Poi venne marzo, il marzo del
’79 che fu un mese di gioia.
Giovedì 8 facemmo l’amore per
la prima volta all’aperto. Andammo a desinare al Mulino bruciato, un modesto
locale dell’estrema periferia nord occidentale di Bologna. Eravamo contenti
delle ottime tagliatelle, di noi stessi, più carini e allegri del solito,
dell’aria già tiepida che andava ammorbidendo la terra. Questa non era ancora
fiorita, ma non era più rappresa dal gelo: cominciava a inumidirsi, a
intenerirsi, ad aprirsi, a lasciarsi accarezzare intimamente dal vento che ne
traeva un profumo di vita nascente, un odore fresco con cui stuzzicava i sensi
di uomini, donne e animali. Dopo il pranzo gustoso, Ifigenia mi fissò a lungo,
come faceva in camera nostra quando voleva che andassi a lavarmi per ripetere
l’atto d’amore; quindi, illuminandosi in volto, disse: “Gianni, facciamolo
qui!”
“Qui dove?”, le chiesi,
lusingato, e pure un poco imbarazzato per giunta, guardandomi intorno, “Sulla
sedia, qui sopra il tavolo, o là sotto? Lo sai che ci metterebbero in prigione per atti osceni in luogo
pubblico?”
“Ti prego, ti prego”,
insisteva giovanilmente scherzando, senza ascoltare ragioni di opportunità e di
decenza. “Facciamolo qui! Voglio farlo subito qui, ti prego, dimmi di sì, ti
prego, fammi tutta contenta: oggi è la festa della donna, della tua donna! Ti
prego, che cosa ti costa?”
Mi guardava con i suoi grandi
occhi di daina, neri, unidi e attraversati dal balenare improvviso della
follia. Quella mania erotica che rende pazzo chi ne è posseduto. Pazzo sì, ma
di una follia più saggia della saggezza del mondo.
“Ci costerebbe come minimo
una multa salata, forse finanche la libertà”, le spiegavo di nuovo, “è vietato
dalla legge e magari anche dal buon gusto”.
La giovane donna faceva una
scena ma era pure invasata da Eros che è un dio grande, irresistibile, armato
di frecce anche quando è nudo e quando è in vacanza.
“Ti prego, ti prego, ti
prego: non dirmi di no. Facciamolo almeno una volta, una sola!”, continuava a
ripetere mimando il tono vocale di una bambina che chiede al papà di
soddisfarle un capriccio.
Era la prima volta che faceva
quel gioco semiserio con me; io, sebbene un po’ imbarazzato, lo trovavo
eccitante e carino, siccome sentivo che era dettato da una voglia erotica
autentica.
Qualche mese più tardi invece
il medesimo ludus divenne una
commedia oscena, arifradesca[1],
recitata per provare quanto potere conservasse sulla mia vessata persona e
quanto potessi resisterle: mentre io negavo nervosamente, lei insisteva con
rabbia, finché si arrivava al litigio.
Ma quell’otto marzo remoto,
la brutta degenerazione della schermaglia eccitante e lieta era molto lontana.
Soprattutto perché avevamo una voglia
ancora non appagata di fare l’amore tra noi. Tantoché Ifigenia propose una
soluzione non impossibile, quasi plausibile, e io l’accettai.
A un tratto disse: “Va bene,
qui non si può, mi hai convinta. Ma casa nostra è lontana assai, e io non ne
posso più dalla voglia. Andiamo in un campo vicino: oramai è primavera, cantano
già gli uccellini. Presto arriveranno anche le rondini: “Illa
cantat, nos tacemus. Quando ver venit meum? Quando faciam uti chelidon, ut
tacere desinam?”[2] Ricordi?”
“Sì, ricordo. Va bene
andiamo. La nostra primavera, la più bella della nostra vita, è arrivata.
Possiamo cantare ”.
Chiesi il conto, lo pagai,
presi anche la ricevuta fiscale temendo che venissero a cercarmi per
recapitarmela, magari mentre facevamo l’amore, se pure ci fossimo riusciti, in
uno dei luoghi inameni che avevamo intravisto, con occhio indagatore, intorno
al locale.
Trovammo un campo orribile,
quasi tartareo: ingombro di rottami, recinto dalla ferrovia, dall’autostrada
con tangenziale, e da strade minori, tutte percorse da macchine. Ci stendemmo a
terra tra la carcassa di un camion distrutto, che tuttavia, enorme com’era, ci
copriva dalla vista di tre parti del mondo, e un casotto ligneo, senza porte né
finestre, che ci schermiva dalla quarta. Stesi l’impermeabile in terra dove la
bella donna poteva posare la schiena tornita e la testa ricca di ricci tanto
scuri da riverberare il sole con riflessi violacei. Poi ci spogliammo, senza
rabbrividire. La santa luce del primo fra tutti gli dèi [3]
intiepidiva l’aria.
Ifigenia era umida e fresca come la terra. Il
suo sesso era vivace come un animale giovane, vago di salti giocosi; anche il
mio, nel contatto, acquisiva la vitalità irrefrenabile, esplosiva di un
cucciolo sano, e assecondava la volontà di gioco della compagna.
Quegli atti, sebbene scomodi
e non privi di inquietudine, ci appassionarono, diventarono da giocosi,
gioiosi, e furono iterati innumerevoli volte, finché la terra umida, toccata e
premuta dai corpi, li ebbe annerati in varie parti. Quando fummo sazi, ci
alzammo sfiniti e felici. Quell’otto marzo remoto dunque io e la primaverile
creatura facemmo l’amore con voglia lieta e santa. Me ne sarei ricordato con
nostalgia due anni più tardi, quando la ragazza briosa stava degenerando in una
cupa, stremata istriona, vaga di ciance,
di scene, di applausi, di lucri: era già pronta a inquinarsi in voluttà nefande
e rovinose. Arifradesche appunto [4].
Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
[1] Un poeta comico infamato
da Aristofane, cfr. Cavalieri, v. 1281
[2] E’ una citazione dal Pervigilum Veneris. (vv. 89-90). Quella
canta, noi stiamo in silenzio. Quando viene la mia primavera? Quando farò come
la rondine e smetterò di tacere?
[3] Riporto qui le citazioni sul sole presenti nell’articolo precedente.
Nell’Edipo re di Sofocle il sole è" pavntwn qew'n provmo""(660), il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga" (v. 1425), la fiamma che nutre la vita.
Nell'Edipo a Colono il
sole è, con una ripresa dell'idea
omerica,"oJ pavnta
leuvsswn {Hlio"" (v. 869), Elio che vede tutto; e nell’Antigone
viene invocato come "lampavdo"
iJero;n-o[mma" (vv. 879-880),
santo volto di luce.
[4] Cfr. Aristofane, Cavalieri: “ Arifrade il farabutto…che
in nefande voluttà la lingua inquina: va leccando nei bordelli quella sudicia
pruina” (vv. 1284-1285)
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