Recensione del libro L’acustica perfetta di Daria Bignardi. Mondatori, Milano, ottobre 2012.
Ho assistito alla
presentazione del nuovo romanzo di Daria Bignardi: l’acustica perfetta edito da Mondatori. L’autrice ne ha parlato con vivace e quasi commossa
partecipazione, poi ne ha letto dei brani significativi che sono stati
commentati molto benevolmente da alcuni estimatori e amici della giornalista.
Il contesto era molto elogiativo e ho cominciato a leggere il libro
con qualche diffidenza. Invece gli elogi erano meritati: la storia è
bella, la scrittura scorrevole, le idee e le parole sono chiarissime e non
pedestri.
La disposizione dei fatti non
senza una dose di suspense tiene sempre desta la curiosità e l’attenzione.
L’ho letto tutto d’un fiato
anche per la volontà di darne notizia
agli oltre diecimila 350 frequentatori
del mio blog.
Daria Bignardi ha detto che
le sue letture preferite sono quelle dei romanzi russi e francesi. Ha pure
affermato che le piace molto leggere e scrivere dialoghi. Infatti la vediamo in
diretta televisiva porre vivacemente domande,
con una naturalezza che appare non studiata
e ricevere risposte che sembrano improvvisate. Le ho chiesto perché non
ha messo i drammaturghi tra i suoi autori prediletti, a partire dai tragici
greci, visto che ama i dialoghi, ha fatto il classico, poi il Dams, sia pure
senza finirlo, poiché, ha detto, trovava
che quei corsi fossero lenti rispetto ai suoi ritmi.
Ha risposto che Eschilo, Sofocle, Euripide,
Shakespeare, Ibsen, sono imprescindibili, ma le sue preferenza vanno a
Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Gogol, Cechov e agli autori francesi.
Ma veniamo al romanzo l’acustica perfetta dove voglio individuare i topoi della letteratura europea che possono essere fatti risalire a
quella greca. Questa appare sempre in filigrana quando i romanzi sono buoni.
Prima di tutti il topos del destino che è concetto e parola chiave del libro.
L’incontro di Arno e Sara adulti, è dovuto a uno stormo di gabbiani sulla pista
che ritarda la partenza del volo di lui. I due si erano conosciuti e avevano
amoreggiato da adolescenti a Marina di Pietrasanta, poi si erano persi di vista
per sedici anni, e all’inizio del romanzo si ritrovano a Milano, sembra per
caso, e si sposano.
Arno ha la madre tedesca e,
in partenza, non crede nel destino (p.
28).
E' tanto tipicamente ellenico questo "amore del
fato" che nel romanzo espressionista Berlin
Alexanderplatz di Alfred Döblin si
legge:" Non si deve fare il grande con la propria sorte. Io sono nemico
del fato. Non sono greco io; sono berlinese"[1].
Eppure il
destino aleggia sui protagonisti. In una delle ultime pagine, la dottoressa
antroposofica Lucetta Migliore, una figura rivelatrice come Tiresia nelle tragedie di
Sofocle[2] e nel poemetto di Eliot[3], dice al protagonista: “niente è
un caso. I destini di noi tutti sono intrecciati, siamo tutti fratelli”.
Arno aveva
sempre notato somiglianze e nessi tra le cose senza però capire “fino in fondo”
(p. 33).
Alla fine
del libro capisce il destino e gli stami che fila Cloto accanto alle sorelle, le
vergini figlie di Ananche[4].
Nel
romanzo della Bignardi, come nella vita, niente avviene per caso.
A questo proposito possiamo
indicare un passo di un autore indicato dalla Bignardi tra i preferiti. Anche
secondo me questo scrittore dovrebbe essere letto e riletto, non meno dei miei auctores, accrescitori, greci e latini[6].
Dostoevskij
dunque fa dire allo stariez Zossima che "il mondo è come l'oceano; tutto
scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo
contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia
chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni
essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei
ora, la vita sarebbe certo migliore"[7].
Bisogna cogliere i nessi tra cose apparentemente
lontane. Ogni uomo ha il suo fato, ogni uomo è un frammento di fato. Ogni
persona coincide con il suo fato.
Massimo, il miglior amico di Arno, lo chiama daimon, come fa Eraclito che afferma h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[8].
Dopo
tredici anni di matrimonio, tre figli, e varie
fasi di malumori, litigi, alternati con enigmatiche reticenze, Sara
sparisce: lascia Arno con un biglietto
posato sul tavolo della cucina:
“Arno,
devo partire: Sai quando devi fare una cosa per forza? Ho bisogno di stare
sola, di andare a caso, di uscire dalla
gabbia che mi sono costruita. Non ti dico dove vado né quando torno perché non
lo so. Pensa tu a cosa dire ai bambini.
Ciao. S.”
(p. 61).
Nei mesi
seguenti si farà viva rarissime volte con scarni messaggi scritti sul computer o sul cellulare. Senza
specificare dove sia andata o quale cosa concreta faccia.
L’uomo
abbandonato in un primo momento prova con rabbia la paura della perdita di
identità, di direzione, insomma del caos,
ma un poco alla volta capisce e accetta: nella lettera a Sara che chiude
il romanzo riconosce che il “destino
esiste, come dicevi tu: il nostro ci ha uniti, separati, riuniti, separati
ancora” (p. 197).
Del resto
“il nostro destino siamo noi” (p. 198)
Ora, dopo i Greci e Dostoevskij, possiamo ricordare
Nietzsche : Tu stesso, povero uomo
pauroso, sei la Moira
incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[9].
La storia in sintesi estrema
è quella di un “grande” amore fallito. Ma i fallimenti non esistono, o per lo
meno sono preordinati poiché fanno parte del compimento dei fatti, del fato,
dell’ordine[10] appunto. Fallisce solo quello che non c’è.
Il fato di Arno non era Sara,
pur inseguita dall’adolescenza fino al momento della resa dei conti, fino al
tempo della comprensione che Sara non
era il suo destino. Il suo demone
infatti era la musica, il violoncello, l’orchestra alla Scala, la città di
Milano.
La comprensione nel dolore,
dicevo.
“I dolori sono la sorgente
della conoscenza” (p. 122). E’ il tema presente in tanta parte della
letteratura europea, un topos sintetizzato da Eschilo con le parole tw` pavqei mavqo~ (Agamennone,
177), attraverso il dolore la comprensione, appunto. E quando arriva l’ajrti manqanvw [11], il dolore passa e subentra l’accettazione del
proprio destino, ossia l’approvazione del proprio io senza la quale non è
possibile vivere in pace con se stessi. La storia di Arno dunque, dopo alterne vicende finisce bene,
ossia termina con l’intelligenza dei fatti. Anche i tre figlioli comprendono
che la mamma non poteva non andare via poiché nella gabbia con il marito
dedicato, consacrato alla musica, era
infelice. “Siamo tutti fratelli, ma ognuno ha il suo destino” dice la donna
profetica (p. 193), una bellissima trentenne che, gravemente malata e colpita
da enormi sciagure familiari e personali, aveva tratto dal dolore pienezza di
volontà e di comprensione. Aveva sofferto e capito tutto, come Tiresia appunto.
.
Il romanzo della Bignardi non
è una storiella sul tipo di quelle che si raccontano in televisione. E’ una
storia seria che contiene la filosofia dell’amore tra un uomo e una donna e
dell’amore per la vita. L’ eros è spesso, quasi sempre, associato a eris[12], nella vita, nelle grandi tragedie come nella Medea di Euripide, e nei grandi romanzi
prediletti dalla Bignardi come Anna
Karenina di Tolstoj[13].
Laddove la comprensione non è totale, entra lo spirito della
competizione e del dissidio, un germe patogeno che prima o poi uccide l’amore.
Tolstoj viene citato da Guelfo, il saggio padre di Arno: “Chi è felice ha ragione”[14] (p. 152).
Del resto Sara a tredici anni
aveva detto: “Mi piacciono gli amori infelici” (p. 139).
Ho messo i rilievo solo
alcune quintessenze di questo romanzo, ma gli argomenti sono tanti. C’è la
grande attenzione per la natura, quella dell’alta valle tiberina, con i
paesaggi dipinti da Piero della Francesca di Borgo Sansepolcro che dista pochi
chilometri da Anghiari, il paese dell’infanzia e dell’adolescenza di Arno. Sua
madre Klara era arrivata con un’amica ad Arezzo “per vedere l’ affresco della
Maria Maddalena di Piero della Francesca” (p. 33). La Bignardi, con finezza
linguistica e psicologica, mette qualche toscanismo nelle parole di Arno:
“Sonja non mi garbava nemmeno la metà di quanto mi garbava Sara” (p. 106).
C’è la Sardegna rustica,
dignitosa e accogliente di Massimo che ci è rimasto e ha preferito insegnare
alle elementari piuttosto che all’Università: “Guadagno poco, ma ho meno
rotture di scatole” (p. 45). A Sara piaceva quel paesaggio inquieto, in
mutazione continua di colori e odori per via del vento. Un paesaggio simile a
lei. Arno invece amava sopra tutto e sopra tutti il suo lavoro alla Scala, la
città di Milano, e là voleva vivere. Il musicista, della
natura notava e amava soltanto i suoni. Anche delle persone ascoltava più i
suoni che le parole. Sara invece ne osservava a lungo i vari aspetti.
Non erano reciprocamente
adatti, nonostante l’attrazione dell’uno per l’altra, e i tre figli.
Un aspetto del paesaggio ricorrente è il mare
con i gabbiani e i cormorani voraci. Questi uccelli, in Shakespeare
simboleggiano il tempo che ci divora[15] .
Arno assimila la Clara dei primi tempi a un
gatto “a suo agio in ogni momento e fedele solo a se stessa”. Poi la moglie
nell’immaginario del marito diventa un
cormorano: “la scorgi galleggiare inquieta tra le onde, il lungo collo nervoso,
e poi-splash-improvvisamente si immerge e non sai dove riemergerà. Non
riaffiora mai dove ti aspetti, e se la incontri mentre nuota sotto l’acqua ti
spaventa. Una volta mi è capitato di sfiorare un cormorano che nuotava
velocissimo: un incontro inquietante. inquietante. Se fuori sembrava una
creatura fragile ed elegante, sott’acqua mi aveva dato l’impressione di essere
aggressivo, rapace. Mi aveva guardato cattivo, con gli occhi duri” (p. 19).
Il cormorano inquietante può
essere essere il simbolo della donna e pure dell’uomo poiché “molte sono le
cose inquietanti e nessuna è più inquietante dell’uomo”[16].
In chi legge il romanzo questa inquietudine si avverte e si
accompagna con il desiderio di sapere dove sia andata a finire la moglie
sparita senza preavviso, poi invece si attenua, siccome in queste vicende
riconosciamo le nostre con gli insuccessi nei campi dove non eravamo dotati, e
i successi dove avevamo i mezzi per conseguirli. Riconoscere questa necessaria
legge di natura, come fa intelligentemente Arno ammaestrato dal comportamento
di Sara, è la quintessenza della saggezza e pure della pietas, umana e religiosa.
La conclusione del romanzo è proprio questa accettazione del destino e dei propri
limiti da parte di Arno che, superata la sofferenza, scrive a Sara una lettera
priva di risentimento e ricca di amor
fati: “Non soffro. E’ strano, passata la rabbia, non soffro più. Ecco
perché nessuno mi consolava, perché non soffrivo! Ero solo arrabbiato. Questo
però significa qualcosa: che non ti amo abbastanza. Avevi ragione tu anche in
questo, posso vivere senza di te ma non posso vivere senza suonare” (p. 199).
Arno ha imparato a conoscersi
e ha realizzato quanto ciascun uomo deve a se stesso: il diventare ciò che si è[17].
Il dolore ha rielaborato la
rabbia, e la comprensione l’ha trasformata in gratitudine.
Trascrivo le parole finali
della lettera a Sara, le conclusive del libro.
“Se sono diventato un uomo,
se non sono soltanto un musicista vanitoso, io lo devo a te.
Suono anche meglio da quando
te ne sei andata.
Me l’ha detto ieri il
direttore d’orchestra, non certo per consolarmi, non è il tipo.
“Ha sentito finalmente il
dolore, professore?” mi ha chiesto, col suo buffo accento, dopo la recita.
Per la prima volta, terminata
l’esecuzione, mi ha stretto la mano. Pare che io abbia suonato il miglior
assolo di sempre.
Ho sentito il dolore, sì, e
l’ho messo in quello che amo.
Ti lascio andare, adesso” (p.
200).
Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it
[2] Antigone, Edipo
re.
[3] And I Tiresias have foresuffered all , The waste Land, 243, e io Tiresia ho
presofferto tutto.
[4]
Cfr. Omero, Odissea VII, 197-198 e Platone,
Repubblica, 617 d
[5] Cfr. Lucrezio, De
rerum natura, I, 450-451.
[6]
Orazio nell’Ars
poetica prescrive: “vos exemplaria
Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e
rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.
[7] F.
Dostoevskij, I fratelli Karamazov , p.402.
[8] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo.
[9] Nietzsche, Umano troppo umano
II, Il viandante e la sua ombra, pp..
155.
[10] Cfr. Dante, Paradiso
I, 103-105: “…Le cose tutte quante/hanno ordine tra loro, e questo è forma/che
l’universo a Dio fa somigliante”.
[11] Ora comprendo. Lo dice Admeto nell’Alcesti di Euripide (v. 940). Capisce, come Arno, di avere sbagliato nel
chiedere alla moglie il sacrificio della vita.
[12] Competizione che può essere buona ma anche cattiva,
come insegna Esiodo. "Eros si associa a Eris, Lotta, quella Eris che
Esiodo, nelle Opere e Giorni ,
colloca "alle radici della terra" (v. 19)" J. P. Vernant, Tra mito e politica , p. 136
[13] Anna “sentì che, a fianco dell'amore che li univa, fra loro si era insediato un certo malvagio spirito di dissidio e
che lei non poteva scacciarlo dal cuore di lui, né, ancor meno, dal proprio L. Tolstoj, Anna
Karenina (del 1877) , p. 711.
[14] E’ vero, ed è vero che chi è felice è buono. Strabone
scrive che gli uomini imitano gli dèi quando fanno del bene, ma, si potrebbe dire anche meglio, quando sono
felici Geografia X, 3, 9.
[15]
Nella prima scena di Love’s Labour’ s
lost, Ferdinando re di Navarra definisce il Tempo “cormorant devouring Time” (I, 1), il cormorano che ci divora.
[16] E’ una traduzione dello squillo iniziale del primo stasimo
dell'Antigone :"polla; ta; deina; koujde;n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333)
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