NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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sabato 23 marzo 2013

La festa della donna e dell’uomo


Poi venne marzo, il marzo del ’79 che fu un mese di gioia.
Giovedì 8 facemmo l’amore per la prima volta all’aperto. Andammo a desinare al Mulino bruciato, un modesto locale dell’estrema periferia nord occidentale di Bologna. Eravamo contenti delle ottime tagliatelle, di noi stessi, più carini e allegri del solito, dell’aria già tiepida che andava ammorbidendo la terra. Questa non era ancora fiorita, ma non era più rappresa dal gelo: cominciava a inumidirsi, a intenerirsi, ad aprirsi, a lasciarsi accarezzare intimamente dal vento che ne traeva un profumo di vita nascente, un odore fresco con cui stuzzicava i sensi di uomini, donne e animali. Dopo il pranzo gustoso, Ifigenia mi fissò a lungo, come faceva in camera nostra quando voleva che andassi a lavarmi per ripetere l’atto d’amore; quindi, illuminandosi in volto, disse: “Gianni, facciamolo qui!”
“Qui dove?”, le chiesi, lusingato, e pure un poco imbarazzato per giunta, guardandomi intorno, “Sulla sedia, qui sopra il tavolo, o là sotto? Lo sai che ci metterebbero  in prigione per atti osceni in luogo pubblico?”
“Ti prego, ti prego”, insisteva giovanilmente scherzando, senza ascoltare ragioni di opportunità e di decenza. “Facciamolo qui! Voglio farlo subito qui, ti prego, dimmi di sì, ti prego, fammi tutta contenta: oggi è la festa della donna, della tua donna! Ti prego, che  cosa ti costa?”
Mi guardava con i suoi grandi occhi di daina, neri, unidi e attraversati dal balenare improvviso della follia. Quella mania erotica che rende pazzo chi ne è posseduto. Pazzo sì, ma di una follia più saggia della saggezza del mondo.
“Ci costerebbe come minimo una multa salata, forse finanche la libertà”, le spiegavo di nuovo, “è vietato dalla legge e magari anche dal buon gusto”.
La giovane donna faceva una scena ma era pure invasata da Eros che è un dio grande, irresistibile, armato di frecce anche quando è nudo e quando è in vacanza.
“Ti prego, ti prego, ti prego: non dirmi di no. Facciamolo almeno una volta, una sola!”, continuava a ripetere mimando il tono vocale di una bambina che chiede al papà di soddisfarle un capriccio.
Era la prima volta che faceva quel gioco semiserio con me; io, sebbene un po’ imbarazzato, lo trovavo eccitante e carino, siccome sentivo che era dettato da una voglia erotica autentica.
Qualche mese più tardi invece il medesimo ludus divenne una commedia oscena, arifradesca[1], recitata per provare quanto potere conservasse sulla mia vessata persona e quanto potessi resisterle: mentre io negavo nervosamente, lei insisteva con rabbia, finché si arrivava al litigio.
Ma quell’otto marzo remoto, la brutta degenerazione della schermaglia eccitante e lieta era molto lontana. Soprattutto perché avevamo  una voglia ancora non appagata di fare l’amore tra noi. Tantoché Ifigenia propose una soluzione non impossibile, quasi plausibile, e io l’accettai.
A un tratto disse: “Va bene, qui non si può, mi hai convinta. Ma casa nostra è lontana assai, e io non ne posso più dalla voglia. Andiamo in un campo vicino: oramai è primavera, cantano già gli uccellini. Presto arriveranno anche le rondini:  “Illa cantat, nos tacemus. Quando ver venit meum? Quando faciam uti chelidon, ut tacere desinam?[2]   Ricordi?”
“Sì, ricordo. Va bene andiamo. La nostra primavera, la più bella della nostra vita, è arrivata. Possiamo cantare ”.
Chiesi il conto, lo pagai, presi anche la ricevuta fiscale temendo che venissero a cercarmi per recapitarmela, magari mentre facevamo l’amore, se pure ci fossimo riusciti, in uno dei luoghi inameni che avevamo intravisto, con occhio indagatore, intorno al locale.
Trovammo un campo orribile, quasi tartareo: ingombro di rottami, recinto dalla ferrovia, dall’autostrada con tangenziale, e da strade minori, tutte percorse da macchine. Ci stendemmo a terra tra la carcassa di un camion distrutto, che tuttavia, enorme com’era, ci copriva dalla vista di tre parti del mondo, e un casotto ligneo, senza porte né finestre, che ci schermiva dalla quarta. Stesi l’impermeabile in terra dove la bella donna poteva posare la schiena tornita e la testa ricca di ricci tanto scuri da riverberare il sole con riflessi violacei. Poi ci spogliammo, senza rabbrividire. La santa luce del primo fra tutti gli dèi [3] intiepidiva l’aria.
 Ifigenia era umida e fresca come la terra. Il suo sesso era vivace come un animale giovane, vago di salti giocosi; anche il mio, nel contatto, acquisiva la vitalità irrefrenabile, esplosiva di un cucciolo sano, e assecondava la volontà di gioco della compagna.
Quegli atti, sebbene scomodi e non privi di inquietudine, ci appassionarono, diventarono da giocosi, gioiosi, e furono iterati innumerevoli volte, finché la terra umida, toccata e premuta dai corpi, li ebbe annerati in varie parti. Quando fummo sazi, ci alzammo sfiniti e felici. Quell’otto marzo remoto dunque io e la primaverile creatura facemmo l’amore con voglia lieta e santa. Me ne sarei ricordato con nostalgia due anni più tardi, quando la ragazza briosa stava degenerando in una cupa, stremata istriona, vaga di  ciance, di scene, di applausi, di lucri: era già pronta a inquinarsi in voluttà nefande e rovinose. Arifradesche appunto [4].

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it
    

[1] Un poeta comico infamato da  Aristofane, cfr. Cavalieri, v. 1281
[2] E’ una citazione dal Pervigilum Veneris. (vv. 89-90). Quella canta, noi stiamo in silenzio. Quando viene la mia primavera? Quando farò come la rondine e smetterò di tacere?
[3] Riporto qui le citazioni sul sole presenti nell’articolo precedente. Nell’Edipo re di Sofocle  il sole è" pavntwn qew'n provmo""(660),  il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga" (v. 1425), la fiamma che nutre la vita.
Nell'Edipo a Colono  il sole è, con una ripresa dell'idea omerica,"oJ pavnta leuvsswn   {Hlio"" (v. 869), Elio che vede tutto; e nell’Antigone  viene invocato come "lampavdo" iJero;n-o[mma" (vv. 879-880), santo volto di luce.

[4] Cfr. Aristofane, Cavalieri: “ Arifrade il farabutto…che in nefande voluttà la lingua inquina: va leccando nei bordelli quella sudicia pruina” (vv. 1284-1285)

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