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lunedì 11 marzo 2013

L’acustica perfetta di Daria Bignardi



Recensione del libro L’acustica perfetta di Daria Bignardi. Mondatori, Milano, ottobre 2012.
Ho assistito alla presentazione del nuovo romanzo di Daria Bignardi: l’acustica perfetta edito da Mondatori. L’autrice  ne ha parlato con vivace e quasi commossa partecipazione, poi ne ha letto dei brani significativi che sono stati commentati molto benevolmente da alcuni estimatori e amici della giornalista.
Il contesto era molto  elogiativo e ho cominciato a leggere il libro  con qualche diffidenza.  Invece gli elogi erano meritati: la storia è bella, la scrittura scorrevole, le idee e le parole sono chiarissime e non pedestri.
La disposizione dei fatti non senza una dose di suspense tiene sempre desta la curiosità e l’attenzione.
L’ho letto tutto d’un fiato anche per la volontà  di darne notizia agli oltre diecimila 350  frequentatori del mio blog.
Daria Bignardi ha detto che le sue letture preferite sono quelle dei romanzi russi e francesi. Ha pure affermato che le piace molto leggere e scrivere dialoghi. Infatti la vediamo in diretta televisiva porre  vivacemente domande, con una naturalezza che appare non studiata  e ricevere risposte che sembrano improvvisate. Le ho chiesto perché non ha messo i drammaturghi tra i suoi autori prediletti, a partire dai tragici greci, visto che ama i dialoghi, ha fatto il classico, poi il Dams, sia pure senza finirlo, poiché, ha detto,  trovava che quei corsi fossero lenti rispetto ai suoi ritmi.
 Ha risposto che Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, Ibsen, sono imprescindibili, ma le sue preferenza vanno a Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Gogol, Cechov e agli autori francesi.

Ma veniamo al romanzo l’acustica perfetta dove voglio  individuare i topoi della letteratura europea che possono essere fatti risalire a quella greca. Questa appare sempre in filigrana quando i romanzi sono buoni.
Prima di tutti il topos del destino  che è concetto e parola chiave del libro. L’incontro di Arno e Sara adulti, è dovuto a uno stormo di gabbiani sulla pista che ritarda la partenza del volo di lui. I due si erano conosciuti e avevano amoreggiato da adolescenti a Marina di Pietrasanta, poi si erano persi di vista per sedici anni, e all’inizio del romanzo si ritrovano a Milano, sembra per caso, e si sposano.
Arno ha la madre tedesca e, in partenza,  non crede nel destino (p. 28).
 E' tanto tipicamente ellenico questo "amore del fato" che nel romanzo espressionista Berlin Alexanderplatz  di Alfred Döblin si legge:" Non si deve fare il grande con la propria sorte. Io sono nemico del fato. Non sono greco io; sono berlinese"[1].
Eppure il destino aleggia sui protagonisti. In una delle ultime pagine, la dottoressa antroposofica Lucetta Migliore, una figura   rivelatrice come Tiresia nelle tragedie di Sofocle[2] e nel poemetto di Eliot[3], dice al protagonista: “niente è un caso. I destini di noi tutti sono intrecciati, siamo tutti fratelli”.
Arno aveva sempre notato somiglianze e nessi tra le cose senza però capire “fino in fondo” (p. 33).
Alla fine del libro  capisce il destino e gli  stami che fila Cloto accanto alle sorelle, le vergini figlie di Ananche[4].
Nel romanzo della Bignardi, come nella vita, niente avviene per caso.
Gli eventi nel finale si svelano tutti congiunti[5].
A questo proposito possiamo indicare un passo di un autore indicato dalla Bignardi tra i preferiti. Anche secondo me questo scrittore dovrebbe essere letto e riletto, non meno dei miei auctores, accrescitori, greci e latini[6].

 Dostoevskij dunque fa dire allo stariez Zossima che "il mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certo migliore"[7].
Bisogna cogliere i nessi tra cose apparentemente lontane. Ogni uomo ha il suo fato, ogni uomo è un frammento di fato. Ogni persona coincide con il suo fato.
Massimo, il miglior amico di Arno, lo chiama daimon, come fa Eraclito che afferma h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[8].
Dopo tredici anni di matrimonio, tre figli, e varie  fasi di malumori, litigi, alternati con enigmatiche reticenze, Sara sparisce:  lascia Arno con un biglietto posato sul tavolo della cucina:
“Arno, devo partire: Sai quando devi fare una cosa per forza? Ho bisogno di stare sola, di andare a caso,  di uscire dalla gabbia che mi sono costruita. Non ti dico dove vado né quando torno perché non lo so. Pensa tu a cosa dire ai bambini.
Ciao. S.” (p. 61).
Nei mesi seguenti si farà viva rarissime volte con scarni messaggi  scritti sul computer o sul cellulare. Senza specificare dove sia andata o quale cosa concreta faccia.
L’uomo abbandonato in un primo momento prova con rabbia la paura della perdita di identità, di direzione, insomma del caos,  ma un poco alla volta capisce e accetta: nella lettera a Sara che chiude il romanzo riconosce  che il “destino esiste, come dicevi tu: il nostro ci ha uniti, separati, riuniti, separati ancora” (p. 197).
Del resto “il nostro destino siamo noi” (p. 198)
 Ora, dopo i  Greci e Dostoevskij, possiamo ricordare Nietzsche : Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[9].
La storia in sintesi estrema è quella di un “grande” amore fallito. Ma i fallimenti non esistono, o per lo meno sono preordinati poiché fanno parte del compimento dei fatti, del fato, dell’ordine[10] appunto. Fallisce solo quello che non c’è.
Il fato di Arno non era Sara, pur inseguita dall’adolescenza fino al momento della resa dei conti, fino al tempo della comprensione  che Sara non era il suo destino. Il suo  demone infatti era la musica, il violoncello, l’orchestra alla Scala, la città di Milano.
La comprensione nel dolore, dicevo. 
“I dolori sono la sorgente della conoscenza” (p. 122). E’ il tema presente in tanta parte della letteratura europea, un topos sintetizzato da Eschilo con le parole tw` pavqei mavqo~ (Agamennone, 177), attraverso il dolore la comprensione, appunto. E quando arriva  l’ajrti manqanvw [11], il dolore passa e subentra l’accettazione del proprio destino, ossia l’approvazione del proprio io senza la quale non è possibile vivere in pace con se stessi. La storia di Arno  dunque, dopo alterne vicende finisce bene, ossia termina con l’intelligenza dei fatti. Anche i tre figlioli comprendono che la mamma non poteva non andare via poiché nella gabbia con il marito dedicato, consacrato  alla musica, era infelice. “Siamo tutti fratelli, ma ognuno ha il suo destino” dice la donna profetica (p. 193), una bellissima trentenne che, gravemente malata e colpita da enormi sciagure familiari e personali, aveva tratto dal dolore pienezza di volontà e di comprensione. Aveva sofferto e capito tutto, come Tiresia appunto.
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Il romanzo della Bignardi non è una storiella sul tipo di quelle che si raccontano in televisione. E’ una storia seria che contiene la filosofia dell’amore tra un uomo e una donna e dell’amore per la vita. L’ eros è spesso, quasi sempre, associato a eris[12], nella vita, nelle grandi tragedie come nella Medea di Euripide, e nei grandi romanzi prediletti dalla Bignardi come Anna Karenina di Tolstoj[13].
Laddove la comprensione non è totale, entra lo spirito della competizione e del dissidio, un germe patogeno che prima o poi uccide l’amore. Tolstoj viene citato da Guelfo, il saggio padre di Arno: “Chi è felice ha ragione”[14] (p. 152).
Del resto Sara a tredici anni aveva detto: “Mi piacciono gli amori infelici” (p. 139).
Ho messo i rilievo solo alcune quintessenze di questo romanzo, ma gli argomenti sono tanti. C’è la grande attenzione per la natura, quella dell’alta valle tiberina, con i paesaggi dipinti da Piero della Francesca di Borgo Sansepolcro che dista pochi chilometri da Anghiari, il paese dell’infanzia e dell’adolescenza di Arno. Sua madre Klara era arrivata con un’amica ad Arezzo “per vedere l’ affresco della Maria Maddalena di Piero della Francesca” (p. 33). La Bignardi, con finezza linguistica e psicologica, mette qualche toscanismo nelle parole di Arno: “Sonja non mi garbava nemmeno la metà di quanto mi garbava Sara” (p. 106).
C’è la Sardegna rustica, dignitosa e accogliente di Massimo che ci è rimasto e ha preferito insegnare alle elementari piuttosto che all’Università: “Guadagno poco, ma ho meno rotture di scatole” (p. 45). A Sara piaceva quel paesaggio inquieto, in mutazione continua di colori e odori per via del vento. Un paesaggio simile a lei. Arno invece amava sopra tutto e sopra tutti il suo lavoro alla Scala, la città di  Milano,  e là voleva vivere. Il musicista, della natura notava e amava soltanto i suoni. Anche delle persone ascoltava più i suoni che le parole. Sara invece ne osservava a lungo i vari aspetti.
Non erano reciprocamente adatti, nonostante l’attrazione dell’uno per l’altra, e i tre figli.
 Un aspetto del paesaggio ricorrente è il mare con i gabbiani e i cormorani voraci. Questi uccelli, in Shakespeare simboleggiano il tempo che ci divora[15] .
 Arno assimila la Clara dei primi tempi a un gatto “a suo agio in ogni momento e fedele solo a se stessa”. Poi la moglie nell’immaginario del marito diventa  un cormorano: “la scorgi galleggiare inquieta tra le onde, il lungo collo nervoso, e poi-splash-improvvisamente si immerge e non sai dove riemergerà. Non riaffiora mai dove ti aspetti, e se la incontri mentre nuota sotto l’acqua ti spaventa. Una volta mi è capitato di sfiorare un cormorano che nuotava velocissimo: un incontro inquietante. inquietante. Se fuori sembrava una creatura fragile ed elegante, sott’acqua mi aveva dato l’impressione di essere aggressivo, rapace. Mi aveva guardato cattivo, con gli occhi duri” (p. 19).
Il cormorano inquietante può essere essere il simbolo della donna e pure dell’uomo poiché “molte sono le cose inquietanti e nessuna è più inquietante dell’uomo”[16].
In chi legge il romanzo  questa inquietudine si avverte e si accompagna con il desiderio di sapere dove sia andata a finire la moglie sparita senza preavviso, poi invece si attenua, siccome in queste vicende riconosciamo le nostre con gli insuccessi nei campi dove non eravamo dotati, e i successi dove avevamo i mezzi per conseguirli. Riconoscere questa necessaria legge di natura, come fa intelligentemente Arno ammaestrato dal comportamento di Sara, è la quintessenza della saggezza e pure della pietas, umana e religiosa.
La conclusione del romanzo è  proprio  questa accettazione del destino e dei propri limiti da parte di Arno che, superata la sofferenza, scrive a Sara una lettera priva di  risentimento  e ricca di amor fati: “Non soffro. E’ strano, passata la rabbia, non soffro più. Ecco perché nessuno mi consolava, perché non soffrivo! Ero solo arrabbiato. Questo però significa qualcosa: che non ti amo abbastanza. Avevi ragione tu anche in questo, posso vivere senza di te ma non posso vivere senza suonare” (p. 199).
Arno ha imparato a conoscersi e ha realizzato quanto ciascun uomo deve a se stesso: il diventare ciò che si è[17].

Il dolore ha rielaborato la rabbia, e la comprensione l’ha trasformata in gratitudine.
Trascrivo le parole finali della lettera a Sara, le conclusive del libro.
“Se sono diventato un uomo, se non sono soltanto un musicista vanitoso, io lo devo a te.
Suono anche meglio da quando te ne sei andata.
Me l’ha detto ieri il direttore d’orchestra, non certo per consolarmi, non è il tipo.
“Ha sentito finalmente il dolore, professore?” mi ha chiesto, col suo buffo accento, dopo la recita.
Per la prima volta, terminata l’esecuzione, mi ha stretto la mano. Pare che io abbia suonato il miglior assolo di sempre.
Ho sentito il dolore, sì, e l’ho messo in quello che amo.
Ti lascio andare, adesso” (p. 200).

Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it



[1] Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz , p. 63.
[2] Antigone, Edipo re.
[3] And I Tiresias have foresuffered all , The waste Land, 243, e io Tiresia ho presofferto tutto.
[4] Cfr. Omero, Odissea VII, 197-198 e Platone,  Repubblica, 617 d
[5] Cfr. Lucrezio, De rerum natura, I, 450-451.
[6] Orazio nell’Ars poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.
[7] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov ,  p.402.
[8] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo.
[9] Nietzsche, Umano troppo umano  II, Il viandante e la sua ombra, pp.. 155.
[10] Cfr. Dante, Paradiso I, 103-105: “…Le cose tutte quante/hanno ordine tra loro, e questo è forma/che l’universo a Dio fa somigliante”.
[11] Ora comprendo. Lo dice Admeto nell’Alcesti di Euripide (v. 940).  Capisce, come Arno, di avere sbagliato nel chiedere alla moglie il sacrificio della vita.
[12] Competizione che può essere buona ma anche cattiva, come insegna Esiodo. "Eros si associa a Eris, Lotta, quella Eris che Esiodo, nelle Opere e Giorni , colloca "alle radici della terra" (v. 19)" J. P. Vernant, Tra mito e politica , p. 136
[13] Anna “sentì che, a fianco dell'amore che li univa, fra loro si era insediato un certo malvagio spirito di dissidio e che lei non poteva scacciarlo dal cuore di lui, né, ancor meno, dal proprio L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877) , p. 711.
[14] E’ vero, ed è vero che chi è felice è buono. Strabone scrive che gli uomini imitano gli dèi quando fanno del bene,  ma, si potrebbe dire anche meglio, quando sono felici Geografia X, 3, 9.
[15] Nella prima scena di Love’s Labour’ s lost, Ferdinando re di Navarra definisce il Tempo “cormorant devouring Time” (I, 1), il cormorano che ci divora.
[16] E’ una traduzione  dello squillo iniziale del primo stasimo dell'Antigone  :"polla; ta; deina; koujde;n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333)
[17] Cfr. gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pindaro, Pitica II  v. 72, diventa quello che sei.

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