto conosce la trama della vicenda, soffre per la cecità del Coro, per la sua incapacità di prepararsi al peggio…La tragedia di Sofocle è il resoconto di un assedio a cui il protagonista è sottoposto, per lo più in modo terribile, e che si conclude con l'espugnazione del suo mondo. Si può individuare una linea che ora ascende e ora discende, c'è un momento in cui l'eroe sembra spuntarla sul male e sui nemici. Almeno così ritiene il Coro in quattro tragedie su sette. Il suo comportamento sottolinea l'inadeguatezza della ragione umana nel cogliere i movimenti profondi del divenire"[20].
“Forse è un decreto della provvidenza che ci colga l’euforia quando stiamo davanti all’abisso”[21].
Ora veniamo al riconoscimento.
Esso è, come dice la parola ejx ajgnoiva~ eij~ gnw'sin metabolhv (1452a, 30 ) un cambiamento dalla non conoscenza alla conoscenza.
. Ci sono diversi tipi di riconoscimento.
 Kallivsth de; ajnagnwvrisi~ è quello che avviene insieme con la peripezia (o{tan a{ma peripeteiva/ gevnhtai, 1452 a, 32-33) come per esempio nell’Edipo re.
I caratteri devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché, precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco conto (fau'lon).
Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione[22].
La seconda qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh;n ei\nai, 1454a, 23).

Quanto all’essere deinhv della donna, Medea impersona invece queste terribilità: così la presenta la Nutrice nel Prologo della tragedia: “ Siccome è tremenda (deinh; gavr): nessuno certo che abbia stretto/odio con lei, intonerà facilmente il canto della vittoria (Medea, vv. 44-45). 
Aristotele procede indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[23] di Euripide costituisce un esempio di malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia in Aulide[24] è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).
Tornerò su questi aspetti del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani" nelle tragedie rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[25], con lo scopo di dare un'immagine negativa della città nemica di Atene. 
Quanto a Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla successiva" (1454a, 32).
Interessante è anche la condanna del mostruoso, to;  teratw'de~ ( 1453b, 9): coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso ( to; foberovn) , "non hanno nulla in comune con la tragedia".
Ho riferito questa affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà, insomma il ritorno e la rivincita del Caos:"se l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[26] che era un idiota squartatore di prostitute, pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo di Musil.
Del resto il truculento e il mostruoso entra in nella tragedia in gran quantità con Seneca e procede con Shakespeare.

La funzione del coro.
Senofonte, DemosteneHegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray. Chi è interessato a questa parte può chiedermela.

Torniamo alla Poetica di Aristotele con un altro argomento. Degne di nota sono le considerazioni sul linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh;n ei\nai” (1458a, 18 ).   Pregio del linguaggio  è essere chiaro e non pedestre.
Il poeta deve discostarsi dall’usuale. Il linguaggio si scosta dall’ordinario quando usa espressioni peregrine:“xeniko;n de; levgw glw'ttan kai; metafora;n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion” (1458a, 22 ), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni forma contraria all’usuale. Glossa è la locuzione non comune, quella di cui non tutti fanno uso (1457b, 4). Metafora è l’applicazione di un nome altrui: “metafora; dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7). La città fluttua (povli~saleuvei, Edipo re, 22-23
“E’ in questo senso che un poeta dice: “La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora”. La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e l’isolamento delle cose[27].
“Le due realtà, identificandosi nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica mentale[28].

Nella Retorica Aristotele dà questo suggerimento :"bisogna rendere peregrino il linguaggio (dei' poie'n xevnhn th;n diavlekton), poiché gli uomini sono ammiratori delle cose lontane" (III, 1404b).
 Un'affermazione che trova echi nello Zibaldone  di Leopardi dove leggiamo:"le parole lontano , antico , e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse"(1789). E, più avanti (4426):"il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago".
Diamo l’ esempio di una bella sequenza polimetaforica dei Persiani  di Eschilo dove l’u{bri~ è congiunta  all' a[th  :" u{bri" ga;r ejxanqou's j ejkavrpwse stavcun--a[th", o{qen pagklauvton ejxama'/ qevro"" ( vv.821-822) la prepotenza infatti fiorendo dà per frutto una spiga di/ accecamento, da dove falcia una messe tutta di lacrime.

Infine Aristotele giunge a un giudizio comparato tra epica e dramma, assegnando il primo posto alla tragedia, poiché essa contiene tutti gli elementi dell'epopea e in più lo spettacolo scenico e la musica. Inoltre il dramma ha maggiore vivezza di rappresentazione e riesce più gradito anche perché è meno diluito: l'Edipo re  consta di un numero di versi dieci volte inferiore a quello dell'Iliade (da 1500 a 15000 circa). “To; ga;r ajqrowvteron h{dion h] pollw'/ kekramevnon tw'/ crovnw/ ” (1462b, 1), in effetti ciò che è concentrato è più gradevole di quanto è diluito in molto tempo. 
Sappiamo che "il ritardare è epico"[29], mentre il tragico si affretta alla conclusione; l'epos e il suo corrispettivo moderno, il romanzo, sono stati paragonati a grandi fiumi dal lento fluire, il dramma potremmo assimilarlo a un impetuoso torrente montano che precipita di roccia in roccia offrendo lo spettacolo di catastrofi fatte di sangue e fragore il cui rombare prima ci stordisce, poi ci libera dalla parte oscura e irrazionale.
Hegel menziona  le cosiddette unità aristoteliche, notando che nella Poetica  non c'è traccia di quella di luogo, contraddetta del resto dalla prassi dei tragediografi: "nelle Eumenidi  di Eschilo e nell'Aiace di Sofocle la scena cambia"(Estetica, p.1543).
Aristotele raccomanda solo l’ unità di azione: "la tragedia-afferma-è imitazione di un'azione compiuta e intera che abbia una certa grandezza"(1450b, 24-25), e questa non deve essere eccessiva né da una parte né dall'altra, ma offrire con la sua giusta misura una buona sinossi, o visione d'insieme (1451a, 4 ).

Caratteristica del dramma  è la collisione, interna o esterna, tra due unilateralità che dopo aspra lotta possono distruggersi oppure arrivare ad una sintesi finale corrispondente al "divino stesso come totalità in sé" (Estetica, p.1540).
Hegel sostiene che l'Antigone  di Sofocle  rappresenta al meglio tale collisione:"Antigone onora il legame di sangue, gli dèi sotterranei, Creonte onora solo Zeus, la potenza che governa la vita e il benessere pubblici".
“L'esito tragico non ha però sempre bisogno della morte dei protagonisti per sopprimere le due unilateralità ed il loro grande onore. E' noto infatti che le Eumenidi  di Eschilo non terminano con la morte di Oreste o con la rovina delle Eumenidi, queste vendicatrici del sangue materno e della pietà di fronte ad Apollo, che vuole salvaguardare la dignità e il rispetto del capo di famiglia e del re e che ha istigato Oreste ad uccidere Clitennestra; ma ad Oreste la punizione viene condonata e ad entrambe le divinità è fatto onore"[30].
Tanto il tragico quanto il comico devono giungere a conciliare le contraddizioni sulle quali bisogna che, attraverso l'agire umano, prevalga "una realtà in sé armonica" (p. 1595).
Nella drammaturgia antica si trovano tragedie con simili esiti i quali possono risparmiare il sacrificio degli individui:"p. es. l'Areopago, nelle Eumenidi  di Eschilo, concede il diritto alla venerazione ad entrambe le parti, ad Apollo e alle vergini vendicatrici. Anche nel Filottete  si giunge ad appianare con l'apparizione divina ed il consiglio di Eracle la lotta fra Neottolemo e Filottete"(p.1595).
 L’ultima parte dell’Orestea[31] giunge ad una conciliazione tra la religione dei padri e quella delle madri, tra le ragioni di Oreste che ha ucciso la madre vendicando il padre tradito e assassinato da lei, e quella delle Erinni, venerande dee che proteggono i vincoli di sangue, soprattutto il più forte: quello madre-figlio violato dal giovane il quale viene processato e assolto, non senza però che le sue accusatrici ricevano culti e onori dagli Ateniesi.
Nel Filottete[32] il rientro dell'eroe ferito nell'armata dei Greci che l'avevano abbandonato a Lemno nella solitudine, e sono rappresentati dal subdolo Odisseo il quale con l'inganno vuole sottrargli le armi necessarie alla presa di Troia, avviene in seguito all'apparizione di Eracle che, disceso dal cielo quale deus ex machina , promette al protagonista la guarigione e il primo posto nell'esercito acheo (vv.1420 e sgg.).


Nella commedia si trova a proprio agio la soggettività che "certa di se stessa può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni"(p. 1591).
L'ultima grande poesia della Grecia è la commedia di Aristofane il quale rappresenta figure come Strepsiade e Socrate (Nuvole ), Bacco (Rane), Cleone (Cavalieri ) piene di  presunzione, e risibili per la "sicurezza ingenua della soggettività"; essi hanno verso loro stessi una ridicola"fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono"(p.1618).
L'etico e il divino sono abbandonati al gioco della soggettività, e questo è "uno dei maggiori sintomi della decadenza della Grecia"(p.1619).
Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di Aristofane: “ Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi dei debiti; così per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle donne, dei greci che vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc.” Sono personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse, fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni…che non perdono mai questa sicurezza ingenua della soggettività”[33]. Oggi, dopo le elezioni del febbraio 2013, si può pensare a Bersani.
Woody Allen fa dire a un personaggio del film Crimini e misfatti (1989): “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più del tempo, nel senso che con il passare del tempo i fatti tragici possono diventare ridicoli.
 
Potremmo aggiungere che alla commedia antica di Aristofane manca quello che Pirandello chiamerà, "il sentimento del contrario".  “Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale[34].

Il comico richiede contrasti  che  possono derivare da sforzi seri indirizzati verso fini meschini, come quando l'avaro prende quale scopo"la morta astrazione della ricchezza, il danaro", oppure da persone frivole che mirano a bersagli importanti e difficili:"di tale natura sono, p. e., le Ecclesiazuse  di Aristofane, perché qui le donne, che vogliono deliberare e fondare una nuova costituzione, conservano tutti i loro capricci e passioni di donne"(p. 1592).
Nelle Ecclesiazuse[35] le donne a parlamento fanno un colpo di Stato, prendono il potere, quindi aboliscono la famiglia e la proprietà instaurando il comunismo della roba e del sesso. Prassagora, la capobanda, prescrive che "tutti abbiano tutto in comune"(v.590), la terra, il denaro e quante altre cose ognuno possiede (v.598). Anche le femmine sono messe in comune per i maschi, a una condizione:"le più insignificanti e rincagnate staranno accanto alle belle;/poi, chi ha voglia di una buona, prima deve sbattersi la brutta"(vv. 616-617). Insomma si è provveduto "perché nessuna resti a buco vuoto"( o{pw~ a}n-mhdemia`~ truvphma kenovn. vv. 623- 624).
Vediamo ora una critica contrastiva: quella di A. Schopenhauer, il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non insegna la rassegnazione, la rinunzia e la negazione della volontà.
Cassandra, nell'Agamennone del grande Eschilo, muore di buon grado, ajrkeivtw bivo" (v. 1306)[36]; ma anche ella è consolata dal pensiero della vendetta.
Ercole, nelle Trachinie, cede alla necessità, muore tranquillo, ma non rassegnato" [37]. Anche Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra dedizione al fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma nessuna rinunzia alla volontà di vivere”[38].

Meglio dunque, secondo Schopenhauer  fa la "tragedia cristiana" in quanto"espone la rinunzia di tutta la volontà alla vita, il lieto abbandono del mondo, nella coscienza della sua vanità e nullità". Quindi:"Shakespeare è molto più grande di Sofocle: in confronto all'Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella di Euripide.
Le Baccanti  di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti  e l'Ifigenia fra i Tauri  di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone  ed il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[39]" .
Diversi anni dopo la terza delle Considerazioni inattuali[40], Nietzsche confuta Schopenhauer e confessa il proprio pentimento per " avere oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[41]. Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi :"Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la "rassegnazione". Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte pessimistica. L'arte afferma"[42].
Possiamo trovare una nota addirittura ottimistica nelle Supplici di Euripide, del 422, quando si profilava la pur malsicura pace di Nicia. Teseo, il re di Atene, confuta quanti sostengono che il male prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se fosse maggiore il male non vivremmo nella luce.
 Dunque il Pericle in vesti eroiche elogia quello tra gli dèi che ha regolato la nostra vita da confusa e bestial(p. 25) che era (ejk pefurmevnou[43] kai; qhriwvdou" ), innanzitutto mettendoci dentro l’intelligenza, poi dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da capire la voce (vv. 201-205).
Nelle Supplici  Teseo elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte, re, anzi tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota non è comandata  da un uomo solo, ma è  libera (ejleuqevra povli" , v. 405).

Concludiamo questa introduzione con un’idea di Freud sull’eroe e sull’origine della tragedia. Freud presenta un catalogo di eroi  : “ I nomi più noti della serie che comincia con  Sargon, sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre ai quali, tuttavia, Rank[44] ha raccolto un grande numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla leggenda, cui viene attribuita, interamente o in frammenti ben riconoscibili, la stessa vicenda giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle, Gilgamesh, Anfione e Zeto, e altri…Eroe è colui che coraggiosamente si leva contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il bambino contro la volontà del padre e lo fa salvo nonostante le cattive intenzioni di questi. L’esposizione nella cassetta è una inconfondibile raffigurazione simbolica della nascita: la cassetta è il grembo materno, l’acqua è il liquido amniotico…Nella forma tipica della leggenda la prima famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta…Solo nella leggenda di Edipo questa differenza scompare. Il bambino esposto da una famiglia regale è accolto da un’altra coppia regale[45]”.
Del resto Edipo è stato salvato dalla compassione di un pastore.
“Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, in questo punto va ritrovata l’origine della rappresentazione dell’eroe: l’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide. Qui sta anche il vero fondamento della “colpa tragica” dell’eroe nel dramma, altrimenti difficilmente dimostrabile. E’ quasi certo che l’eroe e il coro della tragedia raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli.[46].
Concludo riferendo le differenze che Freud fa notare tra la religione ebraica e quella cristiana: “Il giudaismo era stato una religione del padre, il cristianesimo diventò una religione del figlio”. Inoltre: “La religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio per collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure del politeismo, dissimulate appena…Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnatòn dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta”[47].





























[1] Cfr. F. Nietzsche: “mentre Sofocle dipinge ancora caratteri interi, aggiogando il mito al loro raffinato sviluppo, Euripide dipinge ormai solo grandi tratti caratteristici, che sanno rivelarsi in violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto maschere con una sola espressione, vecchi frivoli, lenoni gabbati, schiavi scaltri in instancabile ripetizione” (La nascita della tragedia, p. 117).
[2]  Nietzsche, Socrate e la tragedia (conferenza del 1870), in Verità e menzogna, p. 52.
[3] “ Deve necessariamente esservi una differenza tra la vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa differenza? Su questo punto molte cose sono state scritte specialmente dagli ultimi critici tedeschi…Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo carattere “d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 118.
[4] 200ca-118 ca a. C
[5] Tucidide legiferò ("  oJ d  j ou\n Qoukidivdh"...ejnomoqevthse") afferma Luciano (Come si deve scrivere la storia, 42). La legge della verità divenne ineludibile per i suoi seguaci. Nell'ultimo capitolo del suo opuscolo  Luciano aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su;n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto alla speranza futura piuttosto  che con adulazione mirando a compiacere quelli elogiati al momento presente ("pro;" to; hJdu; toi'" nu'n ejpainoumevnoi"", 63).
[6] Euripides and his age, p. 243.
[7] “Bisogna concedere che Omero sia sommamente poetico e il primo dei poeti tragici, ma sapere che  si devono ammetere nella città solo inni agli dèi ed encomi per i buoni. Se invece accoglierai la Musa drogata (th;n hJdusmevnhn Mou'san), in canti lirici ed epici, piacere e il dolore regneranno nella tua città al posto della legge e del ragionamento che di volta in volta sembri essare il migliore per la comunità”,  Platone,   Repubblica, 607a.
[8] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 325.
[9] Zibaldone, 1848.
[10] M Di Marco, Op. cit., p. 90.
[11] Remedia amoris, 375-376.
[12] Definito da Archiloco :"il bel canto di Dioniso signore" fr. 120 West.
[13] Ortega Y Gasset, Idea del teatro, p. 88.  Ortega rimanda al v. 44 della Teogonia: “qew'n gevno~ aijdoi'on” che io tradurrei piuttosto “stirpe veneranda degli dèi.  
[14] R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire  (del 1849), p. 252.
[15] Dolore e grandezza di Wagner in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Meridiani Mondatori, p. 1023
[16] J. Burckhardt, Storia della civiltà greca (pubblicato nel 1898 da lezioni tenute tra il 1872 e il 1875), 1, p. 1139.
[17] “Il coro originariamente è tutto”, J. Burckhardt, Storia della civiltà greca, 1, p. 1140.
[18] M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 18.
[19] “Un’opinione accreditata e diffusa vuole inoltre che il nome latino di “maschera” (persona) non sia che il greco provswpon passato ai Romani attraverso l’etrusco (donde la diversità delle due forme)” . Prefazione di C. Questa a Plauto Anfitrione, p. 14.
[20] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 51 e p. 251.
[21] C. Wolf, Medea,  p. 181
[22] G. Murray, Le origini dell’Epica Greca, p. 30.
[23] Del 408 a. C
[24] Rappresentata postuma, nel 405 a. C.
[25] 431-404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della guerra di Troia combattuta per un fantasma.  Tale giudizio contro la guerra si trova anche
alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu;~ d  jwJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n,- ei[dwlon JElevnh~  ejxevpemy j ej~  [Ilion ” ( Elettra, vv. 1282-1283),  ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.


[26] L'uomo senza qualità,  p.71.
[27] E. Morin, La testa ben fatta, p. 94.
[28] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 48.
[29] “Goethe e Schiller, che, verso la fine dell'aprile 1797 ebbero uno scambio di lettere...sul "ritardare" in genere nei poemi omerici, lo misero addirittura in contrasto con la tensione; essi veramente non usano questa espressione, ma è chiaro che cosa intendano quando indicano il procedimento del ritardare come propriamente epico in opposizione a quello tragico (lettere 19, 21, 22 aprile). Sembra anche a me che il ritardare mediante digressioni stia nei poemi omerici in opposizione con l'anelito ad un fine, e senza dubbio Schiller ha ragione per Omero quando pensa che questi ci dia "soltanto la presenza e l'azione tranquilla delle cose secondo la loro natura" e che il suo scopo sia "già in ogni punto del suo movimento". Ma entrambi, tanto Schiller quanto Goethe, innalzano il procedimento omerico a  legge della poesia epica in generale; e le parole ora citate di Schiller devono valere per i poeti epici in opposizione ai tragici" (E. Auerbach, Mimesis , p. 5).
[30]Hegel, Estetica , pp. 1612-1613
[31] Del 458 a. C
[32] Del 409 a. C. 
[33] Hegel, Estetica, p. 1618.
[34] Pirandello, L’umorismo, p. 45.
[35] Del 393 a. C. Verranno rappresentate quest’anno a Siracusa.
[36] Basta la vita!  In realtà è il v. 1314. A questa espressione sconsolata di Cassandra se ne  può accostare una simile dell'Elettra di Sofocle che del resto desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo: "tou' bivou d  j  oujdei;" povqo" "(Elettra, v. 822), non ho nessun desiderio di vivere. ndr

[37] Schopenhauer, Supplementi, pp. 112-113.
[38] Supplementi al III libro di Il mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer,  Scritti sulla musica e le arti, discanto edizioni, p. 113..
[39] A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.
[40] Schopenhauer come educatore, III inattuale (1874), p. 166.
[41] Tentativo di autocritica ( aggiunto nel 1886) alla Nascita della tragedia (del 1876) , p. 12.
[42] Scelta di frammenti postumi, primavera 1888-14, p. 229.
[43] Participio perfetto medio passivo di fuvrw. La confusione anche qui è emblema di male.
[44] Nella pagina precedente Freud dà questo chiarimento “Nel 1909 Otto Rank-allora subiva la mia influenza- pubblicava per mio incitamento uno scritto dal titolo Il mito della nscita dell’eroe.”
[45] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, primo saggio,  in Freud Opere, 1930-1938, pp. 340-342..
[46] S. Freud, Op. cit., terzo saggio, p. 409.
[47] S. Freud, Op. cit., terzo saggio, p. 410.

1 commento:

  1. Lo consiglio soprattutto agli studenti e in generale a chi è interessato alla cultura
    alessandro

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