Erodoto, attraverso Otane, formula già la
teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale la monarchia degenera
inevitabilmente in tirannide.
Tra i sette nobili Persiani, quando ebbero
parlato anche Megabizo, che propugnava l'oligarchia, quindi Dario, il
quale sosteneva la monarchia e
l'inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell'aristocrazia
(III, 82) verso le rispettive forme deteriori,
prevalse quest'ultimo, il futuro re, con l'argomento che a loro la libertà
era venuta da un monarca, ossia da Ciro, il fondatore dell’impero.
Allora Otane non entrò in lizza per diventare
re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te
a[rcesqai ejqevlw"
(III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato. Il potere,
tanto quello inflitto, quanto quello subito, per Otane non è auspicabile
Le tragedie di Seneca svilupperanno la teoria che il potere è un nucleo
irriducibile di male.
Ma prima del
maestro di Nerone, sentiamo Sofocle,
l’amico di Pericle.
Nell’ Edipo re si legge: “O ricchezza e potere
e arte che prevale/ sull'arte nella vita piena di competizione/quanta invidia
si serba accanto a voi (vv. 380-382).
w\ plou'te kai;
turanniv (v. 380);: ecco le divinità che il tiranno ha messo al posto
di Apollo, i nomi malaugurosi del suo successo apparente. La riduzione di Edipo
a nulla (cfr.vv.1186-1188 [1] ), simbolo della condizione umana
svincolata dall'eterno, svela del tutto la fallacia di tali beni presunti, ma
già questa esclamazione significa l'angoscia del despota davanti alla
constatazione che i suoi sforzi lo hanno portato ad una posizione di privilegio
falso, siccome è diventato soggetto e oggetto di odio.
Il coro di questa
tragedia nella prima antistrofe canta:
"La
prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza, se
si è riempita invano di molti orpelli
che non
sono opportuni e non convengono
salita su
fastigi altissimi
precipita
nella necessità scoscesa
dove non
si avvale di valido piede.
La gara
benefica per la città,
prego dio di non
interromperla
mai;
dio non
cesserò mai di averlo patrono" (vv. 873-882).-
Nella letteratura
greca abbondano, se non gli elogi della povertà, le espressioni di indifferenza
nei confronti del denaro e del potere. Già Archiloco
(fr. 22D) afferma di non curarsi di Gige ricco d'oro e di non amare il potere
("oujk ejrevw
turannivdo""[2]), dandoci la prima attestazione di
questo termine di origine lidia. In seguito sono tante le testimonianze di
scrittori che non pongono ricchezza e potere tra i valori massimi. Possiamo
fare solo qualche esempio.
Euripide in un elogio dell'amicizia dell'Oreste[3] dichiara:"oujk e[stin
oujde;n krei'sson h] fivlo" safhv",/ouj plou'to", ouj
turanniv"" (vv. 1155-1156), non c'è niente di meglio che un amico
vero, non la ricchezza, non il potere.
Una
maledizione del potere si trova già nel precedente dramma Ione[4] in bocca al
protagonista che non esulta all'idea di
divenire principe di Atene e, parlando con il padre presunto Xuto, sostiene la
superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al pptere che viene
smontato del tutto :"del potere lodato a torto/la facciata è piacevole ( to; me;n provswpon[5] hJduv), ma dentro il palazzo/c'è il dolore (tajn dovmoisi de;- luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso
(dedoikw;"
kai; parablevpwn), trascina/il corso
della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto che essendo tiranno
("dhmovth"
a]n eujtuch;"-zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici
malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (vv. 621-628).
Anche una grande quanità di denaro
non interessa a Ione che non vuole sentire rumori ( yovfou~ kluvein, 630) né avere pene cercando di salvare la ricchezza:
preferisce un benessere moderato senza dolore (ei[h g j ejmoiv (me;n ) mevtria mh; lupoumevnw/ , 632).
Per Eteocle delle Fenicie[6] viceversa la divinità più grande è la
tirannide (“th;n qew'n megivsthn w{st j
e[cein Turannivda”v. 506), e, pur di
averla, egli sarebbe disposto anche a salire sugli astri e a scendere sotto
terra.
Sicché egli non cederà mai questo bene supremo:
sarebbe un atto di viltà (ajnandriva, v. 509). Non solo:
il figlio di Giocasta conclude la sua celebrazione del potere dicendo alla
madre che poi lo contraddice :" ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo"
pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d eujsebei'n crewvn", vv. 524-525, se davvero è necessario
commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti
bisogna essere pio.
Confutazioni dell’ Eteocle di Euripide e della smania
di potere.
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide
meritevole di pena di morte (Capitalis
Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico
caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie
li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare:"Nam si violandum est ius, regnandi
gratia/violandum est; aliis rebus pietatem
colas ", (De Officiis
, III, 82).
A Eteocle che
incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più", Giocasta
obietta:"tiv d j
e[sti to; plevon; o[nom j e[cei monon:/ejpei; tav
g j ajrkounq j
iJkana; toi'" ge swvfrosin", Fenicie,
vv. 553-554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta
ai saggi.
Le ricchezze non sono proprietà
privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando
vogliono, a turno, ce le portano via di
nuovo.
Luogo
simile in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto
delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.
Pure Isocrate maledice ricchezza e
potere:"
ajlla; suntevtaktai kai; sunakolouqei' toi'" me;n plou'toi" kai;
dunasteivai" a[noia kai; meta; tauvth" ajkolasiva" (Areopagitico[7], 4) ma alla ricchezza e al potere
è coordinata e segue la pazzia e con questa la licenza.
Ma torniamo a Seneca.
Un altro anatema
del "bene fallace" costituito dal potere si trova nell'Oedipus
di:"Quisquamne regno
gaudet? O fallax bonum,/quantum malorum fronte quam blandā tegis "(vv. 6-7), qualcuno gioisce
del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto un'apparenza così
lusinghiera!
Nelle Fenicie,
il maestro di Nerone fa dire a Giocasta che Eteocle pagherà a caro prezzo
la sua pena con il fatto di essere re:"poenas,
et quidem solvet graves: regnabit "(v.645).
Manzoni nell' Adelchi (V, 8)
rappresenta il protagonista ferito che dice al padre sconfitto:"Godi che
re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad
innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza
il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto.."
Con il potere che si raggiunge attraverso l'ambitio è più indulgente Sallustio:"quod tamen vitium propius virtutem erat ", vizio che tuttavia
era più vicino alla virtù (l'ambizione rispetto alla avidità di ricchezza, (De coniuratione Catilinae, 9).
Torniamo a Erodoto. Tiranno è
anche il mouvnarco" raffigurato da Otane,
nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), come colui che invidia i
migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie.
Infatti dai beni che possiede gli deriva l' u{bri", mentre fin dall'origine gli è innato lo fqovno". Siccome ha questi due
vizi, e[cei pa'san
kakovthta,
detiene ogni malvagità (III, 80, 4).
Dunque egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai;
bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5)
sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
"Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune
fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[8].
Nelle tragedie greche il tiranno è uno
degli obiettivi polemici degli autori .
La mancanza di controllo ne fa l'antitesi del capo
democratico. Tale è Edipo finché non
comprende, tale il Creonte di Sofocle, tale Serse nei Persiani di Eschilo, il grande re il quale, pur se
sconfitto, non è "uJpeuvquno"
povlei" (v. 213), tenuto a rendere
conto alla città, come lo è uno stratego eletto dal popolo.
Nell’Antigone, Creonte pretende di tenere in pugno tutto il potere:
“ejgw;
kravth dh; pavnta kai; qrovnou~ e[cw” ( v. 173); a questo monocratismo, il
religiosissimo Sofocle contrappone
il suo politeismo: nell’Edipo re non solo gli dèi sono molteplici (cfr. la
Parodo dove sono invocati Zeus, Apollo, Atena, Artemide, Dioniso, mentre viene
deprecato Ares), ma una sola dèa, Atena, ha due denominazioni (Cadmea e Onca[9]) e viene pregata in due
templi diversi: nel prologo del dramma il popolo sta seduto nelle piazze,
davanti ai duplici templi di Pallade (vv. 20-21).
Eschilo contrappone al potere assoluto
il sistema democratico di Atene quando,
nei Persiani, la regina Atossa domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il padrone
dell'esercito. Allora il corifeo risponde:"ou[tino" dou'loi kevklhntai fwto;" oujd
j uJphvkooi" (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi
né sudditi.
Il re democratico Teseo della tragedia Supplici di Euripide è il paradigma mitico di Pericle che da giovane fu corego
dei Persiani del 472, ossia sostenne
le spese del coro.
La sua famiglia
infatti era tradizionalmente ostile alla tirannide.
Eppure questo stratego, rimasto al vertice della polis
per decenni, non si sottrasse a critiche che biasimavano il suo eccesso di
potere.
Il
commediografo Cratino, critica il
figlio di Agariste in più di un dramma. “In una commedia… dal titolo Chironi, un personaggio è definito “il
grande tiranno”, nato dall’accoppiamento di Crono e di Stasis (fr. 240)…risulta
assolutamente evidente che si tratta di Pericle; poiché questi, di cui era nota
la singolare forma della testa, viene designato, anziché con l’appellativo
omerico di nefelhgerevta~,
con ingegnoso mutamento come kefalhgerevta~: l’”adunatore di nuvole” diventa un “adunatore
di teste”. Pericle era lo Zeus con la testa a punta: così viene definito da Cratino
nelle Tracie (fr. 71)…”[10].
Nonostante l’eccessiva durata e quantità del suo
potere, Pericle del resto non si
appropriò mai di denaro pubblico e se non altro per questo motivo andrebbe
indicato come esempio ai nostri ladri di Stato.
“Pericle rese Atene
grandissima da grande che era e superò in potere molti re e tiranni, ma non
accrebbe di una sola dracma il
patrimonio (mia`/
dracmh` meivzona th;n oujsivan oujk ejpoivhsen) ricevuto in eredità dal padre (Plutarco, Vita di Pericle, 15, 3).
Per quanto
riguarda il suo stile, il figlio di Santippe e di Agariste alcmenoidea, aveva
un’ eloquenza elevata, immune da buffonate plebee e truffaldine, e in lui c’era
anche una compostezza del volto che non cedeva al riso, e finezza di portamento
e semplice eleganza di abbigliamento (5, 1). In questo e in altro gli era stato
maestro Anassagora.
A sua volta Pericle per il
suo disinteresse e il suo stile dovrebbe diventare un esempio per i nostri politici ladri e per
quelli che si travestono da maiali.
I maiali anzi, in confronto a
tali profittatori ignoranti e plebei fanno la loro porca figura.
Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
[1]
“Oh generazioni dei
mortali/come vi conto uguali al nulla/finché siete vive
[2]
Archiloco, frammento 22 D.
"Non
mi importano le ricchezze di Gige pieno d'oro
né
mai mi prese l'invidia, né ammiro
le imprese divine, e non ho brama di grande
potere:
infatti questo è lontano dai miei
occhi".
[3]
Del 408.
[4]
Di datazione incerta (411?)
[5]
Propriamente “la maschera”, cfr. il latino persona.
[6]
411 o 409.
[7]
Del 356.
[8]C.
M. Bowra, Mito E Modernità Della
Letteratura Greca , p. 170.
[9]
Cfr. I sette a Tebe, v. 164
[10]
V. Ehrnberg, Sofocle e Pericle, p.123-124.
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